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Presentazione alla Libreria Croce di Roma Autunno 1978 Ignace de la Potterie s.j.
Vorrei dire come premessa generale che mi ha colpito molto fin dall'inizio l'andatura originale e anche, dal punto di vista religioso, molto profonda di questo libro. Fa piacere notare che un non specialista della bibbia ritrovi spontaneamente alcune intuizioni fondamentali della rivelazione biblica. E perciò mi pare che non ha molto senso fare una discussione serrata e tecnica sull' interpretazione di tale o talaltro versetto, ma piuttosto è importante cercare di capire l'intuizione e l'ispirazione profonda di questo libro. Fa piacere notare come l'autore ritrova praticamente senza uno studio particolare degli aspetti veramente fondamentali della. visione cristiana del mondo. La prima. che vorrei notare è questa: aver messo così l'accento sull'amore di Dio, e non intendo l'amore di Dio per noi, ma il nostro amore per Dio. Una cosa che oggi non è banale. L'editore nella prefazione ha citato il testo di Sant'Agostino: fecisti nos domine ad te et inquieto est cor nostrum donec requiescat in te. Mi pare colga molto bene ciò che è fondamentale in questo libro, cioè lo slancio dell'uomo, l'elevatezza dell'uomo verso Dio. In un tempo di orizzontalismo come il nostro non è banale riscoprire questo, che naturalmente è fondamentale di tutta la visione cristiana della. vita, dell'esistenza dell'uomo. L'autore dice bene che se l'uomo non ritrova questa dimensione verso l'alto, verso la trascendenza, ricade nella ristretta dimensione terrena, cioè nella dimensione di un uomo tale solo in senso animalesco e vegetativo. In un tempo in cui la barbarie sta ritornando alla superficie, soprattutto nell'Europa occidentale (basti pensare a tutto ciò che è successo recentemente anche in questa regione) mi pare importante riscoprire che un uomo che non alza la testa verso Dio non può rimanere nemmeno uomo. Aver ritrovato questo è già un grande merito di Questo libro.
L'autore ha scritto molte pagine sull'interpretazione del Prologo del Vangelo di San Giovanni. Non è Qui il caso di farne una analisi tecnica. Vi sono molte interpretazioni personali, alcune molto originali, anche se dal punto di vista filologico e teologico talvolta un po' discutibili. Per esempio: l'autore interpreta la parola Logos, che non si sa pene come tradurre (talvolta, è tradotta con Verbo, talvolta con Parola), nel senso di Redenzione. Bisogna fare due osservazioni. Come intuizione fondamentale, è certamente molto giusta. Tutto ciò che il Logos fatto carne ha compiuto nel mondo, è stato di portare la salvezza all'uomo, e dunque il senso dell'incarnazione è stato senza dubbio la redenzione. Per dirlo con le parole di Giovanni stesso, Gesù durante l'ultima cena dice: io sono la verità e la vita. La verità, comunicazione del Padre, ha come unico scopo di dare agli uomini la vita divina. E nel Prologo stesso Giovanni dice: per dare a noi il potere di diventare figli di Dio. Tutta la rivelazione cristiana e l'incarnazione hanno un unico scopo: fare di noi figli di Dio. E dunque l'idea teologica che sta. dietro a questa interpretazione personale dell'autore è giustissima. Ma dal punto di vista filologico mi pare ci siano alcune difficoltà a interpretare la parola logos come redenzione. L'autore si ricollega al fatto che in greco la parola logos deriva dal verbo lego che può anche significare raccogliere, e quindi, secondo l'autore, riunire e redimere ciò che è diviso e disperso, però l'uso di logos nel Prologo mi sembra difficile ricollegarlo con il verbo lego. L'idea dell' autore sarebbe che il logos, inteso come raccoglitore, raduna il disperso ed opera la redenzione. L'idea teologica è giusta, però mi pare che filologicamente sia discutibile. Ma anche mantenendo il senso esatto di logos arriviamo più o meno alla stessa idea. Logos non ha il significato che rivestiva nella metafisica greca, ma quel senso biblico di "parola". Il messaggio che Dio rivolge all'umanità. L'incarnazione significa che Dio ci manda la sua parola, in Cristo ci dice quello che vuole da noi. E' un messaggio di Dio all'umanità. È la parola di Dio all'uomo. Ora quella parola è una parola di salvezza, e dunque ritroviamo l'idea di redenzione.
Di un altro dettaglio del Prologo, al versetto 3, l'autore propone una versione che mi sembra molto originale e penso sia molto giusta: tutto si fece attraverso lui. Io accetterei senz'altro questa traduzione. Però il commento che ne fa è un'altra cosa. Perché sembra dare alla creazione un s1gn1ficato particolare. Sembra identificare creazione e caduta e allora mi chiedo se non si tratta un po' di una concezione emanatistica, una specie di emanazione da Dio Questa concezione di creazione. Cioè la creazione, presentata in tal modo, forse non rispetta sufficientemente la trascendenza di Dio. Nella concezione cristiana creazione e trascendenza. sono indissolubili. Questa concezione dell'autore fa in qualche modo pensare all'emanatismo di Plotino, o ad altre forme dell'emanatismo antico.
D'altra parte, ripeto, dal punto di vista religioso vi sono cose molto belle. Per esempio mi ha colpito, a pagina 48, come l'autore spontaneamente abbia ritrovato il radicalismo di alcune formule dei vangeli. L'odio del mondo, l'abbandono di tutto per Cristo e per la salvezza; l'opposizione al male che è nel mondo. Sono cose delle quali i cristiani si sono troppo spesso dimenticati. Che l'autore abbia ritrovato questo radicalismo del vangelo mi pare una cosa veramente confortante e molto bella. A pagina 54 esprime una concezione della morale che è guidata dalla carità. E' proprio la visione di Giovanni. Giovanni non ha morale. Mi spiego meglio: non ha elaborato un elenco di peccati da evitare e di virtù da praticare. Giovanni ha una sola morale: una visione. Vivere nella luce di Cristo, nella sua agape. E tutta la morale Giovannea si concentra in questa agape: l'amore. L'aver dunque detto in un tempo in cui obblighi, diritti e doveri sono tanto contestati che la morale è guidata e si concentra sulla carità è un potente sforzo di sintesi molto riuscito e molto consono alla visione Giovannea. D'altra parte dice che la carità deve essere attiva, deve produrre qualche cosa, cambiare la vita. E' evidente. Deve creare una. famiglia umana, deve fare diventare l'umanità una grande famiglia di fratelli. Questo è lo scopo del cristianesimo. Inoltre aggiunge anche una cosa un po' audace, dicendo che la morale non è di questo mondo. Anche questo è vero, altrimenti cascheremmo in una morale borghese. La morale cristiana è rivelata: essere come Cristo che è figlio di Dio. E aver osato dire al tempo nostro che la morale non è di questo mondo, è, a prima vista, rendersi antipatico e rischiare di essere definito antisociale. Però questo coraggio di sincerità cristiana è una cosa che mi piace molto.
Alla pagina 58 vi sono anche alcune riflessioni su cristianesimo e ideologia cristiana. Anche questo mi ha colpito, perché oggi si riflette molto, in campo filosofico, sulla nozione di ideologia. Due anni fa ho letto un libro di Luigi Pareson nel quale tutta una sezione è dedicata all'analisi del concetto di ideologia. Mi pare importante sottolineare questo. Nel mondo di oggi, è bene dirlo con franchezza, si può benissimo fare anche del vangelo una ideologia, e mi pare che l'autore ha intuito questo molto bene. Proprio stasera ho tenuto una conferenza a un gruppo di sacerdoti canadesi e ho detto la stessa cosa. Fare del vangelo una ideologia che cosa significa? Alla luce delle spiegazioni date da Pareson, l'ideologia è l'uso di una formula in se stessa, staccata dalla. visione globale dell'autore e del gruppo a cui appartiene, per farne uso politico. Strumentalizzare una formula ad uso esclusivamente esteriore e politico. E' proprio ciò che alcuni fanno del vangelo oggi. Si. prendono delle formule del vangelo per farne un programma sociale. Ad esempio: Gesù è venuto per i poveri, perciò facciamo di questo un programma. sociale. Ma questo non è più cristianesimo. Non dico che il cristianesimo non sia. sociale, ma prendere il vangelo puramente come programma sociale significa trasformare il cristianesimo in una ideologia. E' molto importante sottolineare questo rischio, verso il quale oggi c'è una forte tendenza, soprattutto nei paesi occidentali. Mi pare un atto di coraggio che l'autore l'abbia notato, ed anche un motivo di sensibilità cristiana che va sottolineato.
Un ultimo punto vorrei toccare, ed è un'interpretazione personale e originale dell' autore sulla parola greca anastasis: la risurrezione. Il vangelo di Giovanni parla della risurrezione dei morti per la vita e per il giudizio. Secondo l'autore la risurrezione sarebbe a senso unico, solamente per i buoni. Invece il male verrebbe distrutto nella morte. Questo naturalmente è legato a una costruzione un po' speciale della creazione. L'autore cerca di fondare la sua interpretazione su un dettaglio filologico che devo confessare mi ha colpito. Egli dice, in una nota, che gli è accaduta una cosa sconcertante. Egli ha parlato con diversi esegeti, uno dei quali sono io perché mi è venuto a trovare diversi mesi or sono, e mi piace molto riconoscere che mi ha fatto notare una cosa che non sapevo. Perciò ho imparato qualche cosa e lo ringrazio per questo. La sua tesi è questa. La parola greca tradotta con risurrezione può avere in greco anche un altro significato, e fa notare che questo diverso significato si trova soltanto nei dizionari di greco profano, mentre nei dizionari biblici non si trova. Anastasis dunque non significa soltanto elevazione, e dunque risurrezione, ma anche il senso contrario, e dunque distruzione. Allora egli dice: parliamo della risurrezione dei buoni, mentre possiamo intendere la distruzione dei cattivi. Qui naturalmente bisogna ricorrere a tutta una tecnica esegetica. La questione non è soltanto se la parola greca in se stessa può significare distruzione, e quello confesso non lo avevo notato, ed è vero. L'ho controllato anche stasera su testi classici ove si di ce ad esempio: anastasis ton poleon (distruzione delle città). Dunque la parola. può avere quel significato. Mi domando se la parola non viene usata solo in senso materiale, come una città, una casa. o qualcosa del genere. Qui si tratta di persone umane. Non basta prendere un significato. C'è tutta una tecnica esegetica su come si interpreta un testo. Mi pare vi siano due cose da notare. La prima a livello del testo. Solo il parallelismo dei due membri della frase: la anastasis dei buoni e l'anastastasis dei peccatori, dal punto di vista puramente esegetico obbliga a dare lo stesso significato ai due membri della frase, cioè risurrezione nei due casi. Questo a livello puramente esegetico. Ma poi, non soltanto per l'esegesi cristiana, ma oggi anche a livello filosofico ed ermeneutico, si sta riscoprendo l'importanza della risonanza che prende un testo nella tradizione posteriore, e dunque, per capire un testo, bisogna sapere tutta la vita che il testo ha avuto nella tradizione posteriore. E dunque l'importanza della riflessione di venti secoli di tradizione su questo testo. Ora mi pare che veramente interpretare così quel versetto di Giovanni sarebbe una cosa del tutto nuova in venti secoli di tradizione cristiana, e questo naturalmente fa un po' riflettere. Ecco le cose essenziali che volevo dire. Ringraziare per alcune intuizioni di fondo, per aver ritrovato alcuni aspetti del vangelo nella loro freschezza primitiva, e non mi pare un piccolo merito. Ma alcune ambiguità, non solo per quanto riguarda la risurrezione, ma anche sulla creazione e su alcuni dettagli del Prologo, potrebbero far discutere all'infinito. Comunque è un libro che fa riflettere, e che fa del bene perché ha una grande visione cristiana malgrado queste ambiguità. E quindi si tratta veramente di un atto di liberazione per l'autore, ma anche per il lettore che abbia il coraggio ma anche la grazia di leggere questa opera.
Marcello Camilucci
Comincerò col dire che si tratta di un libro assai arduo da riassumere in quanto privo di quel minimo di didatticità che impone uno schema espositivo e una volontà di persuasione. La materia di per se stessa tutta allo stato sorgente e nativo, e la stessa scoperta interiore senza tramiti. Da qui il valore intimamente profondo del testo, e la sua scarsa possibilità invece di utilizzarlo per delle generalizzazioni. Dunque: Ipotesi fantastica, e come sottotitolo: Dio e il suo contrario. Già nel titolo, che poi vedremo di analizzare insieme, è chiaramente impostata quella che è, diciamo, l'essenza del libro stesso. Un libro cioè che ha l'intenzione, riferendosi a un'esperienza interiore, di aprire un discorso religioso, tenendo conto di quella che è la situazione e lo status del sentimento religioso oggi nel mondo. Quindi senza astrazioni, senza elucubrazioni di natura culturale e storica, ma direi con un'adesione diretta e palpitante all'esperienza personale dell'autore stesso. Viene spontaneo chiedersi: come aprire oggi un discorso religioso? Venuta meno la copertura teologica. Vanificatosi per larga parte la coordinata etica. Sottrattasi la storia a ogni giudizio trascendente in forza dello storicismo. Non resta, sembra, che la riscoperta dell'analisi interiore. La riscoperta cioè di quanto in noi non si esaurisce casualmente nella razionalità, e neppure nell'irrazionalità psichicamente intesa. Ricuperiamo cioè al nostro interno la dimensione del mistero, che è anche la sfera di ciò che si dice il numinoso, che è un ricupero nell'interiorità di tutto quello che, almeno all'apparenza, gran parte l'umanità. nella sua. storia accidentata dei nostri giorni ha smarrito, o per lo meno deformato. Queste ricerche alla ricerca interiore homine di quello che la società, il pensiero codificato, sembra in larga parte rifiutare, sappiamo bene che non è un fatto isolato. Quante però trapanazioni nel vuoto! Quanti inutili sondaggi nel 'Puro fluire, nel panta rei! Questa navigazione invece che Antonio Thellung ci presenta come ipotesi per l'appunto fantastica, questa navigazione invece segue una stella fissa, una stella polare. Infatti nella prima pagina del volume c e una precisa e incontrovertibile dichiarazione di fede. Segue dunque la stella della fede, ma non per questo la navigazione risulta meno avventurosa, confermando come, ai tempi attuali, la famosa affermazione Agostiniana: inquietum est cor nostrum domine donec requiescat in te, questa famosa affermazione agostiniana che il Petrarca ebbe presente e tutti gli analizzatori della vita interiore hanno tenuto come tesoro, questa inquietudine del cuore umano seguita a vivere anche dopo il donec requiescat in te. Cioè, la situazione psicologico-storica dell'uomo pur dotato di fede, è attualmente cosi difficile, cosi irta di contraddizioni, che l'approdo sulla ferma roccia della fede non esclude le contraddizioni e lo svolgersi di una problematica all'interno di questa stessa fede. Ecco quindi un primo livello d'interesse del volume. E sta a testimoniare in assoluta sincerità quanto arduo sia, una volta pronunciato l'atto di fede, per l'uomo moderno accettare tutto quello che esso comporta, e che un tempo invece naturalmente ne conseguiva all'uomo, come una sorta di seme nel quale fosse già contenuta tutta la pianta., mentre al presente il seme continuamente vive una vita precaria, perché contano tutte le situazioni ambientali, nonché la coltivazione che il coltivatore fa del seme stesso perché questo dia o non dia frutto. La fede, possiamo dire paradossalmente che è una certezza che non da certezze. Ripone costantemente in discussione i suoi stessi contenuti. E non, badiamo bene, per il morso dello scetticismo, perché il nostro autore ne è totalmente assente, bensì, direi, per il bisogno connaturato allo spirito moderno, di continuamente riconfrontare le tesi, di continuamente sciogliere e ricostruire le sue definizioni, di continuamente pescare più in fondo quello che si è trovato ad un certo livello della. propria catabasi interiore. Antonio Thellung è quello che si dice un cristiano inquieto, che la sua fede ha bisogno di ricostruirsela ogni giorno, nonché di rivisitarla alla prova del tempo.
Ed ora veniamo un po' più direttamente, dopo aver inquadrato l'atmosfera generale nella quale il libro svolge le sue tesi, in che senso ipotesi fantastica? E' un'espressione un po' ambigua, che potrebbe indurre in errore. A mio giudizio si tratta di indagare il sacro, invece che attraverso un processo razionale, per via di paradossi.
Alla pagina 103 lo scrittore dice: l'individuo, limitato per sua. essenza naturale, non trova posto, se non in una vita temporanea. e relativa. Dunque parlare d'immortalità sembra. un controsenso. Ma come ha detto Teilhard, in questo mondo straordinario solo il fantastico ha possibilità di essere vero. L'indagine è quindi. per controsensi, il ché rende l'esposizione assai vivace e ricca di sorprese, anche se naturalmente, e l'autore non si esime da questo rischio, espone il fianco a non poche obiezioni e dubbi. lo non sono un teologo e non spetta a me formalizzare queste obiezioni. Ma siccome mi sono scaturite naturalmente nel palpitante leggere il libro, ne alludo almeno due. Il principale a mio avviso è la negazione, a pagina 104, se ho capito bene, pressoché negazione di una trascendenza personale. Un altro problema è la creazione come contraddizione e come caduta, dove mi sembra che gli schemi biblici vengano sostanzialmente alterati. Acuta e personale è invece la distinzione dei due momenti della rivelazione nei due testamenti. Bella la distinzione entro l'essere creati a immagine e similitudine di Dio. L'individuazione della paura di vedere. Acuta. anche la spiegazione del perché della creazione, che però io trovo in contraddizione con la precedente descrizione della creazione come caduta. Bellissimo poeticamente, e direi poteva venire solo da un artista, il paradosso del Dio inimmaginabile senza l'uomo. Dunque attraverso questa catena esplosiva di paradossi e di controsensi che si affrontano, e non tentano nessuna combinazione dialettica fra di loro in una sintesi, ma vogliono rimanere aperti come stimoli di ricerca, ne scaturisce un Dio da cercare sempre, anche quando lo si possegga.
Però qui subentra il problema dell'altra affermazione. Dio e il suo contrario. Ma e il suo contrario, appunto? Direi che formulare l'ipotesi come si è detto fantastica del suo contrario, sia dall'altra parte compiere l'analisi del mondo moderno. La riscoperta dell' anima è infatti il suo ultimo vestigio, da porre come ultima pietra di ricostruzione delle vestigia di quel tempio di Dio, natura e storia, che il mondo moderno ha in gran parte logorato e consumato.
Essendo io un letterato, quello che mi ha interessato nel libro è l'assenza totale di lettura. Anche questo è un paradosso che l'autore vorrà accettare. Cioè l'autore, ancorché sia pienamente padrone dei suoi mezzi espressivi, e sia inoltre un artista, un pittore raffinatissimo, e cioè un intellettuale, nello sviscerare lo scavo interiore non opera mai una mediazione letteraria che inevitabilmente è sempre diluitrice di quelle che sono le scoperte primarie. L'interesse di questo libro, per me, in gran parte è proprio, non dico in questa antiletterarietà perché questo avrebbe un elemento di volontà., ma in questa spontaneità, cioè in questa catabasi interiore alla riscoperta di quei germi iniziali, genuini, primari, che sono gli unici attraverso i quali l'uomo nella situazione culturale contemporanea può tentare di ricostruire un'immagine di Dio che il mondo per larga parte gli nega, e che la cultura ha già pressoché dimenticato. Tutto questo avviene con spontaneità diretta senza mediazioni letterarie
Le verità restano come delle pepite d'oro nella forma bruta dell'enucleazione del filone, non raffinate in gioielli, non raffinate estetisticamente e quindi utilitaristicamente. Ci vengono consegnate quasi, come si potrebbe dire, allo stato bruto. Di qui il grande valore testimoniale del testo, il quale per quella parte che offre il fianco alla discussione è un testo che naturalmente si pareggia e si eguaglia a tutti gli altri, a tutti gli infiniti testi che fanno proposte culturali. Ma il cui valore primario resta invece nella genuinità di questo scavo interiore e di questa riconquista di quei germi, di quei semi primari, per cui, attraverso la dialettica dei contrai, l'immagine del positivo, Dio, si afferma anche entro una notte culturale e un deserto di presenze del sacro, quale gran parte della società contemporanea e della cultura attuale costituiscono.
Letture del marzo 1979 Ipotesi fantastica (Dio e il suo contrario) di Guido Sommavilla s.j.
Antonio Thellung (pittore, corridore automobilistico e fisico-matematico) ha scrittu un libro di indiscutibile intelligenza, ferma fede cristiana cattolica e severa morale che sorprende e sconvolge. Ma l'«ipotesi fantastica» (che viene però difesa come vera tesi nel senso teilhardiano che «solo il fantastico ha possibilità di essere vero»), è una interpretazione inaudita del dogma dell'inferno. È un dogma che l'autore non intende rinnegare, bensì soltanto interpretare diversamente, sulla base di un concetto-verità di Dio, del mondo e dell'uomo «diverso» dal tradizionale. Dio sarebbe l'infinito essere, ogni altro da Dio non potrebbe essere che il suo «contrario», ossia non-essere, dunque al massimo un essere apparente che, se è, è in Dio non solo, ma è Dio, che se invece non è Dio non è nulla. Ciò vale in particolare dell'uomo, anche lui apparente contrario di Dio, a cui però è consentita la libertà di scelta: d'essere Dio o altrimenti d'essere nulla. Quello è per noi il paradiso, questo è per noi l'inferno.Una tale ipotesi «fantastica», ma vera per l'autore, viene dichiarata come qualcosa di profondamente liberatorio, meraviglioso, esaltante. L'uomo sceglie Dio con l'amore di Dio e del prossimo, sceglie altrimenti il nulla, cioè l'inferno, e lo sceglie attraverso la propria individualistica autoaffermazione illusoria che è precisamente l'affermazione d'un nulla.
Se così è (e se non abbiamo semplificato troppo, falsandola un po', una teoria già semplice), la prima domanda che si è tentati di farsi è in che cosa potrebbe, allora, distinguersi per noi il paradiso e l'inferno, dal momento che, nella fattispecie, l'individualità umana, come ogni altra diversità-contrarietà di Dio, viene cancellata in ogni caso, o in Dio o nel nulla. Non riusciamo a intuire con chiarezza la risposta dell'autore, il quale però senz'altro dichiarerà, noi supponiamo, che la differenza è semplicemente infinita, ma che temiamo sarà logicamente obbligato, allora, a distinguere a sua volta tra diversi modi di essere individui, e dunque tra più di un modo di essere contrari di Dio. Riteniamo però che questo testo merita di essere attentamente meditato da una teologia che eventualmente si occupasse di mettere a punto una interpretazione del dogma dell'inferno più autentica e critica di tante che sono corse in passato in bocca a teologi o, peggio, a predicatori.
Esistono suggestioni sia filosofiche che esegetiche nel senso inteso da Thellung. Da Agostino in poi, il male viene definito (antimanicheicamente) «non essere» in ogni possibile sua accezione, metafisica, fisica, morale, mistica. Non essere di qualcosa che "doveva" essere, va bene, e dunque la cui assenza o privatio (non semplice negatio) si dovrebbe sentire negativamente, ossia soffrire. Ci dovrà allora essere qualcosa o qualcuno, che positivamente è, e che «doveva» diventare ciò che non è diventato, per soffrire una simile mancanza di essere. Ma il quale come tale è ad ogni modo qualcosa che non è, e che non è in questo stesso qualcosa o qualcuno che soffre. È dunque quanto meno un suo essere o esistere meno. e un meno che non si sente, e si soffre di non sentirlo. Consegue di qui che, con il crescere del male in quello stesso che lo fa, decresce in lui l'essere e che al limite del male massimo o massima malvagità egli è anche al limite del nulla puro. Se non diventerà un nulla puro sarà solo perché non potrà diventare un male puro, una pura e totale malvagità. Decrescendo ad ogni modo nell'essere, dovrà conseguentemente decrescere anche nel potere, ogni sua capacità sarà allora avviata e sospinta sempre più verso il non-essere e il non-potere, verso quindi una sempre minore capacità di soffrire, oltre che di godere. Più si è, per il male, lontani e contrari a Dio, meno si è semplicemente.
Ma questo non è, un'altra volta, un paradosso? Quanto più si è malvagi tanto meno si è, dunque tanto meno si può, tanto meno si soffre. Non sembra giusto. Come pure non sembra giusto che il puro nulla debba essere l'identico traguardo di tutti i malvagi, non importa se tali più o meno. L'ipotesi fantastica non pare dunque casi semplice come Thellung ce la delinea. Di più, se qualche malvagio preferisse nonostante tutto essere, sia pure poco, piuttosto che non essere? Se sembra inammissibile che Dio trattenga in essere chi non vuole assolutamente essere, sembra egualmente inammissibile un Dio che annulla (lascia che si annulli) chi volesse essere comunque ancora. Bisognerebbe allora consentire ai malvagi che hanno optato contro Dio e cioè contro se stessi per il nulla, una nuova opzione: tra non essere ed essere ancora un po'. È però «un po'» che Thellung non potrebbe accettare nella sua ipotesi. O essere infinitamente Dio o non essere semplicemente. Ecco allora un altro paradosso: è giusto che Dio venga conquistato in modo identico e indifferenziato da chi ha fatto, per conquistarlo, di più come di meno? O bisognerebbe stabilire a priori l'eguaglianza assoluta fra ogni sì e ogni no delle scelte umane complessive. Thellung sembra postularlo: Dio è semplice, in Dio si è semplicemente e divinamente o non si è.
Ad ogni modo altre suggestioni nella direzione dell'ipotesi di questo libro vengono anche dal Vangelo, dove il paradiso è indicato spesso in termini di vita eterna e l'inferno di morte eterna, e ciò sembrerebbe manicheo e non cristiano se venisse inteso come un'altra specie di vita, come un male sussistente, eternamente sussistente e inalienabile, mantenuto in essere da Dio (ma come può essere mantenuto in essere un non-essere?), dove debba esserci sempre qualcuno pure mantenuto in essere da Dio, affinché soffra l'infinita pena della perdita dell'infinito bene, con in più per giunta (secondo certa teologia tradizionale) penalità fisiche positive quantomeno dopo la resurrezione dei corpi. Sarebbe un attribuire a Dio che è tutto e solo bene infinito una eterna causalità di male. Si può amare un Dio simile? si domanda l'autore. «Morte eterna» dovrebbe allora essere interpretato alla lettera come una morte in ogni senso totale, come puro nulla. È quanto, secondo Thellung, appunto indicano le terribili metafore del « fuoco eterno», del « fuoco della Geenna» (dove il verme non muore e il fuoco non si estingue), delle «tenebre esteriori»: significano la consunzione radicale dell'essere (come la Geenna era la consunzione per combustione delle immondizie) di chi ha optato contro Dio per il nulla, anche con il decidere di credere che di là dalla morte non c'è nulla, né creatura né Dio. E a proposito della" resurrezione della vita" e della" resurrezione del giudizio" che discriminerà gli uomini alla fine del mondo (G v 5, 29), l'autore ha buon gioco ne! mostrare, dizionari greci alla mano, che « anastasis» (resurrezione) ha lo stesso senso ambivalente che ha il termine Aufhebun[!, (superamento) in tedesco: tanto innalzamento che eliminazione, a seconda del contesto. Ma il « pianto» e lo « stridor di denti»? E il «crucior in hac flamma » del ricco epulone? nel puro nulla non dovrebbe esistere né dolore né pianto. Sono metafore, pensiamo che risponderebbe l'autore, da interpretare in base ai termini più propri e dominanti di «morte» e di « tenebra» (come totale assenza di luce) e di « esteriore» (come di esterno, di fuori da Dio e quindi dall'essere). Oppure è qualcosa che ha la durata del processo di consunzione-combustione del male e del malvagio.
Sono ermeneutiche e sono concezioni che hanno le loro difficoltà come si è visto. Ma le registriamo affinché servano da stimolo alla riflessione teologica sul dogma dell'inferno. Anche le ermeneutiche contrarie hanno però le loro difficoltà. Inutile nasconderci che questo dogma è uno dei massimi ostacoli per la fede cristiana e la prima ragione di molte apostasie. Molti sono quelli che restano o diventano cristiani solo a patto di credere che l'inferno esiste sì come possibilità, ma che sarà di fatto vuoto. Magistero, teologia, concili tacciono come imbarazzati da notevole tempo in tema, oppure si limitano a richiami indiretti e imprecisi. Inutile nasconderci che il dogma dell'inferno ha avuto in passato elaborazioni distorte e perversioni nevrotiche e nevrotizzanti o forse cattive, offrendosi talvolta come alibi a smanie vendicative personali (come a Dante contro Bonifacio VIII) assai poco cristiane e contribuendo a generare difformi e disorientanti idee di Dio. Ci si è troppo dimenticati che la prima astuzia di Satana è di insinuare in noi l'idea di un Dio simile a lui. D'altra parte la malvagità umana ha avuto e di continuo ha manifestazioni di tale schifo ed efferatezza che anche un Dio di pura misericordia e salvezza, e non anche di giustizia, per il quale il conto de1!a giustizia non si può chiudere nei termini del tempo, sembrerebbe altrettanto inaccettabile, deforme e inamabile di quello del creatore dantesco dell'inferno. Fin troppo beato potrebbe sembrare un nulla puro per certi uomini verme o uomini belva, veri e reali fin troppo, oppure «per il diavolo e per i suoi angeli ».
Ad ogni modo, a parte gli esitanti e imbarazzanti interrogativi che il libro di Thellung lascia ancora accesi, salutiamo con simpatia la sua apparizione. Soprattutto perché esso milita con limpido entusiasmo per una splendida idea di Dio. Splendida, oltre che verissima, ci sembra, per esempio, l'idea che il Logos di Dio è, nel senso radicale del verbo lego (raccogliere), la forza divina che legando Dio a Dio, anche lega di continuo, raccoglie, redime l'altro da Dio in Dio, lo redime dal suo male come contrario di Dio (idea di redenzione a-priori, più fondamentale della stessa creazione). Così il mondo, l'altro da Dio, è con il suo male «la dimostrazione di Dio ». Il male dimostra il bene ed è così la continua prova della propria inevitabile sconfitta ne1!a inevitabile vittoria del bene. «Nei miei poveri limiti umani non so immaginare nulla di meglio. Certamente Dio sarà qualcosa di più, tuttavia mi basta già così: un simile Dio lo posso amare senza riserva alcuna» (p. 24). Molto giusta e viva anche l'insistenza che la «scalata a Dio» l'uomo la realizza soprattutto aiutando gli altri.
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