- IL SEGRETO PER
ESSERE FELICI A Villa Speranza incontro con lo
scrittore Antonio Thellung 20 marzo 2018
Le folte sopracciglia bianche
incorniciano uno sguardo vivace e profondo, il fisico asciutto e agile non
rivela assolutamente l’età. Antonio Thellung – 87 anni – è la dimostrazione
vivente che Fare del Bene fa bene. E anche se con scherzosa provocazione gli
piace dire che non ha tempo per star male, il segreto della sua vitalità è
sintetizzato nell’affermazione “Ho imparato ad essere felice”. Una frase apparentemente semplice che ci
ha chiarito oggi pomeriggio a Villa Speranza raccontando la sua lunga esperienza
come volontario nell’assistenza domiciliare ai malati terminali. Un vero
pioniere perché quando ha iniziato, tanti anni fa, in questo campo ancora si
muovevano i primi passi e si doveva procedere adattandosi al momento. Insomma –
come ci ha detto sorridendo – “bisognava avere un po’ di inventiva”. E di inventiva e capacità di adattamento
Thellung ne ha avuta davvero tanta, come dimostrano i diversi casi che ha
raccolto nel libro “ACCANTO AL MALATO … SINO ALLA FINE”, al centro
dell’incontro di oggi. Tanti racconti, tante persone – ognuna
con la sua peculiarità – descritte nel loro personale approccio alla malattia e
al trovarsi di fronte al momento conclusivo della propria vita, identificate
soltanto con il nome di battesimo, particolare che ha dato alla narrazione
un’intimità che ce le ha rese vive. Ma il momento in cui Thellung è riuscito
a coinvolgerci ancora di più e a dare prova ancora maggiore della sua
sensibilità è quando ci ha raccontato la sua esperienza con i bambini. Un campo minato che molti cercano di
evitare tenendoli lontano, raccontando bugie e facendo così danni a volte
irreparabili. Invece, ci ha detto, bisogna mettersi al
loro livello per trovare il canale di comunicazione e allora diventano
facili da conquistare e capacissimi di “assorbire le emozioni”. Come quando ai figli di una mamma il cui
corpo era stato, chissà perché, vestito di nero ha proposto di “colorarlo”
con i fiori. La scena ha perso allora tutta la sua drammaticità e ci
siamo trovati, commossi, a sorridere. In chiusura le domande dei numerosi
volontari e medici presenti che hanno sottolineato la notevole differenza tra
l’assistenza raccontata da Thellung – e da lui definita “artigianale” – e
quella praticata (e codificata dalla legge) attualmente. Anche se è risultato evidente
che, ieri come oggi, alla base di una buona assistenza c’è sempre l’ascolto. Ringraziamo Antonio Thellung per questo
incontro – due ore che sono volate! – e per la promessa che ha fatto di tornare
a trovarci.
L'ECO di San Gabriele8 ottobre 1998 di Luigi Accattoli
Antonio Thellung, romano, da quindici anni si occupa di assistenza agli infermi terminali. Un libro racconta la sua esperienza.
Dice che assistendo i malati ha "imparato a essere felice" e a me è bastata questa affermazione per decidere di intervistarlo. Si chiama Antonio Thellung, è romano, ha 67 anni, tre figli e sette nipoti. Da quindici anni si occupa di assistenza a malati terminali. Ha raccontato in un libro appena pubblicato - intitolato "Accanto al malato... sino alla fine. Esperienze e testimonianze" (Editrice Ancora, 140 pagine, 18.000 lire) - 23 storie del suo" coinvolgimento con sorella morte".
Quanti malati hai assistito in quindici anni?
Un'ottantina. E una quarantina ne ho visti morire. E' sempre un' esperienza straordinaria. Ogni volta ho la sensazione di essere di fronte al mistero. E' come se lo toccassi ed è come se la Grazia ti toccasse.
Perché dici che l'assistenza ti ha insegnato la felicità?
Preparando il libro, mi sono chiesto che cosa avessi imparato. Tante cose, tendevo a pensare: la pazienza, la capacità di valorizzare gli aspetti positivi che non mancano mai nelle situazioni drammatiche, la prontezza a far tesoro di ogni momento. Ma questo elenco non mi soddisfaceva, finché mi è parsa chiara quella risposta sulla felicità.
E' un' affermazione paradossale. I lettori la capiranno?
Qualcuno resterà incredulo, ma che posso farci se questa è la realtà? Penso che l'affermazione possa essere capita purché non si confonda felicità con spensieratezza. Comunque per me non è una teoria ma un' esperienza. L'esperienza di alcuni mediocri gesti eccezionali, che chiunque può compIere.
Prova a raccontarla con poche parole...
L'assistenza ai malati è stata una svolta per la mia vita. Prima pensavo che, per godere qualche gioia, fosse necessario allontanare il pensiero della sofferenza. Il mio atteggiamento è cambiato, quando ho sperimentato quali stupefacenti risultati si ottengono portando un sorriso nel dramma: e lì che quel paradossale stato d' animo che chiamo felicità mi ha conquistato. E ho capito che felicità e angoscia non sono in alternativa tra loro, ma possono convivere.
Qual è stata la prima occasione di questa scoperta?
La morte di mio fratello Eugenio, per tumore al cervello. Nella fase finale della lunga malattia, d'accordo con i miei famigliari, lo prendemmo in casa nostra. Fu così che ritrovai un fratello con il quale avevo sempre avuto buoni rapporti, ma un po' distaccati. Ci guardavano negli occhi, e penso che anche lui provasse un' emozione simile alla mia. Ma fu ad esperienza compiuta che mi accorsi, con sorpresa, di aver scoperto qualcosa di nuovo: che i tre mesi dedicati a Eugenio erano stati tra i più belli della mia vita. Per quanto gli avessi dato, avevo certamente ricevuto molto di più.
La scoperta della felicità fu tutta lì, o ebbe sviluppi?
Il tocco finale di questa scoperta è venuto con un'altra esperienza di assistenza, uno dei primissimi casi dopo la morte di mio fratello. Si chiamava Renzo e se ne andò in tre giorni: ci avevano chiamato all'ultimo momento. L' assistei per due giorni e il terzo fu mia moglie Giulia che si offerse per la notte. L'accompagnai e poi tornai a casa e mi addormentai finché poco dopo le due squillò il telefono. Come d'accordo, ritornai sul posto per aiutarla a lavarlo e a vestirlo. Poi dopo averlo salutato, tornammo a casa e alle cinque eravamo di nuovo nel nostro letto. Fu a quel punto che Giulia mi disse: "Stanotte ci siamo alzati per pregare insieme". Pregare non era stato mai il mio forte, ma da allora mi resi conto che quel tipo di preghiera mi era congeniale. Ciò che più mi colpì fu la parola 'insieme'.
Dopo questi inizi, come si è sviluppata la tua assistenza ai malati?
Fui tra i promotori dell'" Associazione Ryder Italia", nata a Roma quattordici anni fa, dalla britannica Sue Ryder Foundation, che offre assistenza a tutto campo (dalle prestazioni mediche al sostegno psicologico) ai malati terminali di cancro. Il gruppo romano oggi conta quattro medici, sette infermieri e una trentina di volontari. Ma non tutte le storie che racconto in questo volume sono legate all' associazione.
L'associazione è laica, tu invece hai motivazioni cristiane: qiual è la storia della tua fede?
Sono nato cattolico, ma poi ho avuto un allontanamento e infine una conversione. Ho perso la fede quando l'immagine di Dio che mi seguiva dall'infanzia arrivò ad apparirmi peggiore di me. Quel Dio vendicativo che la fa pagare al peccatore non l'accettavo più. Tornai alla fede quando intuii qualcosa della paternità divina. La conversione maturò attraverso una rilettura dei Vangeli. Fu decisivo intendere che il Signore trasforma il male in bene e non separa il male dal bene.
C'è una parola del Vangelo che ti ha segnato di più?
La regola d'oro che Gesù detta nel discorso della montagna: Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro" (Matteo 7,12). E' significativo che dopo tanti secoli di cristianesimo, nella cultura comune questa regola continui a essere citata secondo la formulazione in negativo che aveva nell' Antico Testamento: 'Non fare agli altri ciò che non vorresti sia fatto a te!'.
Rivista del Volontariato, novembre 1998 Racconti dal vero di Luciano Tavazza
Antonio Thellung è uno dei fondatori della Comunità del Mattino, un piccolo insieme di famiglie che da quasi vent'anni vivono sotto lo stesso tetto. Da quindici anni si occupa di assistenza a malati oncologici terminali.
Il racconto che egli ci fa di questa sua esperienza è semplicemente sconvolgente. Non solo per la testimonianza che ci dà di cose fatte, di interventi operati in condizioni spesso incredibili dal punto di vista umano, ma soprattutto per il tema della "normalità" che rientra nel lavoro suo personale e dei suoi collaboratori. Poco più di venti storie, ma tali da imprimersi nella mente di ciascuno di noi come l'avventura vissuta da uomini che, colpiti dalla malattia e in stadio terminale, trovano modo di trarre da essa capacità insospettate, di scoprire il senso della vita e della morte, di dialogare come non avevano mai dialogato prima di questo momento. Scrive Vera: "Certamente, senza questa malattia, nella nostra vita non si sarebbero sprigionate tutte quelle forze che hanno consentito ad entrambi, in qualche modo, di percorrere fino in fondo il nostro cammino" e conclude Grazia: "Se oggi mi sento forte, serena, tranquilla, è per tutto quello che mi ha insegnato la mia "Stella" perché con l'esempio della sua vita ho ricevuto da lei molto più di quanto sia riuscita a darle".
Scrive giustamente Accattoli nell'introduzione di questi racconti: "Ne viene fuori un "seminario verso l'infinito" come lo chiamano. Lo tengono due volte alla settimana. A esso partecipa anche Vera, la moglie di Francesco. Vanno avanti sei mesi, poco importa che l'uno abbia una previsione di vita più breve dell'altro. IL momento arriva per tutti. C'è anche l'audacia di portarsi all'altezza della propria morte in questo libro".
Per raggiungere questa altezza Thellung in prima persona ha vissuto le cose reali che racconta, insieme al gruppo dell'Associazione Raider Italia, nato a Roma quattordici anni fa per assistere a domicilio i malati terminali di cancro. Struttura che offre assistenza a tutto campo, dalle prestazioni medico-infermieristiche al sostegno psicologico, oltre a garantire l'apporto di volontari che danno il supporto necessario alle famiglie.
Dice Thellung, al termine del suo splendido volume: "Infine voglio ringraziare tutti gli ammalati che ho incontrato e conosciuto intimamente, con il loro coraggio, ma anche con le loro debolezze. Mi hanno impresso nel cuore un segno indelebile". Non si può fare questa lettura senza che il segno rimanga anche nel profondo del cuore del lettore.
Sì alla vita novembre 1998 E se provassimo a non lasciarli soli? di Marzia Pileri
Un'esperienza di volontariato, come tante forse, ma nello stesso tempo un po' particolare: scegliere di accompagnare nell'ultimo periodo della loro vita i malati terminali di cancro. Quelli che i medici giudicano inguaribili, senza speranza, senza alcuna possibilità di miglioramento, quelli che possono solo peggiorare fino alla morte.
A Roma da quattordici anni esiste l'associazione Ryder, fondata in Gran Bretagna, e successivamente diffusa in altri Paesi, che garantisce un'assistenza volontaria gratuita a tutto campo: prestazioni medico-infermieristiche, sostegno psicologico, assistenza domiciliare diurna e notturna quando occorre.
Improvvisamente nel grigiore quotidiano e senza speranza dei malati terminali e dei loro familiari appare una luce, un riferimento che ridà fiducia, un'opportunità di rileggere la sofferenza e viverla come un momento privilegiato della propria vita.
Questa la ricchezza, sofferta ma viva, presentata nel testo di Antonio Thellung "Accanto al malato… sino alla fine" stampato dalla casa editrice Ancora. Si tratta del racconto di esperienze e di testimonianze nelle quali, senza alcuna retorica, ma con un coinvolgimento positivo e affettuoso, vengono descritte differenti situazioni di malattia e morte: tumori che colpiscono bambini, adolescenti, anziani, mamme e papà con figli piccoli che assistono alla morte dei loro amati genitori, persone sole, persone con pesanti disaccordi familiari, adulti felici e vitali, tutti in modo inesorabile.
Potrebbe sembrare, da queste brevi parole, un libro deprimente, da non comprare per non pensare, ma in realtà si tratta di pagine piene di speranza e di amore, che aiutano a far riflettere sul senso della vita e su "sorella" morte, che ci accompagna in modo discreto all'appuntamento in cui si presenterà senza veli. Spesso i malati sono descritti come sereni e vivaci, desiderosi di rapporti umani, di tenerezza e di intimità, raramente come intolleranti o depressi. Nei casi in cui il senso di sconfitta prende il sopravvento, quando l'angoscia copre le altre sensazioni e sembra che la malattia non lasci più il tempo di fare niente, "Lorenzo", nome che rappresenta tutti i volontari di questa associazione, fa riflettere su quante volte si è sprecato il tempo e soprattutto su come ogni minuto è un'opportunità tutta da vivere.
Qualche malato arriva a parlare di suicidio, del diritto di scegliere il momento in cui morire, ma ancora una volta, mettendosi nei panni di quella persona, non c'è biasimo, né disistima, ma un invito alla riflessione, alla possibilità di affrontare costruttivamente le peggiori tragedie, vivendole semplicemente con dignità. In una di queste testimonianze il protagonista, dopo avere desiderato il suicidio, è arrivato ad affermare commuovendosi: «Certo che questa esperienza d'infinita tenerezza con mia moglie, se non fossi stato così male, non l'avrei mai sperimentata», cogliendo quindi il senso profondo del dolore.
"Lorenzo" riesce ad intuire e a far capire ai familiari ogni volta qual è il comportamento più opportuno da adottare in quella situazione. Ogni difficoltà viene affrontata direttamente, la stessa comunicazione di quanto tempo resta da vivere viene apertamente riferita, non c'è da nascondere niente a nessuno, la verità è limpida e diretta, al di sopra del "balletto delle menzogne" e del non detto che si instaura in questi casi. Gli effetti del resto sono di sollievo, si può piangere insieme, lasciare libero sfogo alla commozione senza bisogno di nasconderla né a se stessi né agli altri.
Le testimonianze forse più coinvolgenti sono quelle dei bimbi cui muore la mamma e quella di Francesco, un architetto con moglie e due figli piccoli, che decide di compiere una sorta di preparazione alla morte, un "seminario verso l'infinito" come lo hanno denominato, cui partecipa anche la moglie, «tanto, vicina o lontana che fosse in quel momento la morte, sarebbe prima o poi giunta inesorabile per entrambi.»
La seconda parte del libro presenta delle indicazioni concrete per restituire ai malati la loro preziosa dignità fino all'ultimo. Così ad esempio si esprime: «...il malato deve essere posto al centro dell'attenzione... stabilendo con lui rapporti di fiducia...e il miglior coadiuvante di qualsiasi terapia è la voglia di vivere, anche per il poco tempo che resta.... Occorre responsabilizzarlo, trattandolo da pari a pari, dimostrandogli che il suo comportamento continua a incidere profondamente sugli altri... che non è affatto diventato inutile, contrariamente a quanto si tende a credere.»
Il libro si conclude con le riflessioni dell'autore sul significato che queste esperienze hanno avuto su di lui e sulla sua famiglia, su come hanno assunto la forma "di una preghiera vissuta".
Attraverso il contatto continuo con la sofferenza, l'autore afferma che "ha imparato ad essere felice" comprendendo che "felicità e angoscia non sono in alternativa, ma possono convivere". Questo è sicuramente l'atteggiamento più valido e costruttivo sia verso la vita che verso la morte.
Avvenire, 25 novembre 1998 Storie di vita dai malati terrminali
Imparare che cos'è davvero la felicità vivendo accanto ai malati terminali. È la testimonianza personale offerta in questo libro da Antonio Thellung, tra i fondatori della Comunità del Mattino, da quindici anni impegnato in questa delicata forma di assistenza. Scorrendo le pagine ci si imbatte in una galleria di cammini verso «la soglia». «Non faccio né cronaca, né storia - scrive Thellung - racconto quanto ho personalmente visto, conosciuto, percepito in queste situazioni». Una lezione di vita che sa fare i conti con 1'angoscia.
Noi genitori e figli
Del 29 novembre 1998
Accanto al nalato… sino alla fine di Antonio Thellung riferisce i toccanti rapporti che giorno per giorno si sono instaurati tra i malati – oggi tutti defunti – e gli assistenti domiciliari dell'Associazione Ryder. Ogni storia è diversa, ciò che è sempre lo stesso è l'atteggiamento umile di tutti i volontari, indistintamente, i quali infatti confluiscono tutti in un solo assistente «simbolico ma nient'affatto inventato», Lorenzo, protagonista di ogni vicenda. Lorenzo non è un medico, non combatte la malattia (peraltro già vittoriosa nei casi terminali); è la persona, uomo o donna che sia – che con la sua sola presenza vince la solitudine di chi deve morire e dei suoi familiari. Sembra impossibile che chi soffre con tanta intensità possa ancora provare piccole gioie, avere desideri, concepire un futuro seppure a breve scadenza. Eppure è così, basta saperlo ascoltare. È quello che Lorenzo fa. E mano a mano che ci introduce nelle varie case, ci sembra di conoscerli anche noi quei malati, con le loro piaghe, i loro malesseri così crudamente descritti, ma anche le loro confidenze. Immancabilmente ci lasciano, e tutte le volte ci dispiace: anche noi, come Lorenzo, ci eravamo un po' abituati a loro.
Notiziario Ryder Italia del dicembre 1988 UN LIBRO, UNA STORIA... QUELLA DELLA RYDER ITALIA di Giovanni Creton
Questo numero del nostro giornale è dedicato in gran parte al volontariato e quindi non poteva mancare la recensione di un libro sull'esperienza diretta di un nostro volontario, Antonio Thellung ha scritto un bel libro sulla sua esperienza come volontario della Ryder Italia. E' scritto con l'ottica di una persona comune che è impegnata da anni nell'assistenza diretta al malato terminale ed ai suoi familiari. A mio parere la cosa più bella del libro è la scoperta da parte di Antonio che il problema del morire è un aspetto essenziale della nostra cultura e della nostra psiche ed il poterne apertamente parlare fa bene al malato, ai familiari e a noi stessi. La lettura dei vari casi è una esperienza emotivamente molto coinvolgente e rappresenta una testimonianza diretta di quello che significa essere un volontario direttamente impegnato nell'assistenza ai malati gravi.
La Pagina, giovedì 21 gennaio 1999 Felice accanto a chi sta morendo di Alberto Burzio
La morte è il momento più difficile della nostra vita. Partendo da questa considerazione, vorrei suggerire la lettura di un libro prezioso, appena uscito. Il volume è scritto da Antonio Thellung, 67 anni (felicemente sposato da 45, con tre figlie già nonno di sette nipoti) uno dei fondatori della "Comunità del mattino" di Roma (un piccolo insieme di famiglie che da quasi vent'anni vivono sotto lo stesso tetto). Da 15 anni, Thellung si occupa dell'assistenza a malati di cancro terminali. Il libro, nella prima parte (e in forma, a volte, anche molto cruda), riporta numerose testimonianze vissute accanto a malati che stanno per andarsene dal Creatore.
Thellung racconta di «aver imparato ad essere felice» assistendo i malati terminali, "la sua avventura - scrive Luigi Accattoli n'ella prefazione del "libro - è pienamente umana perché egli ci racconta di aver imparato in essa la felicità, ma sopratutto dice di aver capito che "felicità ed angoscia non sono in alternativa, ma possono convivere"... Egli dice più di una volta che il suo volontariato accanto a chi soffre lo aiuta a "coltivare felicità". Ma si tratta di "una felicità paradossalmente intrecciata a sofferenza ed angoscia": Non è così la vita?».
Nel libro ci sono anche tanti bambini. Che con Lorenzo (il protagonista del libro, che rappresenta il volontario presente ai singoli fatti indipendentemente dal suo vero nome, testimone concreto di avvenimenti accaduti nella realtà) si affacciano sulla porta dei malati, vanno con Lorenzo a comperare i fiori per la mamma, qualche volta decidono di andare con lui a vederla composta nella bara.
Diverse le "perle" contenute nel volume. Nella premessa, Thellung ci ricorda che «per coinvolgerci nell'assistenza ai malati terminali, non è affatto necessario essere eroi, missionari, "marziani": basta semplicemente un pizzico di disponibilità, e il resto maturerà nel tempo, a poco a poco. L'importante è farsi aiutare, non essere individualisti, lavorare assieme ad altri. La mia grande fortuna è stata quella di incontrare un' équipe di medici ed infermieri che, oltre alla serietà professionale, hanno capito l'importanza di educarsi alla sensibilità dei rapporti umani, cosa che dovrebbe essere di tutti». E più avanti: "Ho capito che l'assistenza ai malati è qualcosa che non si fa solo per gli altri, ma anche perse stessi, per scoprire, ed approfondire il senso della vita, per lasciarsi aiutare da coloro che hanno bisogno di aiuto. Non è un mestiere o un'attività, ma l'occasione di sperimentare ogni volta qualcosa di nuovo. Ed è inutile chiedersi che cosa: nessuno può dirlo, se non facendone concreta esprienza».
«La disponibilità verso gli altri dovrebbe essere un atteggiamento normale - ci ricorda Thellung - non è necessario essere santi, o perfetti, o tipi in gamba, o particolarmente abili. Anche un mediocre può, chiunque può fare qualcosa, a patto di volerlo fare, a patto di farlo. O, per dirlo con una metafora, basta prestare i vestiti agli angeli: loro sapranno come utilizzarli».
Molto toccanti le testimonianze di diversi volontari, raccolte nella seconda parte del volume. Tra tutte, riportiamo le parole di Marlene: «Ogni giornata è una sfida, ogni paziente che vedo mi porta a riflettere su quanto debba essere terribile sapere che la propria vita sta finendo, ed è questo che mi incoraggia a lavorare ed impegnarmi come posso, utilizzando le cose più semplici. Talvolta basta una parola, o l'ascolto silenzioso, o perfino il palmo di una mano sul braccio, perché non esistono tecniche scientifiche per dare conforto morale».
Famiglia Cristiana del 31 gennaio1999 QUANDO LA VITA FINISCE C'È QUALCUNO CON TE di Sandro Spinsanti
li titolo stende un velo su una realtà che non si vuole più nominare, ma un velo così leggero che non nasconde niente. Perché è chiaro che stare accanto a un malato "sino alla fine" significa accompagnarlo fin sulla soglia della morte. L'autore non è un professionista della sanità, ma ha seguito tante persone nella fase terminale della lotta contro la malattia. Confessa di aver dovuto superare una soglia: «Un tempo anch'io, come molti, pensavo che ciascuno deve fare il suo mestiere, e dato che occuparsi dei malati non era la mia scelta professionale, concludevo che era assai meglio affidarli agli specialisti».
Poi le vicende della vita lo hanno messo nella necessità di assistere un fratello, colpito da un tumore cerebrale. Ha imparato che coinvolgersi con una persona, rimanendo al suo fianco durante l'ultimo tratto del viaggio terreno, non è solo uno sforzo immane, ma una straordinaria opportunità di crescita spirituale. Da allora Thellung ha assistito decine di persone nell'ultima fase della vita, collaborando con l'associazione romana di volontariato Ryder Italia. In questo libro racconta quello che ha dato e quanto, in misura maggiore, ha ricevuto. Non vuol fare proseliti. Ma il suo entusiasmo è contagioso: è difficile sottrarsi al fascino di una fraternità vissuta, che permette di chiamare "sorella" anche la morte.
Un libro importante, che dovrebbe essere letto da tutti, e potrebbe aiutare molte persone, soprattutto quelle che alla morte non pensano mai.
L'esperienza della Rete di Indra e la presa di rifugio di Roberto Mander
testo del seminario tenuto all'Ameco il 20 marzo 1999
Ma direi che il dono maggiore è dato dal senso di fiducia che si può trasmettere anche agli altri in ... – e qui è difficile trovare le parole adatte – un orizzonte più vasto. Mi ha molto colpito una frase di Antonio Thellung che ho ascoltato recentemente in un dibattito. Antonio Thellung da molti anni si occupa di assistenza ai malati terminali e, raccontando delle sue numerose esperienze di accompagnamento di persone giunte alla fase finale della vita, a un certo punto ha detto: "Prestiamo più spesso i nostri abiti agli angeli...". Intendendo dire che attraverso di noi a volte succedono delle cose più grandi di quanto ci potremmo mai aspettare. A me è sembrata una splendida immagine per parlare di non io, di vera umiltà, di apertura di cuore...
RAFAEL notizie Gennaio aprile 1999 di Alberto Burzio
Felice accanto a chi sta morendo
La morte è il momento più difficile della nostra vita. Partendoda questa considerazione, vorrei suggerire la lettura di un libro prezioso, appena uscito. Il volume è scritto da Antonio Thellung (67 anni, felicemente sposato da 45, con tre figli e già nonno di 7nipoti), uno dei fondatori della “Comunità del Mattino” di Roma (un piccolo insieme di famiglie che da quasi vent’anni vivono sotto lo stesso tetto). Da 15 anni, Thellung si occupa dell’assistenza ai malati di cancro nella fase ultima della vita. Il libro, nella prima parte (e in forme, a volte, anche molto crude), riporta numerose testimonianze vissute accanto ai malati che stanno per morire. Thellung racconta di “aver imparato ad essere felice” assistendo questi malati, “la sua avventura - scrive Luigi Accatoli nella prefazione del libro – è pienamente umana perché egli ci racconta in essa la felicità, ma soprattutto dice di aver capito che “felicità ed angoscia non sono in alternativa, ma possono convivere”… Egli dice più di una volta che il suo volontariato accanto a chi soffre lo aiuta a “coltivare la felicità”. Ma si tratta di “una felicità paradossalmente intrecciata a sofferenza e angoscia”. Non è così la vita?” Nel libro ci sono anche tanti bambini, che con Lorenzo(il protagonista del libro, che rappresenta il volontario presente ai singoli fatti indipendentemente dal suo vero nome, testimone concreto di avvenimenti accaduti nella realtà) si affacciano sulla porta dei malati, vannocon Lorenzoa comprare i fiori per la mamma, qualche volta decidono di andare con lui a vederla composta nella bara…
Diverse le “perle” contenute nel volume. Nella premessa, Thellung ci ricorda che “per coinvolgerci nell’assistenza ai malati in fase avanzata non è affatto necessario essere eroi, missionari, “marziani”:basta semplicemente un pizzico di disponibilità, e il resto maturerà nel tempo, poco a poco. L’importante è farsi aiutare, non essere individualisti, lavorare assieme ad altri. La mia grande fortuna è stata quella d’incontrare un’équipe di medici e infermieri che, oltre alla serietà professionale, hanno capito l’importanza di educarsi alla sensibilità dei rapporti umani, cosa che dovrebbe essere di tutti”. E più avanti: “Ho capito che l’assistenza ai malati è qualcosa che non si fa solo per gli altri, ma anche per se stessi, per scoprire ed approfondire il senso della vita, per lasciarsi aiutare da coloro che hanno bisogno di aiuto. Non è un mestiere o un’attività, ma l’occasione di sperimentare ogni giorno qualcosa di nuovo. Ed è inutile chiedersi che cosa: nessuno può dirlo, se non facendone concreta esperienza”.
“La disponibilità verso gli altri dovrebbe essere un atteggiamento normale ci ricorda Thellung - Non è necessari essere santi, o perfetti, o tipi in gamba, o particolarmente abili. Anche un mediocre può, chiunque può fare qualcosa, a patto di volerlo fare, a patto di farlo. O, per dirlo con una metafora, basta prestare i vestiti agli angeli, loro sapranno come utilizzarli”.
Molto toccanti le testimonianze di diversi volontari, raccolte nella seconda parte del volume. Tra tutte, riportiamo le parole di Marlene: “ogni giornata è una sfida, ogni paziente che vedo mi porta a riflettere su quanto debba essere terribile sapere che la propria vita sta finendo, ed è questo che mi incoraggia a lavorare ed impegnarmi come posso, utilizzando le cose più semplici. Talvolta basta una parola, o l’ascolto silenzioso, o perfino il palmo di una mano sul braccio, perché non esistono tecniche scientifiche per dare conforto morale”.
Un libro importante, che dovrebbe essere letto da tutti e potrebbe aiutare molte persone, soprattutto quelle che alla morte non pensano mai.
Lettera della fraternità anawim del 15 marzo 2006 LA SOFFERENZA di Luciana Silvetti
Ho appena terminato di leggere il libro "Accanto al malato sino allafine" (Ancora editrice, 1998). L'autore, Antonio Thellung, cita una serie di esperienze e testimonianze accumulate nel corso di un' assistenza a domicilio di malati terminali. Nonostante la tristezza dei temi trattati, il libro è in definitiva un inno alla gioia. Le diverse storie in esso narrate mi hanno insegnato che gioia e dolore non sono in antitesi, ma direi quasi che si inseguono e si amalgamano.
Terminata questa lettura, mi è venuto spontaneo fare una serie di considerazioni sulla sofferenza.
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