Saluto di suor Beatrice Salvioni
dell'ufficio stampa delle Paoline
Un grazie a nome dell'editore per la vostra presenza, un grazie al Centro Russia Ecumenica che ci ospita, un grazie all'autore e ai relatori. Il tema di questa sera è molto attuale perché parlare di fede significa parlare del senso della nostra vita, al di là delle modalità con cui questa fede si esprime. Il titolo del libro è più che adatto a esprimere il senso di questa ricerca, e forse l'apparente paradosso è soltanto apparente, perché una fede viva non può che essere incerta, oggi che perfino la scienza ha gettato via una serie di certezze, valorizzando il dubbio come unica possibilità di ricerca autentica. Tanto più questo penso che valga per la fede. Auguro una buona serata a tutti.
Elisa Costanzo coordinastrice
Buonasera. Il libro, a partire dal titolo, si presenta come un paradosso, cosa che piace tanto all'autore. Prima di dare la parola ai relatori vorrei introdurre il tema leggendo solo poche righe a pagina 33. «Un filosofo e uno psicologo discutevano sui massimi sistemi. L’uno chiese: "Tu credi in Dio?". L’altro rispose: "Sì, e tu?". "Io no". Dopo un breve silenzio il primo riprese: "Ma tu che cosa intendi con la parola Dio?". "Esattamente non lo so", replicò il secondo, "e tu che cosa intendi?". "Non lo so". Un matematico che li stava ascoltando mormorò fra sé: "Credono entrambi la stessa cosa"».
Allora dottoressa Jacobelli, alla luce di questo libro, che cosa dobbiamo credere, o non credere?
Relazione di Maria Caterina Jacobelli
315 pagine, non moltissime, scritte in modo scorrevole e chiaro, con una veste tipografica che tiene conto anche di chi, per l'età, non abbia una vista perfetta. Quindi un libro piacevolissimo a leggersi, ma tutt'altro che facile.
Si presenta come un lungo dialogo fra l'autore e un anonimo interlocutore che dice di essere ateo. Questo dialogare, o meglio questo svolgersi dei pensieri dell'autore, rende la lettura più godibile anche nelle parti ad impianto maggiormente filosofico, e quindi meno facili. Ma non è esatto chiamarlo "dialogo". Sono 25 capitoletti raggruppati in 5 parti, durante i quali l'autore parla a quest'amico della propria fede. Ma a chi parla veramente? Ecco la novità del libro: Thellung parla a se stesso, e man mano che argomenta il suo pensiero con lucida chiarezza, si domanda: "ma io, che cosa credo veramente?" Ed è tutto un continuo svolgersi di riflessioni che coinvolge non solo l'autore ma anche chi legge. È questo a renderlo veramente complesso, perché non è possibile separarsi dal testo scritto: ne restiamo coinvolti in prima persona. "Io che cosa credo?". Siamo dentro il testo, siamo interrogati dal testo: non si scappa.
È scritto benissimo, come ho già detto, e intriso di citazioni del vangelo che lo rende succoso, estremamente pieno. Da questa domanda iniziale (in che cosa credo) ne nasce un'altra, e poi un'altra ancora. Mi viene alla mente un ruscello che scorrendo si divide e poi suddivide in mille rivoli: non si riesce a fermarsi su un primo pensiero che già si è spinti più oltre: si va avanti, sempre più avanti. E questo, lo confesso subito, rende molto difficile anche il mio compito di presentarlo, perché dietro il libro c'è una complessità enorme che non lascia tregua, direi. Ho accettato questo incarico con una certa perplessità, perché conoscendo Antonio, conoscendo la spietata profondità con cui va avanti nei suoi pensieri (non ne lascia mai uno per aria ma deve sviscerare ogni argomento) sapevo che mi sarei messa in un'impresa non facile. Questo lo sapevo.
Che l'impresa non sia di poco conto lo si capisce fin dal titolo: Una saldissima fede incerta, che è una perfetta sintesi delle pagine che seguono. Un titolo "alla Thellung" quanti altri mai ce ne possano essere. Più di così non poteva essere chiaro. Può sembrare un ossimoro, e invece no. È un punto fondamentale del libro, posto all'inizio proprio per aiutare il lettore a non perdersi nel successivo sgomitolarsi degli argomenti.
Dice Thellung: Direi che ci sia una bella differenza tra avere fede e credere: fede è cuore che batte nel sentirsi trascinato verso una meta, è adesione esistenziale a qualcosa di attraente, è un modo di essere che cambia la vita: quando il cuore viene coinvolto c'è poco da fare, non si può prendere in giro se stessi. Credere, invece, direi che è l'aspetto razionale della fede (ma anche dell'ingenuità, della superstizione o della faciloneria) e può avere valenza ambigua. E spiega ancora: Fede non è ritenere vero che Dio esiste, ma sentirsi attratti irresistibilmente dai valori divini. Per cui si può credere senza avere fede e aver fede con molte incertezze su che cosa credere o non credere.
Come riferimento biblico, direi che fede è la ruah di Jahvè, il soffio divino posto nell'uomo all'inizio della sua storia. C'è chi pensa che aver fede sia non avere mai dubbi. Personalmente ritengo che "i buoni cristiani" che non hanno mai dubbi è perché non si fanno mai domande.
Dio c'è, Dio non c'è... Ma quale Dio? La prima cosa su cui Thellung si sofferma è la negazione di tutte le immagini divine antropomorfiche. In fondo bastano poche parole per smontarle, ma non è affatto inutile che si sia soffermato per alcune pagine su queste immagini, perché forse non ci rendiamo conto che ce le portiamo dentro, a furia di sentircele ripetere da prima di nascere. E poi, quale Dio? Quello di Oscar Romero o dei suoi assassini? Quello di Lefebvre o di don Milani? Anche il materialista concepisce l'assoluto, comunque lo chiami. E qui c'è un altro interrogativo: una volta fissato il concetto di assoluto, o dell'ente supremo o di quello che vogliamo, ci chiediamo: Dio e il creato sono uno di fronte all'altro? Sono in contrapposizione? No, dice Thellung chiaramente, no perché sarebbe come dire che oltre a Dio esiste qualcosa d'altro. Allora, si domanda, dove sta questo mondo rispetto a Dio? E prende sul serio la sconvolgente affermazione di San Paolo che dice: Dio è tutto in tutti, concludendo coerentemente che allora l'unico rapporto immaginabile sia una totale immersione in lui. Tutto il libro è centrato su questo concetto: l'immersione nell'assoluto, che non è un assoluto a se stante, ma è persona. È un Dio personale che ha posto nella creazione, e massimamente nell'uomo, i suoi stessi cromosomi, affermazione che al primo impatto mi ha sconvolto. Abitualmente siamo abituati a sentir parlare di semi, che sono elementi genericamente naturali, mentre i cromosomi hanno caratteristiche tipicamente umane. Quindi, se i cromosomi umani sono di origine divina, noi esseri limitati abbiamo dentro di noi la stessa materia, la stessa sostanza divina. Quando l'ho letto mi sono spaventata. Perché se è così, allora possiamo entrare in un rapporto diretto. E allora si capisce perché Gesù ci ha detto di chiamare Dio Padre, non per dire che ci vuole bene come un genitore, ma perché siamo autenticamente figli, con i suoi stessi cromosomi. Perché siamo veri figli.
Il libro di Thellung veramente spalanca questa visione, e da lì si diparte un altro dei rivoli principali di questo grande, ricchissimo corso d'acqua, perché c'è dentro tutta la teoria della cosmogenesi di Teilhard de Chardin: La stoffa dell'universo è Spirito-Materia; tessuta di un solo pezzo, seguendo un unico e identico procedimento, ma che di punto in punto non i ripete mai. La Stoffa dell'Universo corrisponde ad una sola figura: essa forma strutturalmente un Tutto…. La Cosmogenesi non percorre una strada casuale e senza meta , ma procede verso un'unica coscienza assoluta. Prima ancora di Teilhard de Chardin il pensiero va a San Paolo. Thellung cita anche le parole del teologo contemporaneo Vito Mancuso, che dice: Dio infuse il suo soffio vitale prima, direttamente nella materia-mater, la quale poi, autonomamente ha dato origine alla vita in tutte le sue forme, compresa quella dell'uomo: se la vita è nata, è perché è sorta dal basso, dalla potenzialità orientata alla vita già da sempre, inscritta nella polvere dell'Universo.
Qui mi ritorna in mente una domanda che tutti i teologi si sono sempre posti: perché Dio si è fatto uomo? Da queste pagine risulta chiaramente che in nuce, in potenzialità, la sua presenza c'era già, c'è sempre stata, nei cromosomi dei suoi figli. Se lo si comprende, allora tutto cambia. Certo noi dobbiamo evolverci, come dice Antonio, la nostra potenzialità divina è presente ma non compiuta, è come un apparecchio in stan by, che però può mettersi a funzionare, basta accenderlo, perché ciascuno ha la possibilità di risvegliare i propri cromosomi divini. Ma può anche dimenticarli e vivere come se non ci fossero. Ma quelli ci sono sempre, e in questo processo Dio e la creazione si fondono in un'opera immensa, che è l'insieme di tutto ciò che si può conoscere o immaginare..
E' bellissimo il commento che l'autore fa della parabola del figlio prodigo: il vecchio padre che lascia andare il figlio dicendogli: io sarò sempre con te, perché ti ho generato con i miei cromosomi, con la mia vita. E, prima ancora di salire sul terrazzo per vedere da lontano se stesse rientrando a casa, gli è già accanto, nel più intimo del suo essere. Perché siamo tutti impastati nella materia divina, e quando sbagliamo ci basta poco per ritrovare la strada: ci basta ricordare che siamo frammenti della potenzialità divina, e che volendo possiamo portarla a maturazione (la meravigliosa e tremenda parabola dei talenti!). Perché non si può disconoscere il proprio sangue, e proprio in forza di questo legame Thellung aggiunge una delle sue frasi paradossali: la felicità di Dio dipende anche da noi. Lo possiamo capire, sia pure confusamente e in maniera approssimativa, ed è un'altra idea sconvolgente. Ecco perché siamo chiamati a compiere il nostro itinerario. Potrei dire che il lettore non se l'aspetta, e infatti questo non è un libro da leggere, ma da masticare e ruminare.
E qui emerge anche un'altra colonna portante dell'opera di Thellung: il senso dell'insieme. Immaginiamo un grande computer con tanti terminali: dobbiamo lavorare tutti insieme se vogliamo muoverci in un'armonia divina, che è appunto armonia d'insieme. Ma che succede se qualcuno va fuori strada? In altre parole, che cos'è e da dove viene il male? Il male che sconvolge e distrugge? Il male dentro e fuori di noi? Si è sempre parlato del mistero del male, ma per una persona che soffre sia il male fisico, sia quello morale, sia per tsunami, terremoti, guerre o quello che volete voi, sentir parlare di mistero suona come una presa in giro. Thellung affronta questo tremendo argomento dicendo: noi siamo porzioni temporanee di Dio, e tutto quello che vediamo dal nostro punto di vista, anche Dio lo vede contemporaneamente dal suo, vivendolo nella sua consapevolezza: E dato che nulla gli è estraneo è come se attraverso di noi egli sperimentasse tutte le esperienze vitali, anche le peggiori. E noi, quando nella nostra ottica ci sentiamo soli, abbandonati, sofferenti, scoraggiati o anche temporaneamente felici ma sempre tendenzialmente soli, è perché siamo incapaci di capire che lui condivide insieme con noi le stesse cose dal suo punto di vista. È come se il Dio dell'insieme dicesse: "Sono sempre io".
Thellung cita anche Mancuso che dice: Il male è un controsenso, dal momento che di definitivo esiste solo il bene. Solo il bene dura, mentre il male è nemico di tutto, anche di se stesso, e per questo non ha alcuna stabilità, è solo disordine, può vivere solo come un parassita, ma presto finisce per divorare anche se stesso. La vittoria finale di Dio e del bene è ben spiegata da queste parole, dal momento che il male non può avere una consistenza autonoma.
Ecco a questo punto un altro rivolo d'acqua che si rende autonomo dal ruscello principale, in questo libro che non cessa di porre a chi legge una domanda a ogni pagina: perché Dio ha creato il mondo? Se ne stava tanto bene per conto suo! Ma non è così, dice Thellung, perché il mondo è necessario all'integrità dell'insieme, perché senza mondo la realtà intera, anche quella divina sarebbe rimasta incompleta. Necessità ontologica dell'insieme, quindi, e condanna senza appello di ogni individualismo: insieme, è la parola chiave di questo libro, né potrebbe essere diversamente dato che il nostro è un Dio plurale: Padre, Figlio, Spirito Santo. Bonum diffusivum sui: il bene ha in se stesso il bisogno di esprimersi e diffondersi. Ed ecco la creazione composta da cromosomi divini.
Thellung cita spessissimo il Prologo di Giovanni, pagina quant'altre mai mirabile, presente in filigrana in tutte le oltre 300 pagine di questo libro che si può dire una vera miniera di teologia vissuta attraverso una "fede" saldissima, come traspare da ogni pagina. Una fede "incerta?" No, direi, una fede granitica, radicata nel vangelo, ma è critica verso tutto ciò che vuole imprigionare il soffio dello Spirito. Ecco la fede che Antonio Thellung ha descritto in questo libro. E' una fede vissuta giorno dopo giorno, plasmatasi nelle difficoltà di una vita piena, sempre tesa a cercare il senso delle cose. Una fede che non blocca l'uomo in una gabbia di dogmi e di misteri, perché non si può giocarsi la vita su dogmi e misteri. Una tale fede è stimolo a lavorare per una realtà migliore. A lavorare per diventare realmente immagine di Dio. perché non lo siamo, non ancora. Lo saremo solo se riusciremo a vincere ogni individualismo. Mentre se ci chiudiamo nel nostro individualismo è la fine. Dio è trasmissione, è relazione, è coinvolgimento, e noi distruggeremmo noi stessi se facessimo il percorso inverso.
Siamo già a buon punto nella lettura di questo libro, e ancora non ci siamo imbattuti in quello che è il dramma, la sconfitta finale: la morte. Antonio Thellung ha in serbo una sorpresa: una pagina sulla resurrezione, sul cardine della nostra fede cristiana. È una pagina sconvolgente presa da un comune amico, grande esegeta, Alberto Maggi. È una pagina difficile da capire: ho dovuto leggerla più e più volte, dal momento che sovverte le nostre abituali categorie di pensiero. Eppure ogni volta mi sono detta sempre di più: "Ha ragione".
La leggo perché è troppo densa per poterla riassumere: La resurrezione non avviene dopo la morte: o si risorge quando si è in vita o non si risorge più... La vita eterna non è un premio nell'ai di là, ma una condizione del presente... Il termine "eterna" non si riferisce alla durata ma alla qualità: è una vita che neanche la morte riuscirà a distruggere. La vita non viene trasformata dopo la morte, ma la sua trasformazione inizia già nel corso dell'esistenza... La resurrezione è una nuova creazione che non inizia al momento della morte: inizia già durante l'esistenza. Chi accoglie Gesù e il suo messaggio, e come lui mette la vita al servizio degli altri, appartiene già alla nuova creazione... Gesù non risuscita i morti, ma comunica ai vivi una vita capace di superare la soglia della morte: per questo san Paolo scrive: "Noi che siamo già resuscitati" (Ef2,6)... Gesù ci invita a chiederci non tanto se avremo una vita dopo la morte, ma se questa che conduciamo qui si può chiamare vita. La risposta è tutta qui: se quest'esistenza è vita, allora è capace anche di superare la morte. Caro Antonio, mi domando come hai fatto a scovare e far risuonare queste parole che possono togliere in radice la paura della morte. Personalmente sento di doverti ringraziare di cuore.
Leggendo le pagine stupende di questo libro mi è tornato in mente un episodio di quando insegnavo religione in una scuola media di borgata, che è anche il ricordo più bello della mia carriera di insegnante. Permettetemi di raccontarvelo. Avevo spiegato per sommi capi l'evoluzione: dal Dio vivente, il crescere via via della materia fino alla vita vegetale, animale, e poi all'uomo. Poi ho chiesto: siamo forse condannati a correre senza saper qual è il nostro fine? L'evoluzione ha raggiunto il suo apice con l'uomo? O manca ancora qualche cosa che chiuda il cerchio per riunirsi a Dio, vivente e creatore? Dopo qualche minuto di silenzio un bambino alza la mano e poi dice: manca ancora una cosa, un uomo che non muoia. Era passata da pochi giorni la Pasqua, sono scesa dalla cattedra e l'ho abbracciato.
Mi è sembrato bello finire con questo ricordo il mio commento, poco organico e incompleto. Spero di aver suscitato la vostra curiosità che, se leggerete il libro, non andrà delusa. Ve lo garantisco.
Elisa Costanzo
Grazie alla professoressa Jacobelli per la dolcezza e la profondità con cui ha sintetizzato i temi profondi che ricorrono nel testo. Di carne al fuoco ne è stata messa tanta: le immagini obsolete di Dio, gli esseri umani fatti di cromosomi divini, la felicità di Dio che dipende da noi il problema del male, la risurrezione che comincia qui. Sentiamo ora che ci dirà Marco Guzzi.
Relazione di Marco Guzzi
Sono avvantaggiato, perché la signora Jacobelli ha fatto un'esposizione veramente completa, profonda, minuziosa che mi facilità il compito, per cui mi limiterò a due o tre punti di questo arazzo così composito, partendo dal titolo, perché il titolo esprime una modalità di pensiero, o meglio un atteggiamento esistenziale che, trav l'altro, era già contenuto nel titolo del libro precedente: L'inquieta felicità del cristiano. Non c'è differenza qualitativa con Una saldissima fede incerta. Non c'è una contraddizione ma un pensiero dialettico, e questa è la prima cosa che volevo dire. Che cioè Antonio Thellung vuole affermare qualcosa criticandola fino in fondo, affinché emerga in modo più autentico. Una fede, insomma, non rigida. Una felicità che non nasconde l'inquietudine e la sofferenza. D'altronde questo tipo di pensiero che tiene insieme gli opposti è un pensiero evangelico. Basta pensare a Beati gli afflitti.
Questo libro è attuale perché tutti noi ci troviamo in una fase critica, in un momento in cui ogni certezza debba essere passata a un severissimo setaccio. Severissimo, ma anche allegrissimo e un po' divertito, perché, bisogna dirlo, Antonio ha uno stile ironico, uno stile basato sull'understatement di tipo anglosassone, ma anche genovese, come sono le sue origini. Prende in giro e si prende in giro nell'ambito di una ricerca serissima. Un paradosso, come a lui piace.
Si tratta di una critica della fede cristiana per farla risplendere in un modo nuovo e fresco. Ed è per questa esigenza dialettica che critica fino in fondo quel che vuole affermare, perché sente continuamente che le modalità di affermazione finora usate sono improprie, sono insufficienti, nascondono ancora qualche cosa, mistificano un po', e quindi c'è bisogno di un lavoro severo, profondo di critica, e lui in quest'ottica dialettica parte proprio dall'inizio, cioè dalle nostre immagini di Dio.
Le immagini di Dio che oggi dominano le coscienze, e anche l'inconscio, sono sostanzialmente due: la prima è quella di un Dio persecutorio, colpevolizzante, di fronte al quale l'uomo non può che essere impaurito e debole. Perché è importante capire che a ogni teologia corrisponde un'antropologia, una psicologia e anche una sociologia. E a seconda di come immagino Dio, come soggetto umano sarò e mi comporterò creando comunità umane secondo questa immagine, che consciamente o inconsciamente sarà il mio punto di riferimento. Quindi, ad esempio, se il Dio che io mi rappresento è un padre che deve uccidere il figlio volontariamente per salvare altri, quale tipo di soggetto umano emergerà? Diderot diceva: tenetevelo questo padre, io mai vorrei essere un padre così. La critica moderna a questa immagine è stata durissima, e viene da sottolineare che se il padre facesse uccidere il figlio per il bene di qualcuno, se consentisse una cosa così terribile a fin di bene, questo significherebbe che il fine giustifica i mezzi. E di conseguenza io, che sono fatto a sua immagine, mi sentirei autorizzato a prendere qualcuno e torturarlo un po' per il suo bene. Cosa che è stata fatta per secoli: c'è poco da ridere. E mi chiedo: quale tipo di giustizia applicherò in una società che si basa su un'immagine divina così? Basta prendere un testo di storia del diritto penale per vedere che da mille e novecento anni, e in certe pari del mondo ancora oggi, si tortura, si mutila, si uccide in nome di un Dio persecutorio. Di un Dio Moloch che è peggio del Dio di Abramo, perche quello, se non altro, alla fine salva quel povero Isacco, mentre questo Dio padre non salva suo figlio. Insomma, questa immagine terrificante è ancora fortissima nel nostro inconscio, e noi che nei nostri gruppi lavoriamo sulle teologie inconsce lo troviamo spesso presente perché è un dato psicologico. E tutti i nostro contatti con un'autorità paterna o materna di tipo autoritario, criticante, castrante, sono alimento al nostro sentirci poi colpevoli, fragili, intimoriti, e quindi aggressivi e violenti. Allora noi dobbiamo criticare a fondo quest'immagine di Dio e liberare l'uomo che deve trasformare la società. Questo è in atto, ed è una lotta d'amore sul senso della parola Dio, per rinnovare la teologia liberandola dalle ombre senza perdere la sostanza della fede, e cioè il mistero della croce e del sacrificio, con tutto quello che comporta. Questa è la prima immagine che viene criticata e smontata in questo libro.
Ma Antonio critica anche la seconda immagine, che è l'ateismo, cioè l'idea che Dio non esiste, cosa che è poi un'altra teologia: Dio non c'è, siamo un prodotto della casuale vitalità della materia. Caso e necessità. Non abbiamo un principio intelligente, non abbiamo una finalità consolante, siamo un accidente. Non solo, siamo anche un brutto accidente, come uomini, perché avendo una coscienza, e avendo questa strana passione per l'assoluto, che sarebbe infondata, siamo dei pazzi, degli animali pazzi e infelici più di tutti, come diceva anche Leopardi. Anche questo non è che ce lo inventiamo, è una coscienza che è esistita da sempre, la più antica cultura del sileno greco, per cui fortuna per l'uomo è non nascere, e se nasce, morire al più presto. Il dramma del ventesimo secolo, delle persone che hanno vissuto questo pensiero in modo serio e non in modo turistico, come lo vivono alcuni che ci vogliono convincere che sia perfino piacevole non credere in Dio, che felicità sarebbe rinunciare all'idea dell'eterno, perché è il Dio dell'eterno che ci affligge. Purtroppo però siamo fatti così. L'uomo è per costituzione una passione assoluta, e se poi veramente l'assoluto non esiste, l'uomo resta un animale matto. In tal caso ci sarebbe da sperare che questa scintilla di coscienza che è nata su questo inutile pianeta di periferia si spenga, perché sarebbe solo un accidente sfortunato che produce una sofferenza sconfinata in noi, esseri umani, consapevoli di morire e in più consapevoli che tutte le nostre idee di giustizia, di pace, di verità su cui fondiamo la società umana non hanno alcun significato, sono invenzioni nostre, pazze, che scompariranno nel nulla da cui provengono.
Ecco, Thellung critica anche questa immagine sostanzialmente con un'idea molto semplice ma anche molto convincente: l'idea che sia poco credibile che l'essere umano sia l'entità più evoluta in questo sconfinato e complesso universo. Che il livello di coscienza raggiunto da noi oggi sia l'ultimo, il più alto. Cosa che costringe l'uomo a deificarsi: se Dio non c'è, allora Dio sono io, sono io il principio, il punto di riferimento, e questo crea un'altra un'antropologia devastante,
Allora sono due le immagini da criticare, ed è divertente accorgersi che il nichilista vede solo il pericolo del fondamentalismo, e vice versa. Ma in realtà i pericoli sono due, e sono complementari: sono entrambi modi per avvilire l'umano, per svuotare l'umano dalla propria creatività personale. Da qui parte una critica delle assurdità, perché Antonio usa questa parola: sono assurde queste idee, non si reggono, devono venire ripensate meglio. E la sua proposta, illustrata molto bene dalla teologa Jacobelli, è un Dio inteso come totalità dell'essere consapevole di se stesso, e quindi persona, e anche in continua evoluzione. Il tutto pensa e sente, il tutto è pensiero autocosciente che si esprime nelle parti senza mai abbandonarle a se stesse, ma custodendole in una comunione esistenziale, in una coesistenza amorosa e relazionale attraverso interconnessioni interne. Mi pare che Antonio pensi così lo Spirito Santo: tutto è vivo, tutto è pensiero, tutto è connesso, tutto è direzionato, idee che richiamano Teilhard de Chardin: la cosmogenesi, la cristogenesi, tutto è diretto verso l'uomo che non muore, il punto omega. Un'esplosione che avverrà.
E quindi si può dire che nel pensiero di Antonio ci sia un cattolicesimo sostanziale, una trascrizione in termini contemporanei dei toni fondamentali del cristianesimo e del cattolicesimo. Nessuna sbavatura, sottrazione, impoverimento, sincretismo, annacquamento. Anche qui ho avvertito la fede granitica di cui parlava la Jacobelli. Ogni cosa, e quindi anche ogni essere umano, è dotato di una potenzialità divina in crescita, tesa a superare i propri limiti, che culmina nella storia nell'uomo Gesù, nell'umanità divinizzata di Gesù. L'uomo quindi vive una tensione, perché da una parte c'è questo cromosoma divino che ci spinge a partecipare amorosamente al tutto: una tensione ad aprirci. Ma dall'altra c'è una fortissima pulsione a chiuderci, a difenderci e arroccarci nei nostri limiti individuali. Anche perché siamo un corpo definito e mortale, e quindi è inevitabile che ci sia una parte di noi dominata dalla paura. Questa è la lacerante e paradossale condizione umana: siamo tesi verso un superamento divino di noi stessi che ci spinge ad aprirci, quasi a perderci per poi ritrovarci, e dall'altra una tensione continua a chiuderci, a ostacolare il processo.
E qui mi viene da fare una domanda ad Antonio, tanto a lui piace il pensiero dialettico perciò sarà contento. Una domanda sul problema del male, che è questa: nel disegno d'insieme che tu intravedi, e quindi nella creazione, il male dipende dai limiti delle parti in cui l'assoluto si manifesta, ed è per questo inevitabile? Ed è e quindi strutturale alla creazione divina? È un'ipotesi che aleggia non poco nel tuo libro, dove tra l'altro scrivi: anche l'Antico Testamento nel libro di Giobbe pone Satana alla corte di Dio, che gli attribuisce funzioni attive e finalizzate, anche attraverso il diabolico, a raggiungere risultati divino. Quindi, domanda, Satana, il male, è uno strumento di Dio? Ma se è così, aggiungo, se il male è inevitabile, parte integrante della creazione, allora non può esservi colpa. Questa, ad esempio, è l'opinione di Schelling, ripresa poi da Jung, e anche un po' Hegel. È un'idea un po' gnostica: il male in realtà non esiste, il male è uno strumento del processo divino di autorealizzazione, e oggi debbo dire che vari teologi corteggiano questa idea.
L'altra ipotesi è invece molto diversa. La creazione è perfetta e la morte è entrata nel mondo producendo una catastrofe, che noi chiamiamo peccato originale. Quindi noi siamo nella creazione divina, ma siamo in un eone parzialmente distorto, detto questo mondo, dove ci sono certamente dei cromosomi divini che ci spingono al superamento, ma ci sono anche cromosomi non divini che non vengono dai limiti della creazione, ma da una intenzione negativa operante e fortissima. La teologia ortodossa ci ricorda molto la serietà del peccato originale, e personalmente non riesco a consentire con queste teologie che annacquano il peccato originale, quindi il dramma umano. Tutto questo fa parte della domanda complessa alla quale Antonio non risponderà rispondendo e risponderà non rispondendo.
Qui lascio la domanda e chiudo con una breve pagina su un'idea di verità proposta da Antonio che mi piace molto. La verità come creazione dialogica. Talvolta abbiamo paura della verità perché anche su di essa abbiamo delle immagini un po' terroristiche, come fosse una sorta d'imperativo che viene da fuori, qualcosa che ci viene imposto e non come parte attiva e creativa della nostra vita, che contribuiamo personalmente a creare, che facciamo emergere noi anche attraverso le nostre domande, le nostre inquietudini, il nostro confronto. Questa pagina dice: se la creazione si sta realizzando ora, giorno dopo giorno, momento per momento, è ovvio che si stia creando continuamente anche la verità. Infatti quella rivelata da Cristo non è statica e precostituita, ma dinamica, con caratteristiche di tipo relazionale che consentono di creare nuova verità ogni volta che i cromosomi si risvegliano dal torpore, si accorgono di essere divini, entrano in relazione con la realtà dell’insieme. Si potrebbe dire che la ricerca della verità non ha per scopo di farla conoscere, ma di farla accadere, di realizzarla in concreto. La verità si crea e si consolida quando qualcuno l’accoglie e la fa propria. Se invece non vi è alcun incontro vivificante, rimane soltanto teoria.
Grazie e auguri.
Intervento di Antonio Thellung
Ringrazio tutti per una così ampia partecipazione. Potrei rispondere alle domande che mi ha fatto Marco, o anche su alcune sollecitazioni di Caterina, ma penso sia meglio provare a comunicare su un piano diverso, perché i ragionamenti li ho espressi nel libro, e chiunque ne abbia voglia può leggerli, mentre vorrei sottolineare ancora l'aspetto fede, che è appunto saldissima, pur nell'incertezza dei ragionamenti che l'accompagnano nel tentativo, forse illusorio, di poterla esprimere. L'intimo e profondo aspetto della fede non è facilissimo da comprendere, perché è qualcosa di sentito e di vissuto al di là dei ragionamenti, e allora vorrei provare a esprimere e comunicare qui a voi stasera quel che sento personalmente, e quindi trasmettere delle sensazioni più che delle riflessioni.
In una sua celebre canzone Gaber diceva che appartenenza è sentire gli altri dentro di sé. Credo sia proprio così, ma anche sentirsi dentro gli altri. Appartenere, appartenersi, questa sorta di coesione l'uno nell'altro, e per cercare di esprimere quel che intendo per fede, direi che la avverto come una proiezione verso l'insieme, verso il più grande di me.
Voglio fare un esempio, che è quello degli innamorati. Probabilmente, spero, tutti voi presenti sarete stati innamorati e avrete fatto una particolare esperienza: quando due innamorati si guardano negli occhi ci sono dei momenti nei quali sembra di espandersi, di uscire da se stessi e di fondersi nell'altro. Tutti avrete provato, immagino, questo senso di espandersi, questa sensazione che si possa andare oltre i confini del proprio fisico. Bene, io credo che valga anche nei rapporti con altre persone. Certamente è più facile sperimentarlo tra innamorati, in un rapporto a due, ma credo possa valere anche in altri casi. Per esempio, ricordo nei numerosi rapporti con malati terminali che ho avuto l'occasione, anzi, direi la fortuna di assistere, ricordo di essermi trovato di fronte, parecchie volte, persone con le quali sia era creato una relazione particolare, e quindi uno stato d'animo particolare. Ricordo in certi drammatici momenti di profondo coinvolgimento di aver provato come la sensazione di entrare l'uno dentro l'altro, come di accompagnarsi insieme in un cammino verso il più grande di noi.
Il teologo Panikkar, ad esempio, faceva una netta distinzione fra individuo e persona (cosa che faccio anch'io, ma cito lui perché è più importante di me). L'individuo è composto dai miei confini fisici, visibili e toccabili. Mentre la mia persona comprende i miei genitori, i miei figli, il mio coniuge, i miei fratelli, i miei amici, l'ambiente che mi sta attorno, e tutto ciò che è coinvolto nel mio cammino di vita, tutto ciò che è in relazione con il mio individuo. Perciò la mia persona è molto più grande di me, del mio individuo. E il grande filosofo spagnolo Ortega y Gasset diceva: io sono io più la mia circostanza, intendendo con questa parola tutto ciò che ruota attorno all'individuo. E aggiungeva: se non si salva la mia circostanza non mi salvo nemmeno io, che è come affermare la necessità di occuparsi degli altri che ci stanno attorno, per poter compiere la propria vita. Perché la persona è relazione, mentre senza relazioni l'agglomerato di materia che costituisce il mio individuo fisico non vale proprio nulla.
Per concludere, vorrei dire che sento di avere una straordinaria fortuna, perché ho scritto questo libro, ho lavorato molto ma è anche stata una fatica e soddisfacente. Dopo di che le Paoline hanno ritenuto interessante pubblicarlo, e poi qualcun altro ha pensato bene di organizzare questa presentazione, e tutti voi siete venuti così numerosi. Ebbene, tutto ciò fa parte, in questo momento, della mia circostanza. La stessa cosa, ovviamente, si può dire che vale per tutti, per ciascuno dal proprio punto di vista, perché ognuno di noi partecipa a un evento comunque più grande di sé, più grande di ogni individuo partecipante. Comunque sia, io parlo per me, e confesso di sentirmi perfino imbarazzato, perché avverto bene i miei limiti, ma mi sento anche coinvolto con tutti voi, e mi dico: ma come è possibile, ma come posso essere così più grande di me. Vi abbraccerei tutti, mi sento emozionato, e mi domando: quanta grazia di Dio sto ricevendo?
Ecco che cosa vorrei riuscire a comunicare. Questa sensazione la vivo come sacramento dell'insieme, di espansione verso l'insieme. Ecco la mia fede, ecco quel che sento e vivo. A questo non potrei mai rinunciare. Il resto, concetti, riflessioni, immagini, e tutto quello che può essere spiegato razionalmente, può appartenere alla teoria e quindi può essere messo in discussione, smontato, contestato: sarà vero, non sarà vero, è credibile, non credibile, assurdo, convincente. Sono il primo a dirlo. Però questa sensazione di poter travalicare i limiti, di potersi espandere verso l'insieme, non me la può togliere nessuno. È una sensazione, non esito a dire, che percepisco come un anticipo escatologico. È qualcosa di divino. E credo che questo possa valere per ciascuno, dal proprio punto di vista, in modo diverso per ciascuno eppure identico nel significato.
Sarà così, non sarà così. Termino ricordando che un nostro vecchio amico usava dire: sia fatto a voi secondo la vostra fede. Anche se incerta.
Thellung risponde alla domanda di Guzzi
Vorrei innanzi tutto dire, sul timore ventilato da qualcuno che parlare d'insieme come Dio ci sia il rischio di scadere in un panteismo impersonale, che se Dio esiste il primo a saperlo sarà lui, cosa che mi sembra ovvio e assiomatico. Ma questo significa che è cosciente di sé, e quindi persona. Non in senso antropomorfico, naturalmente, ma chiunque ha coscienza di sé mi sembra indiscutibilmente persona. E se il Dio d'insieme, come dice San Paolo, è tutto in tutti, consapevole di sé, e quindi persona, allora non vedo alcun rischio di scadere in un generico panteismo impersonale e inconsapevole.
Per rispondere poi alla domanda di Marco, per quel che riesco a capire nei miei poveri limiti, e cioè, sostanzialmente, se il male è strutturale alla creazione, e quindi inevitabile, direi: noi siamo fatti di vita e limite. La vita è divina ma il limite la comprime e quindi la umilia. La creazione è cosa buona, perché è vita, ma il limite crea un cortocircuito permanente. Noi viviamo nel tempo, e quindi nel limite, e il limite, anche nella teologia più ortodossa, è assimilabile al male, perché il male è limite di bene. Così noi, che siamo un composto di vita e limite, abbiamo due possibilità: rafforzare i limiti racchiudendoci il più possibile nell'egoismo, fino a implodere in un individualismo senza sbocchi (e allora non possiamo che ridurci al nulla), oppure possiamo orientarci verso la vita, trascendere i limiti, e congiungerci con l'insieme.
Quindi, se vogliamo identificare il peccato originale con il limite per me può andare benissimo, e tuttavia non si tratta di qualcosa che necessariamente ci soffoca e ci uccide, perché possiamo proiettarci al di là del limite (possiamo riscattare il peccato originale, se vogliamo dire così), possiamo giungere a un ricongiungimento con l'insieme.
D'altra parte, se immaginiamo il rapporto uomo-Dio simile al rapporto tra relativo e assoluto, è importante capire che assoluto e relativo sono contrari, ma non contrapposti, perché non possono venire separati l'uno dall'altro. Pur essendo contrari, sono contemporaneamente complementari. Perciò, se questo mondo è contemporaneamente contrario e complementare a Dio, allora tante cose si spiegano. Questo nostro mondo così contraddittorio, intessuto di cose orrende e cose bellissime ci pone continuamente non pochi interrogativi. Ad esempio: come mai è così pieno di elementi negativi? La risposta si fa chiara: per forza, è il contrario di Dio! Ma allora come spiegarsi tutte le meraviglie di cui è intriso? Ma è ovvio: è complementare a Dio!
Ecco, non saprei rispondere in altro modo alla domanda di Marco Guzzi, e cioè, in sostanza, se il male deve considerarsi un elemento strutturale del mondo, e quindi presente in modo inevitabile? Risponderei di si, ma quel che conta è che il male non è un elemento in sé, ma solo il limite di quel positivo che una volta costretto nel tempo, e quindi nei limiti, ha bisogno di compiere un percorso per emergere. E una volta capito questo finalmente so che, durante il mio percorso, devo continuamente chiedermi: sto rafforzando il contrario, oppure sto valorizzando il complementare? Sto cercando di trascendere i miei limiti, di coinvolgermi negli altri, di fare tutto quello che diventa sacramento verso l'insieme? Perché chiunque, anche parzialmente, anche solo un pochino, dona qualcosa della sua vita agli altri, anche poco, ripeto, anche pochissimo, è sacramento di Cristo. Lui, uomo in pienezza, ha donato interamente la sua vita per gli altri. Ciascuno di noi, nei nostri scoraggianti limiti possiamo essere magari capaci di darne soltanto un pezzettino. Ma anche quel pezzettino può essere sufficiente, purché sia donato. Il male c'è. Ma possiamo trasformarlo e trascenderlo. Questa è l'aspetto saldissimo della mia fede.
Domanda di: Suor Tiziana De Rosa
A pagina 193 del libro, dopo aver detto che l'uomo è l'alra faccia di Dio, per cui Dio e l'uomo sono intrecciati insieme, lei afferma: «mi piace pensare che all'infinito tutto verrà ricuperato e riciclato in nuove forme». Che cosa intende con queste forme, vuol forse riferirsi alla metempsicosi, o a qualcosa d'altro?
risposta
C'è sempre qualcuno che pizzica nei punti delicati. Per rispondere vorrei citare prima un altro punto, altrimenti si rischiano ambiguità. E l'altro punto è a pagina 302, dove ho cercato di esprimere il versante positivo scrivendo: «Ecco il cristianesimo dell’insieme, che alimenta la mia fede e mi accompagna ogni giorno nel mio cammino personale di cristiano e cattolico praticante. Lo sento capace di superare divisioni e contrapposizioni per indicare la via, la verità, la vita, e non mi trattengo dal confessarti che se provo a personalizzare l’ipotesi mi spavento. Perché capisco che, se riuscissi a sviluppare la potenzialità divina custodita dentro di me, allora entrerei anch’io nella coscienza di Dio, allora la mia coscienza limitata di oggi, ma con la stessa percezione di essere me stesso, si ritroverebbe senza limiti in Dio. Sarei tutt’uno con Dio, continuando a vivere nella sua consapevolezza il mio itinerario compiuto. Impressionante!».
Vorrei dire che chi si orienta verso l'insieme, chi percepisce questa straordinaria opportunità di travalicare il proprio individualismo possa avere una proiezione di questo tipo. Però non possiamo negare che nella realtà ci sono anche persone che mostrano di non aver alcun interesse a una sopravvivenza alla loro vita individuale. Conoscevo, ad esempio, una persona che quando vedeva scritto sui cimiteri: resurecturis diceva: «ancora! Non se ne può più di questa vita, noiosissima! Ci mancherebbe altro che una volta finita avessimo anche la disgrazia di risorgere! Speriamo che finisca per sempre e non se ne parli più». Comunque, al di là della battuta, c'è qualcuno che mostra di non aver alcun interesse perfino a ipotizzare una vita al di là del proprio individuo. E allora? Vorremmo negare il diritto di morire a chi lo desidera?
Ora, per rispondere alla domanda, se consideriamo tutto quello che non sfrutta la potenzialità divina intrisa nel creato, che sia materia, vegetali, animali, esseri umani, non importa, cioè tutto ciò che in nessun modo utilizzerà questa possibilità di trasformazione, mi domando: che cosa accadrà di tutto questo? Non lo so, ma ho cercato di dire che spero non venga abbandonato niente e nessuno, e quindi che tare realtà venga riciclata in qualche modo. Ma non lo so, perché io sento la proiezione verso l'insieme, e l'ipotesi su chi si attesta su altre ottiche è per me semplicemente una vaga ipotesi, una considerazione laterale.
Domanda di: Elisa Costanzo
Vorrei chiederti una cosa personalmente. Ho trovato il libro molto positivo, soprattutto come occasione di conversione che bisogna fare continuamente., e un forte stimolo alla liberazione interiore. Tu dici che il perdono è un atteggiamento da assumere a priori, e non come conseguenza di un male ricevuto. Ci puoi dire qualcosa su questo argomento?
risposta
Su questo argomento vorrei cominciare col fare un ringraziamento particolare a Marco, perché, parlo di moltissimi anni fa, è da un suo scritto che ho visto per la prima volta la parola perdono scritta con un trattino: per-dono. E mi ha illuminato. Riflessioni sul perdono ne da tempo ruminavo tra me e me, e quel trattino mi ha fatto capire che si tratta proprio di un dono, di un regalo che si è disposti a offrire senza alcuna contropartita nei rapporti di vita. E quindi questa parola, che sovente viene usata secondo schemi o pregiudizi moralistici, in realtà richiama questo dono da offrire agli altri.
A questo punto, penso si possa capire bene che non si tratta di una scelta che nasce a seguito di un'offesa ricevuta, ma piuttosto di un atteggiamento a priori sul quale poi rimbalza tutto quello che può accadere. Il vero atteggiamento di perdono esiste a priori, è qualcosa da vivere come dono.
Può valere in particolare nel rapporto coniugale, dove la grande intimità espone più facilmente alla suscettibilità, ma vale anche per qualsiasi rapporto di vita, per qualsiasi rapporto con un tu, di qualsiasi tipo.
Questo spirito di perdono è come dire: a me interessa camminare insieme a te, mi interessa un rapporto coinvolto e costruttivo con te, vorrei metterti a disposizione il mio animo e la mia disponibilità per-dono, come dono, come regalo gratuito per stimolare al meglio il nostro rapporto. Perciò, a priori io ti perdono. Dopo di che tu puoi anche contrastarmi, insultarmi, trattarmi male, ma io ti perdono. Non cado nell'ottica delle contrapposizioni: se tu fai così, allora amch'io…… Non mi adeguo all'uso comune: se lui si comporta male, allora posso farlo anch'io. Per-dono scelgo il comportamento corretto (secondo aunto posso capire) e continuo a comportarmi bene anche su finisci per esprimerti secondo forme non simpatiche.
Questo intendo dire. Cerco di comportarmi bene (magari poi non ci riesco per incapacità di essere coerenti) ma cerco di comportarmi bene indipendentemente dalle reazioni altrui. E se tu ti comporti male, io, per-dono, continuo a comportarmi bene senza scoraggiarmi, nella fiducia che prima o poi lo capirai e vedrai che è meglio, che è più bello, che è più costruttivo comportarsi bene.
In termini evangelici, porgere l'altra guancia non significa voglia di prendersi altre sberle, ma offrire altre opportunità per riprendere un cammino positivo. Nella speranza che prima o poi saranno i fautori di occhi per occhio a stancarsi. E la smetteranno di riproporre logiche così meschine. Questo, secondo me, il senso del perdono, e se lo capisco, quando mi capiterà di prendere delle sberle, certo mi armmaricherò, ma non mi abbandonerò più a meschine rivalse, ma cercherò il ricupero senza stancarmi. Ho dovuto combattere tanto per capirlo, e nella pratica molte volte non ci riesco a tenere questo atteggiamento, perché sono desolatamente intriso di difetti, ma per fortuna con l'età, con la perdita dei capelli, ho perso anche una parte dell'istinto di reazione incontrollata, e potrei dire che ormai, almeno in teoria, questo spirito di perdono mi ha conquistato.