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L'Accademia del buon litigio
Oggi, insieme alla mia sposa, compiamo cinquantacinque anni. Ma non d'età, di matrimonio. Mi sembra stranissimo, anzi, incredibile. Anni e anni insieme che risuonano nel tempo: ne abbiamo viste e vissute di tutti i colori, e lo spettacolo continua. Proporre l'elogio del matrimonio in quest'epoca di sempre più abbondanti fallimenti coniugali può sembrare provocatorio, ma come potrei farne a meno? Personalmente mi ci trovo benissimo, inondato come sono da benefici che non si possono immaginare, se non facendone esperienza diretta. Con mia moglie siamo così diversi che è stato necessario un lungo cammino non privo di conflitti, per trovare armonia. Ma poi ci siamo riusciti, e da tempo stiamo bene insieme, con un senso di complicità che inserisce nelle nostre frizzanti giornate una continua alternanza di commozione e divertimento. Quella fiducia che due sposi decidono di concedersi l'un l'altro fin dall'inizio, e che in realtà è soltanto un auspicio da sottoporre a severe verifiche negli anni, per noi si è ormai trasformata in una tranquilla serenità che avviluppa lo stato d'animo, anche quando le preoccupazioni ci assalgono. È il tempo dedicato al confronto, al contrasto, al coinvolgimento reciproco, all'immersione in un meraviglioso spirito di complicità, che ci ha schiuso le porte dell'intimità più profonda, trasformandoci dall'io e te al noi due assieme. Come il vino buono migliora invecchiando, noi possiamo dire altrettanto per il matrimonio. L'amore è bello a tutte le età, e noi ricordiamo bene il nostro, cresciuto attraverso varie stagioni: genitori, nonni, e da qualche tempo perfino bisnonni. E chissà domani! Come esempio, mi viene in mente il formaggio, con le sue incomparabili differenze di sapore fra quello fresco e quello stagionato. Non avrebbe senso dire che l'uno è migliore dell'altro, perché sono semplicemente sapori diversi. Solo che il formaggio fresco lo si può gustare da subito, appena fatto, mentre è impossibile conoscere il sapore del parmigiano se non si attende con pazienza che trascorra tutto il tempo necessario alla stagionatura. Chi non lo ha mai gustato non ne sente la mancanza, mentre chi lo conosce può soltanto dire: provare per credere. Quando, durante incontri o conferenze, descrivo il matrimonio come autentica grazia di Dio, mi accorgo di suscitare perplessità. Non pochi pensano si tratti di esagerazioni, e non mi meraviglio, perché stenterei io stesso a crederci, se non ne vivessi quotidianamente la conferma. Con mia moglie, che non è di temperamento acquiescente, di conflitti ne abbiamo avuti a iosa nei nostri cinquantacinque anni di felice matrimonio, e tuttora non ne siamo immuni. Anche per noi c'è stato il rischio di sfasciare il rapporto coniugale, e per diversi anni abbiamo alternato periodi coinvolgenti a momenti di tensione, sfociati talvolta in accanite discussioni per intere notti. Ma poi c'è stata una svolta decisiva, e il rischio di sfasciare tutto lo abbiamo cacciato via per sempre. Non è che abbiamo smesso di accapigliarci, ma molto più semplicemente abbiamo imparato a litigare tenendoci per mano, e tutto è cambiato. Prima litigavamo in modo folle e diabolico, esasperando i disaccordi fino a porci l'un contro l'altra armati in una serie di duelli a singolar tenzone, e come accade in tutti i duelli cercavamo istintivamente di colpire l'avversario per riuscire, in qualche modo, a prevalere. Del resto, nei rapporti umani, sembra sia questa la regola che viene abitualmente applicata, dalle piccole discussioni domestiche fino alle più micidiali guerre. C'è un luogo comune da sfatare: discussioni e litigi vengono sovente guardati con riprovazione, quasi fossero qualcosa di negativo da evitare o nascondere, mentre sono aspetti fisiologici della natura umana che affrontati costruttivamente aiutano a crescere e maturare verso un mondo migliore. Quel che è patologico, invece, è litigare male, in modo miope e distruttivo. Nelle discussioni infatti, per la voglia di vincere, anziché restare sull'argomento specifico del disaccordo si finisce facilmente per trarre in ballo altre cose che non centrano a nulla, ma che consentono di colpire l'avversario, inconsciamente identificato, nel momento del conflitto, come nemico da abbattere o da cui difendersi con ogni mezzo, fino a utilizzare meschini rancori e squallide rivalse, magari conservate accuratamente in naftalina. Col risultato di non chiarire affatto il disaccordo specifico, ma di mettere in discussione l'intero rapporto interpersonale, come se una divergenza su qualche dettaglio significasse divergenza su tutto. Ecco l'aspetto patologico. Litigare tenendosi per mano significa invece sottolineare a priori che non è in discussione il rapporto, nel quale (salvo rarissime eccezioni) vi sono sempre elementi di coesione che meritano di venire salvaguardati e rinforzati, senza tuttavia rinunciare a chiarire fino in fondo che su dati argomenti particolari le divergenze restano, e sarebbe ipocrita negarselo. Ma per ottenere risultati positivi ogni disaccordo deve restare ben circoscritto nei suoi contenuti specifici, ed esaminato in se stesso. Niente acquiescenze, niente silenzi pro bono pacis che di solito ottengono il solo risultato di accantonare il problema, col risultato di vederlo poi rispuntare ingigantito. Purché resti chiaro, senza ombra di equivoco, che il rapporto non viene messo in discussione, che si può camminare insieme costruttivamente anche con opinioni diverse. Con mia moglie possiamo ormai dirci grandi esperti in proposito, e sovente i nostri disaccordi sono occasione per prenderci in giro. E ce ne facciamo di risate, talvolta come due ragazzini. Ho raccontato tutto questo per dire che non si tratta di teoria, ma di esperienza appresa sul campo attraverso gli anni. Oggi che il problema dell'educazione si fa sempre più inquietante appare d'importanza capitale proporre riflessioni a tutto campo sugli elementi di principio ai quali ispirarsi. Proporre, come modello, di eliminare i conflitti sarebbe utopia, mentre è assai più costruttivo educarsi a gestirli in modo positivo, a considerare e utilizzare i dissensi non come nemici, ma come grandi amici impegnati a farci riflettere, a farci uscire da certi luoghi comuni cristallizzati. Per questo l'obiettivo primario degli educatori dovrebbe essere quello d'insegnare a litigare bene. La prima cosa da capire è che la peggior nemica è la suscettibilità, perché impedisce di valutare serenamente le obiezioni e spinge a divagare fuori tema, alla ricerca di ogni genere di cartucce da sparare contro l'interlocutore contrapposto. Tra l'altro, sovente, la suscettibilità resta incapsulata all'interno del proprio ego, e fa soffrire chi se ne lascia avviluppare senza che gli altri neppure se ne accorgano. Tenerlo ben presente è il primo passo verso un'educazione capace di rendere padroni di se stessi. Si può imparare, si può imparare. Alla mia età è difficile fare progetti per il futuro, e tuttavia da qualche tempo accarezzo il sogno che qualcuno si decida a fondare l'Accademia del buon litigio: credo ce ne sarebbe davvero bisogno.
pubblicato da Koinonia, agosto 2008
Mano nella mano nella stessa direzione
In questo nostro tempo caratterizzato da ogni genere di dubbio, una certezza c'è: la crisi della famiglia. Non di tutte le famiglie, ma il numero di quelle in crisi è talmente alto (si calcola che solo in Italia ve ne siano due milioni e quattrocentomila) da poter essere generalizzato e assunto come tendenza di fondo. Per istinto siamo portati a ritenerlo un male, ma restano taluni interrogativi. Personalmente considero ogni crisi sempre foriera di elementi positivi, e in ogni caso, per un cristiano, la risposta non può essere scontata. Leggendo il vangelo, si potrebbe pensare che i conflitti familiari siano, per Gesù, irrinunciabili: «Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; non sono venuto a portare pace, ma una spada. Sono venuto infatti a separare il figlio dal padre, la figlia dalla madre, la nuora dalla suocera: e i nemici dell'uomo saranno quelli della sua casa» (Mt 10, 34-36). La famiglia "naturale" sembra non avere grande importanza. Infatti, nel Vangelo, la famiglia non è un bene assoluto: per esprimere valori positivi dev'essere orientata alla costruzione del Regno, cioè di un ambiente fatto d'amore e segni di vita che agisce per il bene di tutti, e non solo del proprio clan. Ad esempio, la famiglia mafiosa che su certi versanti si mostra molto unita e compatta, lavora per costruire e consolidare i propri interessi a spese di altri. Un tipo di famiglia nient'affatto da proteggere e da salvare. A chi lo informava che i suo familiari lo stavano cercando, Gesù rispose: «Mia madre e miei fratelli sono coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica». Nulla vieta d'instaurare e coltivare atteggiamenti di questo tipo anche nell'ambito della propria famiglia naturale, ma solo quando ciò si realizza concretamente, solo quando il messaggio di Gesù viene messo in pratica nei gesti e nei comportamenti quotidiani, allora nasce una vera famiglia nel suo significato profondo. La famiglia non è una realtà statica o un fine entro il quale racchiudersi: è invece un mezzo, un metodo per camminare sulla via della vita. Così come il cristianesimo, che non è un fine ma un metodo per costruire il Regno di Dio, per realizzare un ambiente umano fatto d'accoglienza e di perdono. Per Gesù, la famiglia può essere motivo di scandalo. Ben venga la crisi attuale, dunque? Parafrasando una sua frase per applicarla al tema, si potrebbe dire: «Chi vorrà salvare la propria famiglia la perderà; ma chi perderà la propria famiglia per causa mia e del vangelo, la salverà» (Mc 8,35). Al di là di qualsiasi proiezione futura, si tratta di salvarsi dai limiti e dalle contraddizioni della nostra cultura e della nostra società, che pare privilegiare i conflitti sull'armonia e la pace.
Determinante è il tronco
Non è facile saper perdere la famiglia, intesa come clan, per costruire un ambiente ricco di humus dove i rapporti di vita (di tutti i generi) possano nascere, crescere, fruttificare, venire coltivati, fino a intrecciare i propri rami con altre famiglie. Per riuscirci è necessario partire dall'inizio, perché la famiglia è come un albero: rami, foglie, gemme, fiori, frutti formano un intreccio complesso che si esprime in varie maniere. Ma il punto chiave, l'elemento determinante per l'intero equilibrio, è il tronco, capace di trasmettere sana e duratura vitalità se riposa su solide radici e si spinge verso l'alto con ferma determinazione. Il tronco (dell'albero famiglia) è il rapporto coniugale, ed è soprattutto il rapporto coniugale a essere in crisi. Una crisi che viene da lontano, presente anche un tempo nei matrimoni sotto forme nascoste dietro la facciata, ma che oggi si fa sempre più esplicita per il crollo di certi formalismi, oltre che di valori e tradizioni. Un crollo per molti versi benefico, perché fa piazza pulita di tanti luoghi comuni che sono soltanto disvalori, ma che indubbiamente crea smarrimento e insicurezza. È necessario riscoprire il senso profondo del matrimonio, che non si basa sul sì di un momento ma su ben altro. C'è una bellissima pubblicità radiofonica nella quale si sentono i due sposi davanti all'altare mentre il celebrante pronuncia la formula di rito. La sposa dice sottovoce allo sposo che ha mal di stomaco, e lo sposo le risponde di avere in tasca il digestivo Antonetto. Poi le chiede: lo vuoi? E lei dice di sì proprio nel momento in cui la formula è giunta al termine. Come risultato, su quel sì il prete pronuncia la frase conclusiva: "vi dichiaro marito e moglie". Sarebbe interessante chiedersi quanti dei "sì" pronunciati nelle cerimonie matrimoniali siano rivolti a digestivi o altro di qualsiasi tipo. Un tempo il matrimonio era sovente visto e trattato come un contratto, che nel caso di famiglie benestanti si stipulava davanti a un notaio prima di presentarsi in chiesa. Ma il matrimonio non è un contratto. Oggi, al contrario, viene sempre più affrontato come un esperimento. Come dire: proviamo, poi se qualcosa non funzionerà "lasceremo perdere". Ma in questo modo il fallimento è certo, perché c'è sempre qualcosa che "non va". C'è sempre qualcosa che per funzionare ha bisogno di tanta pazienza ed estrema determinazione. Qualcosa che ha bisogno di essere faticosamente corretto e migliorato per creare armonia e pace in famiglia, e in quanti le convivono attorno. Ma se di fronte alle difficoltà è già prevista l'ipotesi di "lasciar perdere", allora la fuga dalla realtà prevarrà sempre sulla voglia di affrontare fatiche e sofferenze. Il sì del momento conta poco, se non viene ripetuto ogni giorno, se non diventa un sì permanente. Il matrimonio, nella sua realtà più intima e profonda, non è né un contratto né un esperimento, ma scelta di una persona per andare insieme non si sa dove, per fare insieme non si sa che cosa, per affrontare insieme il futuro comunque sia. Il punto chiave è camminare insieme, mano nella mano, fino a trasformarsi in una realtà nuova nella quale non contano più tu e io, ma quel "noi" che si fa nuova realtà. Un noi nient'affatto svalutativo delle qualità personali, ma al contrario capace di svilupparle oltre i confini naturali. Nell'antica lingua greca, oltre al singolare e al plurale esisteva anche il duale, che esprimeva appunto un rapporto a due che è diverso sia dalla somma di due unità che dalla pluralità. Riscoprire il "duale" come unità di coppia sarebbe un modo efficace per riscoprire il valore del matrimonio. Mentre gli accordi contrattuali subiscono mutazioni nel tempo, e gli esperimenti possono esaurire la loro spinta, la scelta di una persona per camminare insieme non ha ragioni di mutare, salvo che non si voglia dichiarare fallimento. Pochi matrimoni iniziano con questa consapevolezza, ma quando il rapporto coniugale "funziona", molti diventano capaci di maturarla nel tempo, magari inconsciamente. Ma è fondamentale che siano gli sposi a rendersene conto: un tempo norme e divieti potevano svolgere anche funzioni positive, ma oggi un cristianesimo coercitivo non ha più spazio, e la speranza è quanto mai legata alla presa di coscienza.
Accoglienza e perdono
Accoglienza e perdono sono gli elementi necessari per un cammino coniugale capace di farsi tronco. Accoglienza è riconoscere l'altro così com'è, ma non per cristallizzarsi nei propri difetti. Al contrario è il punto di partenza per trasformarsi insieme. Perché il matrimonio è un rapporto esigente, e non un'opera di carità. È un rapporto alla pari nel quale si fa necessario esigere dal coniuge atteggiamenti costruttivi. Ma senza scadere nelle pretese. Il perdono ha caratteristiche particolari, sovente non comprese a fondo. Non è un atteggiamento da assumersi dopo essere stati offesi, ma uno stato d'animo permanente sul quale rimbalzano le offese: una predisposizione che offre a priori possibilità di riscatto a qualsiasi deviazione. Non si tratta di svalutare e dimenticare il passato: il perdono è un atto di coraggio, è la voglia di uscire dalla mentalità ristretta per pensare in grande, è smascherare i falsi interessi che pongono l'uno contro l'altro, per capire e affermare che c'è un solo unico interesse: quello di entrambi e di tutta la famiglia. Non è possibile essere felici, se l'altro non lo è: impegnarsi per la felicità del coniuge è promuovere la propria. Nella vita coniugale non si può mai vincere l'uno contro l'altro, perché sarebbe sconfitta di entrambi. Si può solo vincere insieme: convincersi. Chi lo capisce per primo comincia a mettere in pratica il suo nuovo stato d'animo e dice al coniuge: se non lo hai ancora capito te lo farò capire col mio comportamento. E sono anche disposto a perdere quante volte vorrai, ma non mi lascerò più condizionare dalle tue contrapposizioni. È la via maestra per ritrovarsi insieme, mano nella mano, a guardare nella stessa direzione. Discutendo, scontrandosi, litigando anche, se necessario, ma sempre tenendosi per mano. Non perdonarsi invece è distruggersi l'un l'altro: basta pensare all'assurdità delle faide che pongono al primo posto la vendetta. Perdono è far prevalere il positivo sul negativo, e i frutti sono pace e serenità. Ma non tutti ci riescono, ed è inutile parlare di colpe: sta di fatto che i matrimoni "sfasciati" sono in continuo aumento. I coniugi separati, scottati dal fallimento trascorso, hanno sempre bisogno di aiuto, e talvolta lo trovano in persone che hanno vissuto esperienze analoghe. Maturati da sofferenza e sconfitta, molti diventano capaci di costruire nuovi rapporti con quella pazienza e tolleranza rifiutata un tempo. Ma le nuove coppie, che a volte diventano nuove famiglie, sono costrette a fare i conti con residui negativi. E il loro bisogno di aiuto si fa più acuto. La Chiesa, che è nata per accogliere i più bisognosi, dovrebbe accogliere senza riserve le coppie che tentano di ricostruire una vita d'amore per sé e per i propri figli. Compito della Chiesa è istruire e spiegare il senso dei sacramenti, perciò, anziché stabilire dall'alto a chi concedere o vietare l'eucarestia, magari imponendo purificazioni che rischiano di creare altri danni, dovrebbe accogliere e basta, come faceva Gesù che non ha mai chiesto purificazioni preventive a chi voleva incontrarsi con lui. Infatti è solo dopo averlo incontrato, dopo essersi lasciati aprire gli occhi da lui, che nasce prepotente la voglia di purificarsi dal vecchiume, per orientarsi verso una vita nuova. E allora il passato non conterà più nulla.
Guardare alla sostanza
Oggi, nei corsi prematrimoniali, moltissime coppie confessano di essere conviventi, e i parroci di buon senso le accolgono senza moralismi. È ora di guardare alla sostanza, e tutta la pastorale coniugale dovrebbe essere ripensata. Ad esempio, la problematica sugli anticoncezionali che nel passato era stata fonte di tante difficoltà, oggi è meno avvertita, perché una percentuale altissima di coniugi decide ormai secondo la propria coscienza considerando superate le norme tradizionali. Del resto le nuove nascite sono tendenzialmente in calo, e se un tempo l'ipotesi di avere figli oltre quelli programmati appariva uno dei principali problemi, oggi la tendenza sembra invertirsi, perché sono in deciso aumento le famiglie che non riescono ad avere figli. Così sorgono nuove forme di ossessione, come quella di volerne generare a tutti i costi anche attraverso fecondazioni assistite, perfino di tipo eterologo. Per sperare in un ricupero del rapporto coniugale è necessario abbandonare ogni pregiudizio verso la sessualità, continuamente mortificata nei tempi passati. Sarebbe ora d'insegnare a costruire una soddisfacente sessualità all'interno del matrimonio, suo luogo naturale. Ci sono documenti magisteriali (anche recenti) che mostrato diffidenza verso il desiderio fra i coniugi, talvolta confondendolo con la concupiscenza. Eppure la causa maggiore d'incrinamento dei rapporti coniugali è proprio il calo di desiderio. L'unica speranza, per un'inversione di tendenza, è rendere soddisfacente il proprio rapporto in modo da non sentirsi spinti a cercare compensazioni altrove. Dopo oltre cinquant'anni di felice vita coniugale, questo mi sembra dovrebbe essere il compito d'una rinnovata pastorale familiare cristiana.
Pubblicato da Presbyteri 2 febbraio 2005
Il nostro passato comune
Ricordo, da bambino, di essere stato alla festa per le nozze d'oro di nostri lontani parenti: mi sembravano d'una vecchiezza impressionate, come personaggi al di fuori del mondo reale. Ora, fra pochi mesi, insieme a Giulia (mia moglie) compiremo anche noi cinquant'anni di matrimonio, eppure non ci sentiamo così decrepiti. Intendiamoci, i segni del tempo si vedono tutti, ma il nostro amore continua a rifiorire, come il vino buono che invecchiando migliora. Il fatto è che da qualche tempo abbiamo superato ogni desiderio di possesso reciproco, e i frutti si vedono e si sentono. Credo che in qualche modo ogni itinerario coniugale debba fare i conti con tendenze possessive, che diventano senz'altro distruttive, se non si giunge a lavorare insieme per coltivare invece la disponibilità. Non c'è solo la gelosia, soprattutto quando assume aspetti patologici, a derivare da simili intenzioni, perché sovente gli atteggiamenti possessivi assumono altre forme, più subdole e meno facilmente identificabili. A parte le esplicite volontà di possesso, che alcuni considerano positive (ovviamente per se stessi), la naturale insicurezza umana, insieme all'istintiva ricerca di affermare una propria identità, sono elementi che sovente spingono, più o meno consciamente, a volersi impossessare degli altri, e tanto più quanto più i rapporti sono stretti e intimi. In particolare si alimentano e crescono, oppure maturano e si trasformano, nell'ambito del rapporto coniugale, dove l'impatto con atteggiamenti speculari costringe prima o poi a fare i conti anche con se stessi. Si potrebbe dire che l'andamento standard di un rapporto di coppia è fatto di momenti piacevoli e di scontri quotidiani, anche se sovente piccolissimi. Di solito, la reazione più comune alle divergenze è la pretesa che sia l'altro a cambiare: se tu fossi o facessi così e così, allora io.... È sempre l'altro a doversi muovere per primo. Nel corso degli anni, con Giulia abbiamo avuto abbondanti momenti piacevoli, ma ci siamo anche tanto contrastati! Dobbiamo ammettere che talvolta anche il nostro matrimonio ha corso il rischio d'imboccare strade sconnesse e divergenti. Poi finalmente la Grazia ci ha sfiorato e ci siamo incontrati: abbiamo smesso di pretendere che sia il coniuge a dover cambiare, per deciderci a cambiare insieme. O per dir meglio, siamo passati dalla voglia di convertire l'altro alla semplice e banale idea di cominciare dalla propria conversione. La nostra fortuna, o se si preferisce il grande dono ricevuto dallo Spirito santo, è di aver intuito contemporaneamente i benefici che ne potevamo trarre. Come risultato, eccoci ancora innamorati, ma in modo assai più divertente d'un tempo. Ora ci sembra incredibile che sia così difficile capire quel che, una volta capito, appare addirittura ovvio. E cioè che l'autentico interesse di un coniuge non può mai essere in contrasto con quello dell'altro. Chi aspira a un rapporto sereno, ricco di armonia e di affetto condiviso, non dovrebbe faticare a capire che tale realizzazione è possibile solo se il coniuge ha un desiderio analogo. Ma se è così, come ignorare che l'interesse primario sarà la preoccupazione di facilitarsi l'un l'altro il compito, di spianarsi reciprocamente la strada in modo da incontrarsi su un cammino comune? Più ancora che altruismo, occuparsi dell'altro, riscoprire quotidianamente la persona amata, è conveniente per sé. Bisogna farsi parte attiva, aprire la strada alla comunicazione, preoccuparsi di conoscere bene gli stati d'animo del coniuge, non attendere quegli accumuli che fanno esplodere rivalse, innestano comunicazioni aggressive, finiscono per fare ingigantire conflitti iniziati da piccoli e secondari problemi. Bisogna smetterla di fuggire le difficoltà nell'illusione di un pro bono pacis che maschera il problema creando altri accumuli. Comunicare è tutt'altro che facile, per riuscirci efficacemente bisogna imparare a "farsi dire", un'arte difficilissima, che si basa sull'offerta della propria disponibilità prima di pretendere qualcosa dall'altro. Con Giulia, il nostro rapporto ha fatto il decisivo salto di qualità quando abbiamo imparato a chiederci frequentemente: hai qualche cosa da dirmi? Oppure: posso fare qualcosa per te? E ci siamo rapidamente accorti che l'offerta di coinvolgersi dove ci sono differenze e contrasti è già l'inizio d'una qualche soluzione. A quel punto diventa chiaro che non si può vincere uno contro l'altro, ma si può soltanto vincere insieme. La parola convincere, che talvolta viene intesa come forzatura (mi vuoi convincere per forza?), ha invece un significato altamente costruttivo. Con–vincersi, vincere insieme, trovare insieme qualche soluzione, è l'unica possibilità di risolvere i problemi una volta per tutte. E dopo aver trovato questa complicità, questo coinvolgimento, questo fronte comune contro le pretese di chiunque dei due, sconfiggerle diventa facilissimo, perché si sente aumentare la gratitudine reciproca per lo straordinario dono di facilitarsi l'amore. Quando si sente sgorgare dal cuore la voglia di dire al proprio innamorato, non ti ringrazio perché mi ami, ma ti ringrazio di amarti, allora il gioco è fatto e rien ne va plus! Non resta che godersi la (con)vincita. Da tempo questa è la nostra realtà coniugale, ma invecchiando il clima continua a migliorare, tanto che ci viene da esclamare: amarsi da vecchi, quale grazia di Dio! Il nostro rapporto è molto più ricco di un tempo, scherziamo, giochiamo come ragazzini, certe volte ridiamo come due scemi. Avere un passato comune crea un senso di complicità che vivacizza anche le sciocchezze. E poi l'abitudine agli odori reciproci: come mai l'alito di Giulia non mi disturba mai, mentre quello di altri non lo sopporto neppure da lontano? E i segni del tempo, le rughe, le sfioriture della pelle. Confesso che i primi segni di vecchiezza che iniziavano a far capolino sul nostro fisico, anni fa, m'infastidivano più di quelli odierni, che pure sono assai più abbondanti. Ero preoccupato perché pensavo che ben presto non avremmo più provato attrattiva reciproca. E invece gli anni passati assieme, gli affanni quotidiani, gli scontri, le battaglie, i successi, le sconfitte, ci hanno modellati fino a farci diventare così come siamo. È stato il tempo speso a costruire un amore personalizzato, su misura per noi, che ci ha fatto innamorare ancor più di prima. Oltre che affetto, solidarietà, condivisione, aiuto reciproco, e tutti gli altri scambi che legano persone vissute a lungo insieme, mi azzarderei a dire che, col passare tempo, può anche farsi sempre più ricco e sensibile il gusto di un erotismo nient'affatto schiavo del piacere, ma straordinario strumento di comunicazione e di unione. Con l'età, una volta liberi dalla schiavitù del lavoro retribuito, aumenta il tempo a disposizione. Come si sta bene sdraiati accanto la mattina a letto, vicini, a contatto di pelle, impegnati a chiacchierare o altro. E la sera, quando la conversazione si addormenta nel sonno. O anche sul divano, senza dir nulla; e perché non su una panca, con le braccia attraverso le spalle, quando usciamo a fare i turisti in qualche parco, dove talvolta ci scopriamo commossi di fronte al fascino della natura. Con tutti gli interessi che continuiamo a coltivare, siamo sempre un po' troppo impegnati, e talvolta c'è un po' d'affanno. E poi ci sono i nipoti, che reclamano tempo anche loro. Ma abbiamo imparato a non farci scippare quello per noi, e a non sprecarlo quando è scarso. Per questo nella nostra vita ci sono rapporti con tanta gente: perché non cessiamo di coltivare assiduamente il nostro. Quando mi capita di parlare di queste cose, sento che molti sono scettici e non ci credono. Ho anche tentato di descrivere, in modo ampio e variegato, il senso di questo amore così affascinante nel mio recente racconto: Il sapore dell'amore compiuto. Ma a parte i soliti normali apprezzamenti, da alcuni è stato invece accolto con irritazione, quasi volessero dirmi: come ti permetti di tracciare un quadro così positivo del matrimonio, quando la percentuale dei fallimenti è in continuo aumento, quando molti ormai pensano che sia un'istituzione superata? Non saprei trovare altre risposte che ripetere con Pirandello: così è se vi pare. Infatti, chi non varcherà quella soglia che, superando ogni atteggiamento possessivo, consentirà d'immergersi nel coinvolgimento matrimoniale senza riserve, avrà ragione di restare perplesso e scettico. Mentre chi ne farà esperienza...... Non per nulla Gesù dice: sia fatto a voi secondo la vostra fede!
pubblicato da Noi Genitori e Figli 26 gennaio 2003
PETARDI, MINE, BOMBE ATOMICHE E MORALE SESSUALE
Nel suo recente discorso alla Pontificia Accademia per la Vita, il Papa ha insistito ancora una volta su “la dignità dell’essere umano come persona fin dal momento del concepimento” (cfr. Oss.Rom. 25/2/98). Il richiamo risulta particolarmente d’attualità, tenuto conto del continuo riproporsi di polemiche e riflessioni sulle prospettive d’interventi sul genoma, ed anche sull’ipotesi di clonazione umana, che pare ormai tecnicamente possibile. Storia e cronaca abbondano di spietati soprusi sull’uomo di tutte le età, e anche l’argomento aborto è un problema di sempre. Si presentano invece come recenti novità le manipolazioni genetiche a livello di concepimento o di embrione. E’ quindi importante cercare dei punti di riferimento, o per meglio dire, un confine di partenza per l’identificazione della persona umana. Il Papa lo fissa nel momento del concepimento, qualcun altro sostiene che tale confine va spostato oltre, ad esempio al momento del passaggio tra embrione e feto. E’ però fuori discussione che prima del concepimento tale problema non sussiste. La Chiesa dice e ripete i suoi decisi no, oltre che all’aborto, anche alle manipolazioni di embrioni, alle inseminazioni extraconiugali, alla clonazione. Le esatte dimensioni di tali problemi, oggi soltanto agli albori, forse non sono neppure percepibili, ma ricordando la storia dell’apprendista stregone appaiono, come minimo, inquietanti. Qualsiasi persona responsabile non può che sentirsi grata a chi leva alta la sua voce per mettere in guardia da tali pericoli, e tuttavia l’efficacia di qualsiasi esortazione è legata alla credibilità globale del messaggio che intende esprimere. Nel nostro caso, la percezione dei reali pericoli rischia di essere ottenebrata, in larghi strati dell’opinione pubblica, dal ricordo di altri decisi “no” rispetto ad argomenti assai più opinabili. Come spunto di riflessione su questo particolare aspetto del problema, proverò a spiegarmi con un esempio. Talvolta ho la sensazione di vivere in un mondo disseminato di petardi, dove ci sono anche un certo numero di mine antiuomo e di testate nucleari. I responsabili della salute pubblica non fanno altro che mettere in guardia, definendo tutto pericolosissimo e da evitare: dai petardi all’atomica. In concreto, però, pochi conoscono le mine o le bombe nucleari, mentre tutti hanno esperienza di petardi, con l’inevitabile conseguenza di valutare su quest’ultimi l’effettivo grado di pericolo. E dal momento che è abbastanza ovvio considerare i petardi relativamente pericolosi, e molti sanno che, con le dovute cautele, si possono utilizzare come gioiosi fuochi d’artificio per far festa insieme, le conseguenze rischiano di essere piuttosto fuorvianti. La psicologia umana infatti, e quindi l’opinione pubblica, tende spontaneamente a fare un parallelo: stesso ammonimento, stesso pericolo. Risultato: se i petardi non sono da considerarsi tanto negativi, non lo saranno neppure le mine o le bombe atomiche. Da anni siamo abituati a sentir tuonare con forza contro gli anticoncezionali: penso si tratti di un grave sbaglio. Indipendentemente da qualsiasi considerazione sull’embrione (ed anche sull’aborto), l’accanimento contro gli anticoncezionali ha reso comunque un cattivo servizio alle tesi complessive del Papa e del Magistero. Infatti, per sperare che l’opinione pubblica riconosca valore etico-morale alla persona umana dal momento del concepimento, bisogna che risulti inequivocabile la differenza di qualità con tutto ciò che lo precede. Diventa difficile sperare che venga considerato moralmente illecito costruire concepimenti artificiosi o manipolare l’embrione, ed anche interrompere la gravidanza una volta iniziata, se contemporaneamente viene dichiarato altrettanto illecito cautelarsi da concepimenti non voluti. Anzi, al contrario, il risultato tendenziale sarà proprio quello di svalutare la gravità dell’aborto e delle varie manipolazioni genetiche. Il Papa continua, giustamente, a sottolineare il valore morale e sociale della famiglia, perciò bisogna anche chiedersi se il divieto d’usare anticoncezionali aiuta o ostacola la formazione di rapporti coniugali ricchi e soddisfacenti, capaci di dar vita a famiglie solide e creative, tali da incidere costruttivamente sull’opinione pubblica. Coloro che praticano sesso in modo “irregolare” non vengono ovviamente toccati da prescrizioni e divieti: il problema resta tutto sulle spalle di quei coniugi che più sentono il problema morale. E quando la maturità dei coniugi su tale versante non è (ancora) equivalente, l’effetto può essere devastante. Come sperare di limitare la piaga dell’adulterio, di contenere le psicopatie sessuali, di promuovere un tipo di rapporto ricco e stimolante, se non esortando a utilizzare il sesso coniugale come elemento di unione, di profonda comunicazione, di altruismo, di generosità; se non incoraggiando a donarsi reciprocamente quel profondo appagamento che toglie ogni interesse a cercare compensazioni altrove; se non dimostrando che è possibile trovare piena soddisfazione (anche fisica) all’interno del proprio matrimonio? Ma d’altra parte, com’è possibile ottenere tali risultati finché la morale si basa sulla repressione, anziché sullo stimolo a sviluppare al meglio le qualità naturali, e valorizzare la straordinaria energia sessuale nel suo ambiente specifico? Fin dal tempo dell’Humanae Vitae, ma soprattutto con la rigida interpretazione dell’attuale pontificato, penso sia stata perduta una grande occasione. In un mondo consumistico, nel quale il sesso viene frequentemente utilizzato in modo negativo, e talvolta addirittura criminale, la Chiesa avrebbe potuto farsi paladina di una morale sessuale che, accanto alla via della castità (che resta d’immenso valore per chi la sceglie) propone anche lo sviluppo attivo del sesso, da coltivare e vivere in pienezza all’interno del matrimonio. Utopia? Forse. Non manca però qualche testimonianza di coniugi (cattolici impegnati) che dopo aver fatto, in coscienza, scelte diverse da quelle indicate dal Magistero in materia di anticoncezionali, hanno sentito crescere sempre più in loro la spiritualità, la disponibilità verso gli altri e la voglia di lavorare per un mondo fatto di persone realmente rispettate. Ma per influire in modo costruttivo sul neonato problema delle manipolazioni genetiche tali esperienze dovrebbero essere assai più diffuse e consolidate, e quindi incoraggiate. C’è ancora spazio per la speranza? Certo che se la morale coniugale continua a essere elaborata da coloro che rinunciano al matrimonio.......
pubblicato da ADISTA 14 marzo 1998
TRENT'ANNI DI «HUMANAE VITAE»: DALLA SPERANZA ALL'INDIFFERENZA
La primavera conciliare aveva suscitato grandi speranze soprattutto fra gli sposati, facendo loro intravedere finalmente la possibilità di una chiesa non più clericale, ma realmente popolo di Dio. L’amplissimo dibattito su amore coniugale e anticoncezionali, poi, aveva fatto sperare in un superamento delle tradizionali fobie sessuali, in modo da poter finalmente definire un modello di matrimonio cristiano impostato sul pieno sviluppo della sessualità, unica premessa per poter contenere le infedeltà coniugali, più o meno esplicite, e quindi per consolidare la famiglia. L’Humane Vitae si può dire abbia chiuso tale primavera, non tanto per il divieto espresso nei confronti dei contraccettivi (divieto che, diciamolo francamente, non ha significative conseguenze pratiche, dal momento che la grande maggioranza degli sposi cristiani non sembra attribuirgli troppa importanza), quanto perché la mancata svolta ha contribuito a frenare il fermento conciliare, impostato soprattutto sulla formazione delle coscienze personali. A rigore, pur nella sua chiusura, l’enciclica aveva lasciato degli spazi di manovra, e molte dichiarazioni di vescovi da tutto il mondo, insieme all’atteggiamento prudente del Papa di allora, pur salvando il principio continuavano a indicare un difficile ma non impossibile cammino verso lo sviluppo della coscienza. Al vescovo Albino Luciani (futuro papa Giovanni Paolo I) che aveva esplicitamente formulato la speranza di una maggiore apertura (sui contraccettivi), Paolo VI aveva detto: “Ora dobbiamo sostenere l’enciclica in tutta la sua interezza, ma senza aggravarne il peso con interpretazioni più rigide e più severe di quanto sia lo spirito del suo dettato”. E dieci anni dopo, verso la fine del suo pontificato, nelle dispense del vicariato di Roma (che essendo l’ufficio pastorale della sua diocesi si suppongono espressioni del suo pensiero) si leggevano frasi tipo: “La coppia va aiutata, tempestivamente e con i mezzi adeguati, soprattutto a maturare una coscienza adulta; dopo di che sarà essa, non altri, a compiere le sue scelte coniugali”. Posizioni che, pur ponendo barriere, parevano chiamare sostanzialmente gli sposati, che sono la maggior parte dei laici, a elaborare e gestire finalmente una propria morale coniugale, sottraendola al monopolio di coloro che al sacramento matrimoniale hanno rinunciato. Poi, col nuovo pontificato, l’interpretazione si è fatta via via più rigida, fino a proporre come indiscutibile ogni pronunciamento del Magistero, senza facoltà di esprimere posizioni neppure parzialmente divergenti. Ma le contraddizioni, per quanto ufficialmente mascherate, affiorano insuperabili. La Familiaris Consortio esorta la comunità ecclesiale, e in particolare medici, esperti, consulenti coniugali, educatori, coppie, a “assumersi il compito di suscitare convinzioni e di offrire aiuti concreti per quanti vogliono vivere la paternità e la maternità in modo veramente responsabile” (cfr n.35). Ma come si potrebbero suscitare profonde convinzioni su taluni aspetti morali, se non si possono far presenti le proprie riflessioni a tutto campo? Per fare un solo esempio, nelle posizioni ufficiali aborto e contraccezione sono stati legati indissolubilmente come due facce della stessa mentalità. Mi domando: se un cattolico volesse impegnarsi per contenere l’aborto, convinto per sua esperienza personale che tra i metodi validi ci sia anche una sana educazione all’uso dei contraccettivi, come potrebbe fare? Il dissenso è contrario alla comunione ecclesiale, dice la Veritatis Splendor (n. 113). Per coloro che, appartenenti alla Chiesa, sentono una grave responsabilità morale per quegli aborti che si potrebbero evitare, se si ponesse in atto un attento e rigoroso insegnamento a non concepire quando non si vuole procreare, il divieto a esprimere il proprio dissenso suona come invito a ritirarsi nel privato. Durante l’ultimo viaggio del Papa in Austria è stata espressa grave preoccupazione per l’espandersi fra i giovani dell’indifferenza che, giustamente, è stata definita assai peggiore della contestazione. Ma chiunque si senta disposto ad impegnarsi (ovviamente secondo le proprie convinzioni), una volta costretto a uniformarsi o tacere, quale altra strada trova a disposizione, se non l’indifferenza? Il rischio è di perdersi i migliori. La vicenda dell’Humanae Vitae è emblematica: il principio è affermato, il dissenso costretto al silenzio, e nel privato la maggior parte degli sposi cristiani si comportano in piena autonomia. Con tacita approvazione ecclesiastica, purché non se ne parli. Grandiose contraddizioni di quest’ultimo pontificato, caratterizzato da entusiasmanti aperture e grandi chiusure. Da un lato, come si potrebbe non amare un Papa che va nelle chiese protestanti a recitare le preghiere di Lutero; che sa chiedere perdono agli indios e ai negri per le colpe commesse dai cristiani; che ha il coraggio di riconoscere esplicitamente che nel caso Galileo era la Chiesa dalla parte del torto. Oltre a tante altre iniziative, fino al prossimo grande mea culpa preannunciato per il giubileo del 2000. Dall’altro lato, però, a queste coraggiose aperture verso l’esterno (che nessuno dei suoi predecessori aveva mai osato) corrispondono delle chiusure ad intra che fanno temere per la Chiesa del futuro. L’interpretazione rigida dell’Humanae Vitae è solo la componente d’un disegno d’insieme, che si è poi espresso in tanti altri modi fino alle due recenti lettere pastorali in forma di motu proprio. La prima, Ad Tuendam Fidem, considera evidentemente non più sufficiente il simbolo niceno-costantinopolitano, e impone una professione di fede estesa anche al Magistero ordinario e a “tutte e singole le verità circa la dottrina che riguarda la fede o i costumi”. La seconda, Apostolos suos, sancisce nuove regole per le Conferenze dei Vescovi, stabilendo che possono pubblicare (senza l’approvazione della Sede Apostolica) soltanto documenti approvati all’unanimità (!). Non solo ai laici è negata l’autonomia di coscienza, ma anche alle conferenze episcopali! Per questo Papa leader delle folle, che piace non solo a chi è d’accordo con lui, ma anche a chi si sente svincolato dalle sue direttive e rivendica per sé quell’autonomia che vorrebbe negare agli altri, pare che le coscienze personali non costituiscano alcun problema, a patto che stiano in silenzio. C’è da chiedersi quale futuro attende la nostra Chiesa. Anche se il non praevalebunt resta un punto di fede indiscutibile per tutti, chissà se queste pericolose contraddizioni verranno prima o poi capite e riequilibrate? La generazione del Concilio è stata caratterizzata da un gran fioritura di coscienze adulte, capaci di stimolanti iniziative perché formate nel clima di una vera svolta. Ormai tale generazione, costretta via via a ridimensionarsi attraverso continue frustrazioni, si va esaurendo per invecchiamento naturale. Una volta passata, al seguito del Papa rischiano di restare solo integralisti o indifferenti.
pubblicato da ADISTA 5 settembre 1998
MAGISTERO ED ESPERIENZA CONIUGALE: SE IL VANGELO ENTRA IN CAMERA DA LETTO
Tra le preoccupazioni del Papa e del Magistero, la famiglia ha un ruolo di primissimo piano, e lo si vede dai frequenti interventi, lettere pastorali e annunci di nuove encicliche. Molti sono i motivi, in buona parte condivisibili da tutte le persone di coscienza. Quello che lascia perplessi è che sovente i diversi aspetti del problema vengono posti sullo stesso piano, col risultato di svalutarne i più gravi. Per fare un esempio, in un recente articolo sull'Osservatore Romano del 23 febbraio scorso, il teologo Gino Concetti, affrontando una certa tematica relativa all'aborto, all'improvviso butta lì una frase: "Ugualmente illecita è ritenuta dalla Chiesa cattolica la contraccezione", ponendo così alla pari le due realtà. Che dire? Un tempo le posizioni del Magistero erano ben più problematiche e tolleranti, e Adista pubblica in questo numero ampi stralci di un dossier edito dal Vicariato di Roma nel 1978, che dimostra come ai tempi di Paolo VI vi era la tendenza a privilegiare comunque il primato della coscienza. Ma più che l'opportunità di una maggiore o minore tolleranza, noi coniugi cristiani sentiamo costantemente presente un interrogativo: è proprio giustificata questa condanna senza appello degli anticoncezionali? Da oltre dieci anni Giovanni Paolo II ripropone la sua tesi: "Quando, mediante la contraccezione, gli sposi tolgono all'esercizio della loro sessualità coniugale la sua potenziale capacità procreativa, essi si attribuiscono un potere che appartiene solo a Dio: il potere di decidere in ultima istanza la venuta all'esistenza di una persona umana. Si attribuiscono la qualifica di essere non i cooperatori del potere creativo di Dio, ma i depositari ultimi della sorgente della vita umana. In questa prospettiva, la contraccezione è da giudicare, oggettivamente, così profondamente illecita da non potere mai, per nessuna ragione, essere giustificata" (cfr Oss. Rom. 7/9/83). Ripetuta poi con insistenza ad ogni occasione, questa è, in sostanza, la motivazione principale, che ad un attento esame, però, offre più interrogativi che risposte. Infatti, se l'illecito sta nel "decidere" volontariamente di non procreare, allora anche i metodi naturali non sarebbero "per nessuna ragione" giustificati: trattenersi quando il fisico si sente attratto dal coniuge soltanto perché sono giorni a rischio, è proprio togliere alla "sessualità coniugale la sua potenziale capacità procreativa". Ma non solo: se si applicasse coerentemente fino in fondo questa tesi, allora si dovrebbe concludere che anche la continenza sarebbe pur sempre un limite volontario alla procreazione, sarebbe impedire alla potenza creativa di Dio di esprimersi. Insomma, se ogni singola attrattiva sessuale fosse legata alla progettualità divina, allora sarebbe peccato astenersi dal compiere l'atto ogni volta che il fisico lo richieda, perché ci sarebbe il rischio che proprio quegli spermatozoi o quell'uovo siano oggetto di scelta divina. Ma andando avanti di questo passo, si finirebbe per far assumere al celibato il senso della più drastica e totale opposizione al progetto di Dio. La natura ci può dare qualche indicazione preziosa. E' noto che, con l'atto sessuale, fuoriescono dall'uomo una quantità incredibilmente grande di spermatozoi, perfino sull'ordine di miliardi. Di questi uno, e soltanto in condizioni particolari, può raggiungere il suo scopo, mentre gli altri sono comunque destinati all'estinzione. E se l'atto sessuale non viene consumato, non è che il loro destino sia diverso, perché in ogni caso saranno eliminati, o attraverso eiaculazioni spontanee, o riassorbiti dall'organismo. Ma se un così grande numero di potenziali futuri esseri umani sono comunque condannati all'estinzione, le deduzioni possibili sono due: o in questo aspetto Dio non c'entra, e allora qualsiasi intervento umano precedente la fecondazione non può interferire nei suoi piani; oppure è proprio lui ad aver deciso questo incredibile spreco, e in tal caso il suo messaggio sarebbe chiarissimo: gli spermatozoi non contano nulla. L'uso degli anticoncezionali è tutt'altro che semplice dal punto di vista medico, e dev'essere comunque affrontato con la massima attenzione, ma rimuovere gli ostacoli di carattere morale sarebbe un grande passo avanti per quel rilancio della famiglia che il Papa auspica, insegnando a costruire dei rapporti coniugali ricchi, solidi, effervescenti, che sono possibili soltanto là dove la fedeltà diventa creativa e consolidata. Ma come sconfiggere le tentazioni della disgregazione e dell'adulterio, se non insegnando a coltivare un sesso ricco e soddisfacente all'interno del proprio rapporto coniugale? E come riuscirci se gli amanti sono continuamente frenati dalla necessità di trattenersi, per timore di gravidanze, quando ormai l'equilibrio familiare è stato strutturato in modo costruttivo e responsabile? Al di là delle opinioni è l'esperienza che conta, e dato che ciascuno conosce la propria, non possiamo che raccontare la nostra. Dopo oltre quarant'anni di matrimonio, con tre figli e cinque nipoti che hanno con noi e fra loro tali rapporti di fiducia, di stima e di condivisione da non potersi spiegare se non come Grazia di Dio, non ci vergognamo di confessare che continuiamo ad avere una vita sessuale attiva e brillante. Malgrado i segni di vecchiezza che non mancano sul nostro fisico, il desiderio reciproco non si spegne, perché è stato coltivato a dovere, e oggi possiamo dire, senza alcuna retorica, di sentirci più innamorati del primo giorno. Partiti da temperamenti molto diversi, abbiamo combattuto e lavorato a lungo prima di scoprire tutta questa ricchezza di vita coniugale, e forse non è un caso che l'aver raggiunto un pieno e soddisfacente equilibrio sessuale sia coinciso con la nostra conversione a un più concreto impegno di vita nella fede. Da tempo, sentiamo Cristo presente anche in camera da letto. Da qualche anno il problema degli anticoncezionali personalmente non ci riguarda più, ma quando a suo tempo, liberati da impedimenti di carattere morale, abbiamo deciso di usarli, non è stato per fare come ci pare, ma per scelta responsabile. E se è vero che "dai frutti si vede la bontà dell'albero", che dovremmo pensare ora che ci troviamo immersi in tanta Grazia? Non significa forse questo: "non prestate fede a ogni ispirazione, ma mettetele alla prova per saggiare se provengono veramente da Dio"? (1 Gv 4,1). Sarebbe interessante se le coppie che si riconoscono su posizioni analoghe uscissero allo scoperto, per raccontare le loro esperienze. Per concludere, condividiamo profondamente le preoccupazioni del Papa per il futuro della famiglia, alla cui immagine abbiamo dedicato tutta la vita con tanto amore, ma per quanto riguarda lo specifico problema degli anticoncezionali la nostra esperienza ci fa pensare che la decisione di usarli o non usarli sia moralmente neutra. E siamo convinti che Dio-Padre non dia troppa importanza a scelte umane di questo tipo, chiedendoci piuttosto di favorire tutto ciò che aiuta ad amarsi meglio. firmato: Giulia e Antonio Thellung
pubblicato da ADISTA 12 marzo 1994
DIRETTORIO DI PASTORALE FAMILIARE: QUANDO IL RIGORE SCHIACCIA LO SLANCIO EVANGELICO
In un'intervista rilasciata al Corriere della Sera di lunedì 11 ottobre 1993, a seguito del nuovo documento "Direttorio di Pastorale Familiare", il segretario della CEI Mosignor Tettamanzi ha dichiarato: "Quello della Chiesa non è un rigore fuori epoca. Essa vive in quest'epoca, ma sa di dover annunciare in essa, in pienezza, il Vangelo della famiglia". Innanzi tutto alcune considerazioni sul versante rigore. Sovente documenti e dichiarazioni ecclesiastiche si esprimono come se le divergenze d'opinione fossero a senso unico, o per meglio dire, come se a un Magistero sempre rigoroso si contrapponessero abitualmente richieste di posizioni più permissive. Ma questo non è affatto vero. Ad esempio, per quanto riguarda la pena di morte, il dissenso cattolico chiede al Magistero il coraggio di un maggior rigore. Infatti, di fronte al nuovo Catechismo della Chiesa Cattolica che relativizza il quinto comandamento, interpretandolo come divieto di uccidere l'essere umano innocente (CCC 2258ss), esiste un ben consolidato dissenso di coloro, tra i cattolici praticanti, che chiedono di uscire una volta per tutte dalle ambiguità del passato per affermare l'assoluto rispetto della vita di tutti, buoni o cattivi che siano. E quindi per dichiarare che la pena di morte è illecita sempre e in ogni caso. Il rigore quindi, non solo può essere accettato, ma anche auspicato. E' questione d'intendersi. E' quel Vangelo della famiglia, piuttosto, a creare non poche perplessità. In proposito, sia questo Direttorio di Pastorale Familiare, sia la recente Veritatis Splendor, contengono alcune parti per lo meno discutibili. A scanso di equivoci, è bene dir subito che entrambi i documenti, come del resto tutti quelli del Magistero, contengono molte cose valide e positive: ci mancherebbe altro! Ma questo non può limitare le critiche là dove sono giustificate, e quindi doverose. Ad esempio, le ormai ben note disposizioni del Direttorio per la riammissione dei divorziati risposati ai sacramenti assumono un senso ben più ampio, mettendo a nudo un modo un po' curioso d'intendere il matrimonio. Dire che "la Chiesa li ammette alla assoluzione sacramentale e alla Comunione eucaristica se..... si impegnano ad interrompere la loro reciproca vita sessuale" (220) significa di fatto affermare che il matrimonio è indissolubile soltanto per quanto riguarda il sesso, cosa che appare riduttiva e umiliante nei confronti del sacramento. Sovente le autorità ecclesiastiche giustificano drastiche prese di posizione perché, dicono, i fedeli sono disorientati dalla confusione che regna nel nostro tempo. Chisà se si rendono conto che siamo in molti, tra noi cattolici sposati, a sentirci disorientati proprio dal tentativo di far rientrare dichiarazioni di questo tipo in un Vangelo della Famiglia! Lo stesso Direttorio, nelle definizioni iniziali, dice che il matrimonio "coinvolge ogni persona nella sua totalità unificata di spirito e di corpo"(10), che "è, per gli sposi, il luogo concreto, specifico e particolare in cui vivere la sequela e l'imitazione di Cristo"(13). Quindi un rapporto creativo e totalizzante che investe in pienezza tutta la vita dei coniugi. Come mai, allora, questa drastica discriminante legata al modo di vivere il sesso? Vuole indicare che proprio quella è l'essenza del matrimonio? O vuole essere un atto d'indulgenza (rinunciate almeno al sesso)? E' difficile credere che la CEI abbia voluto affermare il primo caso, ma se si tratta invece di un atto d'indulgenza, allora la via migliore sarebbe un'altra: basterebbe che il Magistero rinunciasse a voler fare il gendarme di Dio per annunciare semplicemente il messaggio di Cristo, con maggior fiducia che lo Spirito Santo saprà aiutare le coscienze personali a farne buon uso. Quali sarebbero poi i confini di una tale rinuncia al sesso? Quei coniugi che "si impegnano ad interrompere la loro reciproca vita sessuale" possono o non possono continuare a esprimersi con una certa affettività, come baci, carezze, abbracci? Se possono, che dovranno fare quando in simili momenti, indipendentemente dalle intenzioni, sentiranno spuntare il desiderio sessuale? Affidarsi alla cosiddetta morale del centimetro: fin lì non è peccato, un po' oltre sì? Sarebbe moralmente positivo restare nel desiderio senza compiere l'atto? E se, al contrario, gli sposi dovessero rinunciare totalmente a ogni forma di affettività, non andrebbero incontro a conseguenze perverse? Come potrebbero vivere in equilibrio ed educare i loro figli fuggendosi continuamente l'un l'altro? Il vero problema è un altro, e investe l'immagine stessa della Chiesa e i confini del Magistero, sui quali continuano ad esserci alcune ambiguità. Sarebbe bello sentire affermare una volta per tutte se il Magistero è voce dell'intero popolo di Dio, oppure solo di una parte. Certo che una Chiesa basata sui sacramenti dal cui Magistero sono totalmente assenti i ministri del matrimonio, suscita inevitabilmente qualche interrogativo, tanto più se si pensa all'esortazione di San Giovanni: "mettete alla prova le ispirazioni, per saggiare se provengono veramente da Dio"(1Gv4,1). Chi potrebbe farlo, se non chi fa diretta esperienza di vita coniugale? Anticamente preti e vescovi erano sposati, ma ora? Al di là di ogni interrogativo, resta la speranza che questo Vangelo della famiglia possa evolversi fino a trovare orizzonti più ampi e luminosi.
pubblicato da ADISTA 10 novembre 1993 |
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