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- Adista Notizie n. 47 - 17 Giugno 2002 MA DI QUALE CHIESA PARLIAMO? IL NUOVO LIBRO DI ANTONIO THELLUNG
Mons. Luigi Bettazzi considera "singolare che ad un vescovo venga chiesto d'introdurre un libro come questo", ma, nello stesso tempo definisce il libro "un singolare trattato sulla Chiesa". Il libro è l'ultimo lavoro di Antonio Thellung (Con la Chiesa oltre la Chiesa, Cittadella editrice, Assisi); la sua singolarità consiste nel fatto che Thellung riesce a trattare della Chiesa senza gli strumenti del mestiere del teologo (proprio perché non è teologo) ma attingendo al patrimonio della sua esperienza di credente che cerca, e "apprendendo" dalla "cattedra" dei "lontani" e dei "dubbiosi". Ne è venuto fuori un libro che, abbandonato del tutto il vecchio metodo apologetico, racconta e accoglie il disagio di quanti (lontani, dubbiosi, cristiani dal desiderio di una fede adulta) si sono imbattuti nei limiti della Chiesa delle ambiguità, dei delitti, delle certezze, delle scomuniche. Tutt'altro che un cahier de doléances, il libro di Thellung induce a sognare e a inverare una Chiesa protesa verso un "oltre" - anche storico - senza confini, dove tutto è più vivibile e più visibile senza doversi vergognare di nulla se non della incapacità di sognare (il libro di Thellung, presente nelle principali librerie religiose, può essere richiesto alla Comunità del Mattino, via della Pisana 1100, 00163 Roma, fax 06-66152973, e-mail comattino@hotmail.com).
Tu raccogli e racconti gli innumerevoli "dubbi" tuoi e dei tuoi amici sull'istituzione Chiesa, che per la quasi totalità dei cattolici è fonte di certezze per la propria fede. Non ti pare di esagerare?
È finita l'ora delle certezze, perché oggi è cresciuta la presa di coscienza. Le verità garantite non servono più, le coscienze non si possono delegare, nel Nuovo Testamento è detto chiaramente che perfino Gesù, se fosse ancora sulla Terra, non sarebbe neppure sacerdote; perché ha fatto di noi un popolo di sacerdoti, che portano scritto nei loro cuori di carne gli insegnamenti divini. Quale figlio potrebbe delegare il rapporto con il proprio genitore? O quale genitore vorrebbe rinunciare al rapporto diretto con i suoi figli? Per questo Gesù ha detto di non chiamare nessuno padre sulla Terra, perché il paternalismo è uno dei più subdoli nemici della presa di coscienza. Attenzione, però. Questo non significa affatto che autorità e magistero siano inutili: tutt'altro! I fratelli maggiori sono d'importanza capitale, guai se non ci fossero. Ma quando vogliono assumere un ruolo di padre (parola peraltro usata e abusata in campo ecclesiastico) è difficile negare che contraddicono Cristo. Un Magistero pedagogo, capace di stimolare ciascuno a far crescere la propria coscienza personale, si fa urgente.
Cosa intendi dire quando affermi che autorità e magistero possano "contraddire Cristo"?
Prendiamo il problema storico, ma anche attuale, della scomunica. Si tende a dare per scontato che l'autorità abbia diritto di stabilire chi è dentro o fuori la Chiesa. A me non sembra vero. L'istituzione, che incarica taluni di rappresentarla, ha sempre diritto di revocare detti incarichi (e di stabilire quindi chi fa o non fa parte dell'istituzione). Ma come può dichiarare chi è dentro o fuori la Chiesa (scomunicare) che è una realtà di altre dimensioni, i cui confini sono noti soltanto allo Spirito Santo? Oltre tutto, escludere o emarginare chi la pensa diversamente è negativo e autolesionistico, perché per costruire bisogna lavorare insieme, disponibili a lasciarsi convertire l'un l'altro. Un magistero delle coscienze, meno dogmatico ma più dialettico, disponibile a lasciarsi arricchire dall'apporto di tutti, anche dei più scomodi, sarebbe assai più autorevole e potrebbe coalizzare attorno a sé tante persone che avvertono l'urgenza di promuovere cammini di conversione.
Il tuo virtuale interlocutore nel libro ti chiede: "di quale Chiesa vogliamo parlare?". Tu di quale Chiesa parli?
Non solo a livello popolare, ma anche nei documenti ufficiali, come ad esempio la famosa Dominus Iesus, la parola Chiesa viene usata in modo ambiguo, sia per indicare l'insieme del popolo di Dio, sia il solo magistero. Secondo me si sottovaluta il danno creato da questo duplice uso. Dall'esterno, ad esempio, la Chiesa viene più o meno identificata con quello che dice il papa, e quindi come un insieme di allineati e coperti che portano le coscienze all'ammasso. All'interno, poi, vengono continuamente mortificate le voci profetiche, col rischio di tappare la bocca allo Spirito Santo. Mi domando: come può uno stesso termine indicare sia l'insieme che i particolari? Se si avesse il coraggio di usare la parola Chiesa soltanto nel suo significato corretto (intero popolo di Dio), usando negli altri casi, ad esempio, "autorità ecclesiastica", "istituzione", "magistero", credo che si compirebbero decisivi passi avanti verso una Chiesa delle coscienze. Da questo l'invito a tutti di non usare mai più la parola Chiesa in senso improprio.
Se è improprio parlare di errori della Chiesa, gli errori del passato di cui il papa ha chiesto perdono, sia pure in contesti di grande spettacolarizzazione massmediali, sono della Chiesa o dell'istituzione?
Il papa ha compiuto un gesto di straordinario coraggio chiedendo formalmente perdono per le deviazioni ecclesiastiche del passato. Se, come dice qualcuno, è stata una richiesta insufficiente, bisognerebbe allora affiancarsi a lui per completare l'opera, sentendosi tutti solidalmente corresponsabili con i nostri predecessori per il solo fatto di essere cristiani. Ci sarebbe bisogno dell'apporto di tutti, in particolare per identificare quelle caratteristiche delle strutture di potere che, una volta formate e consolidate, portano inevitabilmente a compiere del male, o a giustificarlo e avallarlo. Si tratta di conseguenze automatiche, e neppure la Chiesa ne è esente. Il papa è stato lasciato troppo solo in quel gesto, non soltanto dai suoi collaboratori, ma anche da tutti noi che aspiriamo a una Chiesa meno autoritaria. Bisognava approfittarne, invece è stata un'occasione perduta. Ma siamo sempre in tempo, basterebbe riprendere l'argomento e farlo proprio, soprattutto da parte di chi aspira a convertire l'autorità.
In uno dei passaggi del tuo libro parli del dovere dei cristiani di "convertire l'autorità". Ma lo credi veramente possibile?
Analizzando la storia appare purtroppo chiaro che contrapposizioni e conflitti sono elementi naturali per la specie umana. La pace invece dev'essere conquistata e costruita con impegno e tenacia. Finita l'era degli schieramenti ideologici si stanno attualmente affermando forme di schieramenti selvaggi, e i punti fermi appaiono sempre più sabbie mobili. Ma Cristo ha superato ogni forma di schieramento, mettendo in chiaro che siamo tutti parte della stessa famiglia, quella dei figli di Dio. Quando diciamo Padre nostro, con quel "nostro" intendiamo di tutti, oppure nostro e non di altri? Sembra una domanda retorica, eppure talvolta si ha l'impressione che qualcuno, anche nella Chiesa, continui a intendere che Dio è con noi contro i nostri nemici. Ma se prendiamo sul serio che ogni essere umano è figlio dello stesso genitore, allora lo spirito ecclesiale apparirà chiaro. Andare d'accordo non significa assenza di conflitti. Significa invece litigare tenendosi per mano. Perché il conflitto, inevitabile per natura, non è necessariamente negativo. Quando viene affrontato in modo costruttivo allora serve a far maturare tutti i contendenti. Per questo l'idea stessa di scomunica è la negazione dell'insegnamento di Cristo. La contrapposizione è diabolica: per combattere efficacemente il male bisogna semplicemente promuovere il bene, cioè camminare fianco a fianco anche nei disaccordi, continuando a condividere senza stancarsi. Tutte le autorità responsabili di un qualsiasi governo tendono a contrapporsi, quando qualcuno tende a destabilizzare lo statu quo chiedendo conversione e rinnovamento. Ma come diceva Tullo Goffi più di vent'anni fa, tra le caratteristiche costitutive del cristiano c'è anche il dovere di convertire l'autorità (cfr. Nuovo Dizionario di Spiritualità, ed. Paoline, 1979, pag. 1087). Nel passato, di fronte a taluni atteggiamenti autoritari e poco evangelici del magistero, sovente il dissenso si è espresso come contrapposizione, ma oggi appare più chiaro che sarebbe inutile voler sostituire un'autorità con un'altra: bisogna aiutarla a migliorarsi. Per questo serve un dissenso che non sia contrapposizione: un dissenso affettuoso, magari affettuosamente spietato, ma condotto chiaramente dall'interno.
Dopo aver attraversato le zone d'ombra di questa Chiesa inviti il tuo interlocutore (e i tuoi lettori) ad andare "oltre" la Chiesa. Qual è la Chiesa che i cristiani dell'"affettuoso dissenso" possono sognare?
La speranza per il futuro è che il modello di Chiesa gendarme venga abbandonata del tutto. Da parte mia, a fronte di una Chiesa che puntualizza e scomunica ne percepisco un'altra, dalle caratteristiche molto diverse, che non chiude mai la porta, che non esclude, che non teme il confronto con il dissenso, che insegna a camminare insieme anche nei disaccordi. E sogno un'autorità che sappia insegnare a diventare amici dello Spirito Santo, in modo da saper ascoltare la sua voce quando necessario. E ho la sfrontatezza (o la follia) di crederlo un sogno concretamente realizzabile. Anche il magistero trarrebbe grande beneficio da una Chiesa delle coscienze, capace di alimentare una dialettica che sia stimolo permanente alla conversione. Scoprirebbe di essere il magistero di un popolo adulto, più difficile da governare ma attivo e dinamico, fatto di fratelli e sorelle ben determinati a camminare tutti insieme con la Chiesa, ma per andare oltre, per costruire e vivere quel Regno di Dio che si fa sempre più urgente.
Avvenire, 20 luglio 2002 Verso i lontani tra apologia e missionarietà di Maurizio Schoepflin
Fin dagli albori del cristianesimo, la preoccupazione missionaria è andata di pari passo con quella apologetica: per conquistare i pagani alla nuova fede, i cristiani cercarono di presentare le loro credenze in un modo che fosse nel medesimo tempo rigoroso e accattivante, ovvero senza cedimenti sulle verità fondamentali, ma anche tenendo intelligentemente conto della sensibilità e della cultura degli interlocutori. Lungo i secoli, l'apologetica si è mossa entro queste coordinate, ora accentuando maggiormente l'intangibilità del messaggio, ora venendo incontro alle esigenze di mediazione imposte dal dialogo con persone lontane o addirittura ostili. Non v'è dubbio che il libro di Antonio Thellung «Con la Chiesa oltre la Chiesa» appartenga a questo secondo genere di discorso apologetico e ne estremizzi le caratteristiche. Thellung, infatti, dice di aver preso spunto per scrivere il libro dalle dure critiche mossegli dall'amico Andrea, che non gli perdona di essere cattolico e di appartenere alla Chiesa, la quale, a suo giudizio, non rispecchia affatto il messaggio evangelico, a causa di un inguaribile dogmatismo. La critica di Andrea non appare particolarmente originale, ma, come è noto, continua ad avere discreto successo e ampia diffusione, ed è sintetizzabile nel concetto «Cristo sì, Chiesa no».
Thellung, che ha alle spalle un lungo e complesso cammino di fede, risponde ricorrendo ad argomentazioni che, come afferma nella prefazione il vescovo emerito di Ivrea monsignor Luigi Bettazzi, meritano ulteriori precisazioni catechistiche e «dovranno essere teologicamente puntualizzate». In effetti, Thellung, venendo incontro alle critiche dell'amico, non esita a palesare, nei confronti del Magistero, netti «disaccordi anche su problemi importanti», autodefinendosi un figlio birichino, ma non per questo un nemico della Chiesa. «La storia e l'esperienza dell'autore – scrive ancora monsignor Bettazzi – lo portano a essere molto aperto, così da sembrare talora spietato nell'indicare fatti e comportamenti della Chiesa e dei suoi uomini del passato (e del presente). Ma è proprio questo – conclude Bettazzi – che rende ancor più evidente e convincente il suo amore per la Chiesa».
Si può discutere sulla reale utilità apologetica di opere come quella di Thellung, utilità di cui è invece decisamente sicuro Luciano Meddi, Professore di Teologia pastorale e catechetica alla Pontificia Università Urbaniana, il quale partendo dall'affermazione che «il ministero non basta e che il carisma non guasta», dichiara la propria «condivisione convinta» dello scritto di Antonio Thellung. A questo riguardo, sarebbe particolarmente interessante sapere che cosa ha detto l'amico Andrea dopo la lettura del libro. Avrà cambiato idea, o continuerà a pensare che sarebbe meglio «che la Chiesa non esistesse»?
Famiglia Cristiana, 21 luglio 2002 Ma la Chiesa è altrove di Renzo Giacomelli
Rivolto a non credenti e a credenti in crisi, il volume si dipana come una risposta alla lettera di un vecchio amico. Alle accuse di costui (non ha senso stare in una Chiesa dogmatica, chiusa, fin troppo mondana), Thellung replica condividendo alcune critiche. Ma, sostiene, la Chiesa è soprattutto altrove, al di là dell'istituzione, perché è mistero. Scrive il vescovo Luigi Bettazzi che il testo è «un catechismo per gli increduli, cioè per coloro che hanno difficoltà nel credere…. Si tratta dunque di un cammino di maturazione nella fede o, se si vuole, di una fede per uomini maturi, ma di un cammino che dà gioia, come traspare da tutto il libro, anche dalle pagine più critiche».
Koininia, agosto 2002 Un libro che ci voleva di Alberto Bruno Simoni o.p.
Questo libro ci voleva, ed è come se lo aspettassi da tempo: naturalmente non come fatto editoriale o letterario, ma come documento di una esperienza di vita e di pensiero, che in qualche modo incarna una “spiritualità” o la visione di Chiesa del Concilio Vaticano II. Alle prime battute mi verrebbe da dire che Koinonia vi scopre quel tesoro nascosto nel campo che ha sempre cercato e per acquistare il quale si è disfatta di tutto il resto. Intendo dire - come si può leggere in copertina di “Querceto anno zero” del 1974 - quel tipo di Chiesa “che non sia solo di credenti senza essere comunità e non sia solo comunità senza essere di credenti”. Qualcosa insomma che risanasse la storica frattura o scisma latente dei credenti dalla Chiesa o riducesse la distanza della Chiesa dalla sua base.
Ed è in qualche modo quanto avrebbe chiesto di fare il Concilio, quando il nuovo modo di “vivere da cristiani” lo propone come un “vivere da Chiesa”.
Che questa possa essere una possibile chiave di lettura del libro lo comprova una citazione che A.Thellung fa di A.Lapple, in cui sembra riconoscersi lungo tutta la sua riflessione: “Con il Concilio (Vaticano II) l’essere cristiano non è diventato più facile ma più difficile. Forse Dio ha condotto la sua Chiesa a un nuovo stadio. In futuro non ci saranno più tante ricette da parte della Chiesa. Questa si aspetta dall’uomo maggiorenne in un mondo adulto la decisione responsabile della coscienza”.
È in questo senso che l’A. dice di essere “con la Chiesa”; ma questa sua scelta personale o di campo – come si usava dire una volta - è destinata a diventare libro aperto, dietro la provocazione di un amico che in una lettera mette in discussione questa scelta, contestata a sua volta da un nipote che non esita a “fargli capire che per loro la Chiesa è semplicemente out”.
In un paragrafo a p. 135 troviamo questa dichiarazione, che tradisce motivazioni e attitudine del libro: “Ecco perché scelgo di essere Chiesa: un’opportunità che non voglio perdere. Per questo partecipo con grande gioia agli aspetti che più condivido, ma cerco di ascoltare senza pregiudizi le critiche e le accuse che non la risparmiano, come quelle tue, dei miei nipoti o di chicchessia. E ancor più cerco di capirne gli aspetti discutibili, leggendo con attenzione i suoi documenti, soprattutto quando non riesco a condividerli. E vorrei aggiungere di non poter negare, ad essere franco, che là dove definiscono con mille distinguo quali siano le cose da credere o non credere, mi sento assalire da mille dubbi, mentre nella Chiesa mistero mi sento a mio agio, senza bisogno di spiegare perché”.
Quindi il libro nasce non come apologia, ma come dialogo con interlocutori reali ma anche emblematici, proprio perché è prima di tutto frutto di una ricerca personale appassionata, di un ascolto di ciò che della Chiesa dice la gente, oltre che di attenzione critica alla voce ufficiale del magistero, trovando un punto di forza nella storica recita del “mea culpa” di Giovanni Paolo II. Riguardo al magistero si dice spesso che “la sua è solo una metà della verità cristiana, che per diventare completa ha bisogno di coscienze che sappiano accoglierla e metterla in pratica nei gesti di amore applicato” (p.151).
La scoperta fatta, che è anche impegno da perseguire, è appunto questa “Chiesa-mistero” come punto di incontro di tutte le componenti della Chiesa, al di là di tutte le appropriazioni: “Non solo nei documenti, ma anche nelle dinamiche pastorali mi accorgo che l’immagine della Chiesa-mistero viene utilizzata in modo estremamente elastico; da un lato per affermare che non si può prescinderne, ma dall’altro lato, una volta acquisito tale principio, per tentare di porlo al servizio dell’aspetto istituzionale. Di quella parte di Chiesa basata su strutture e formulazioni rigide che vorrebbero imprigionare e governare l’affascinate delicatezza del mistero, anziché lasciarsene avvolgere” (p.22).
E se una Chiesa-popolo e una Chiesa-istituzione sono spesso in contrapposizione, questo avviene solo “all’interno della Chiesa clericale, nella quale i cosiddetti conservatori e progressisti appaiono come due facce della stessa medaglia: l’integralismo” (p.28). Quindi c’è da “lavorare al recupero di una dimensione ecclesiale che abbia senso” (p.39): “Personalmente, da quando ho capito che la Chiesa sono io (per l’aspetto che mi riguarda direttamente, ma non solo) pur se un po’ spaventato mi accorgo di essere assai più stimolato e attivo. Un tempo la sentivo distaccata e lontana, come un’estranea, talvolta perfino ostile. Ma da quando ne ho scoperto il significato profondo mi sento spronato a fare tutta intera la mia parte, cominciando col guardare gli aspetti negativi non come fatti altrui, ma come colpe che mi riguardano, e delle quali dovrò rispondere in prima persona. Infatti, oltre alle responsabilità personali commisurate per ciascuno al proprio ruolo, capisco che il solo fatto di appartenere alla Chiesa mi coinvolge in una responsabilità media collettiva che, al di là delle singole posizioni, lega insieme tutti i cristiani a renderli corresponsabili in solido” (p. 46).
Queste poche battute non sono affatto un resoconto del libro, ma forse danno conto del suo messaggio, che traspare anche da queste parole rivolte all’amico interlocutore: “Anche se condivido con te il sospetto che le verità ‘garantite’ servano soltanto a chi vuole fuggire le paure o coltivare illusioni, credo che il cammino ecclesiale sia indefettibile proprio per il fatto che venga percorso da tante persone diverse, capaci di mettere in comunione le loro contraddizioni. Questo è motivo di grande speranza, mentre le singole proposizioni mi sembrano sempre meno essenziali” (pp. 69-70). Dunque, a risolvere le contraddizioni è il primato della Chiesa-mistero: il vissuto ecclesiale, la Chiesa dell’implicito e del non-definito, quella che poi viene chiamata la “Chiesa delle coscienze”.
E fin qui non c’è che da condividere istanze e ipotesi di lavoro, nel rispetto e nella valorizzazione della coscienza e della fede di ciascuno, da far maturare e amalgamare nel tempo e nella loro diversità. E di questo c’è da ringraziare l’autore. Ma non posso nascondere interrogativi e perplessità nati nella lettura della seconda parte del libro, come quando scrive: “Mi sembrerebbe, insomma, che la migliore evangelizzazione non consista nel parlare di Gesù Cristo, ma nel dare testimonianza di vita secondo i valori da lui indicati. Nominarlo o meno è assolutamente secondario. Nella Chiesa-mistero, che comprende il cristianesimo implicito, termini diversi possono indicare la stessa cosa:... che sia Cristo a salvare anche dove non si parla di lui, può essere semplicemente una questione terminologica” (p. 122).
Fino a quando cioè si parla di modalità diverse nel presupposto di un riferimento comune di fede o di “mistero”, veramente indefinibile e irriducibile a formule, c’è sempre tutto da fare per comprendere, assimilare e interpretare. Ma quando una questione di metodo diventa una questione di merito o di contenuti, allora succede che la forma sta per il contenuto, la coscienza critica e adulta sta per la verità (come se questa appartenesse solo ai sapienti e agli intelligenti), e al mondo delle certezze esplicite e definite contrapponiamo le nostre certezze e le nostre definizioni implicite. Si potrebbe dire: il nostro magistero!
Mi sembra cioè che al di là di ogni intenzione la volontà di conciliazione e di apertura si trasformi da una parte in ecumenismo indifferenziato e dall’altra in magistero alternativo. E l’immagine che ne esce è quella di una Chiesa-paradigma universale di coscienza etica ed estetica, dove la dimensione storica della salvezza - e della Chiesa stessa - rimane del tutto oscurata. Questo almeno come prima impressione di lettura, tra luci e ombre; ma non è da escludere che A.Thellung, così come ha fatto col suo amico Andrea, possa sciogliere queste poche riserve su un libro che ci voleva, e che è come un sasso nello stagno.
La Civiltà Cattolica, 18 gennaio 2003 Recensione di Piersandro Vanzan
I testi che presentiamo si inseriscono nel quadro degli interrogativi che, nel passaggio di millennio, gli specialisti hanno posto alle varie realtà sociali: dove va la politica, la scuola, la famiglia?... Per quanto riguarda la Chiesa, gli AA. Che recensiamo tracciano, da ottiche complementari e ricorrendo a strumenti molto diversi, analisi e chiarificazioni propedeutiche al futuro identikit della Chiesa, che sarà migliore dell'attuale se, risolvendo le tensioni tra Chiesa e modernità, verranno integrate creativamente la migliori acquisizioni postconciliari….
Su tale scenario di fondo, il Thellung affronta le tensioni esistenti tra un'antica forma del Magistero (la Chiesa delle scomuniche) e quella di un Magistero pedagogo (la Chiesa delle coscienze), ipotizzando una via d'uscita nella sintesi tra un irrinunciabile ruolo dell'omnia valiare, quod bonum est tenere, e quello che favorisce nei battezzati sia la purificazione della memoria, sia l'esperienza comunionale del filii in Filio. Certo, questo A. non è un teologo di professione, ma da fedele laico impegnato nella Comunità del Mattino (e suo cofondatore), vive il «già e non ancora del sogno di Dio in Cristo» nella Chiesa di Roma e si prodiga nel moltiplicare in essa le «comunità accoglienti», dove incontrandovi «altri significanti», possano risolversi nel dialogo fraterno anche le più spinose questioni pastorali. Così, egli propone di valorizzare le molte «storie personali» nella ricerca di un concursus fidelium nuovo, in grado di far sintesi tra coscienza personale e struttura intraecclesiale.
Da parte sua mons. Bettazzi, vescovo emerito di Ivrea, osserva nella prefazione che «alcune affermazioni dovranno essere teologicamente puntualizzate», ma esse fanno parte del taglio che questo libretto persegue: «Un invito alla fede per i lontani o i dubbiosi che poi, in un momento successivo, preciseranno alla luce dei catechismi ufficiali».
Non a caso il testo - «quasi un flusso di coscienza arginato e sistematizzato» leggiamo nella postazione di Luciano Meddi, docente della Pontificia Università Urbaniana – nasce come risposta dell'A. alle provocazioni di un amico «lontano dalla Chiesa». E benché condivida molte riserve di quell'amico, il Thellung non solo riconferma un pieno (benché critico) amore alla Chiesa e la ferma volontà di continuare a farne parte, ma addirittura contrattacca proponendo l'unica alternativa che può smontare quelle critiche: riaprire un dialogo in e con tutta la Chiesa, al vertice e nella base, così da ripartire tutti insieme (coinvolgendo anche i lontani) verso quel modello, antico e sempre nuovo, proposto dallo Spirito nel Vaticano II. Una Chiesa siffatta non avrà paura di ospitare al suo interno pure «credenti critici», ossia non più abituali consumatori di sacro, ma in grado di esprimere una fede adulta e, se necessario, anche dissenziente rispetto ai luoghi comuni e alle trite ripetitività.
Presbyteri, aprile 2003 Recensione di Felice Scalia s.j.
Per presentare quest'ultima opera di Antonio Thellung – uno dei fondatori della Comunità del Mattino – bastano le parole di mons. Bettazzi nella prefazione: si tratta di «un singolare trattato sulla Chiesa, un catechismo per gli increduli, per coloro che hanno difficoltà a credere». Contenuto e destinatari sono dunque evidenti. Il libro si rivolge a gente che cerca un 'oltre' ma stenta a trovarlo nella Chiesa, a giovani che troppo facilmente considerano 'out' l'argomento, a cattolici che insieme – diciamo insieme – sono orgogliosi e vergognosi della propria appartenenza religiosa. Un volumetto singolare, dunque, per lettori singolari.
Al di là di questi innegabili aspetti, l'opera seduce per il diverso percorso che suggerisce nella soluzione di problemi teologici ed esistenziali molto avvertiti dai cristiani di oggi, preti o laici che siano: intreccio tra identità e realtà della Chiesa, ecclesiologia essenziale ed esistenziale, appartenenza e coscienza, fedeltà al Vangelo ed adesione al magistero. Chi non avverte il rapporto dialettico tra le diverse coppie di elementi ricordati, troverà urtante il libro. Si rivolga ad altro. Ma chi sente nella propria carne il pungolo di antitesi a volte irrisolvibili, sentirà in questa esperienza dell'A. un singolare 'cammino di confine'.
Non è questa, del resto, la situazione dell'uomo di fede cristiana? Come seguaci del Verbo incarnato, noi non apparteniamo alla terra e neppure al cielo; nostra patria non è la Chiesa-mistero soltanto, e neppure la sola istituzione-Chiesa. Siamo esuli quando approdiamo alla chiarezza delle definizioni dogmatiche, e non abbiamo fissa dimora neppure tra le ventate di uno Spirito non soggetto al discernimento di una comunità. Ci aggiriamo nel mondo della fede, pur sapendo che senza riti – anche discutibili – ed assemblee religiose, perfino la fede si spappola in consolazioni illusorie. Siamo a disagio sotto le chiavi di Pietro e tuttavia ne sentiamo il bisogno quando lo Spirito di Cristo agita i nostri cuori e ci spinge a rinnovare questa antica barca che è la Chiesa. La Chiesa è mistero, ma chi la abita vuole anche istituzione.
Solo se ci percepiamo uomini di confine, anche noi alla perpetua ricerca di un 'oltre', solo se saremo esuli e ci sentiremo 'di casa' in ogni terra che ad altri sembra straniera, solo allora avremo il diritto di sentirci cristiani che hanno in cuore la speranza di un mondo e di una Chiesa migliori. L'opera ci sembra una buona pista per un cammino ecumenico dal basso, per un dialogo coi non-credenti. Impostando le cose come fa l'A., tutti appariamo creature che cercano il volto di Dio, uomini che anche quando credono di averlo trovato percepiscono, o prima o dopo, che in realtà sono stati trovati e accolti e sostenuti dalla ineffabile tenerezza del Padre fino al giorno della salvezza.
L'ultima 'singolarità'. L'A., uomo di confine, credente che sa ascoltare la parte non credente sua e degli uomini del nostro tempo, ha abbattuto molti muri che erano «frammezzo» (Ef 2,14), e questo pur con una chiara spiritualità, con una dichiarata appartenenza ecclesiale, una ortodossia di pensiero, una disponibilità ad ascoltare e ad entrare in crisi se voci autorevoli (magisteriali o no) indurranno ad ulteriori maturazioni la sua coscienza di cristiano. Quasi a dire che per essere cristiani di speranza è indispensabile andare fino in fondo alla propria appartenenza confessionale, e da quel centro mettersi in ascolto di tutti e di tutto. Solo dopo un viaggio nel profondo della propria anima e del Vangelo si può auspicare un 'oltre' per la Chiesa, pur restando dentro questa Chiesa.
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