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La Civiltà Cattolica e la pena di morte
La Civiltà Cattolica ritorna sul tema della pena di morte con un articolo di Paolo Ferrari da Passano s.j. "Un certo scalpore ha suscitato in molti il fatto che il nuovo Catechismo della Chiesa Cattolica (CCC) non abbia rinunziato a considerare lecita....la pena di morte. Tra i credenti più sensibili e anche tra molti laici si sperava in una sua chiara condanna". L'autore colloca tra costoro anche la Cività Cattolica, richiamandosi tra l'altro a un articolo pubblicato nel 1981 da lui definito"una strenua difesa delle posizioni contrarie alla pena di morte". Tra le molte citazioni di studiosi e personalità, è interessante porre a confronto, ad esempio, G. Concetti che dice: "nessuno può togliere la vita a un altro. Neppure lo Stato. Dio non ha delegato a nessuno un'autorità così specifica" con R. Buttiglione che auspicando la costruzione di un sistema legislativo e penitenziario efficiente, conclude che: "fino a quando questo non sarà possibile, (la Chiesa) non potrà negare allo Stato il diritto di infliggere la pena di morte". Ancor più interessanti due citazioni del card. Ratzinger. La prima: "Il Catechismo dà, dunque, l'idea di un'evoluzione che si allontana sempre più dalla pena di morte", che, in un certo senso, sembra voler affermare la relatività storica della morale. La seconda: "Ciò che è importante è il Catechismo nel suo insieme: esso riflette quello che è l'insegnamento della Chiesa; se lo si rifiuta nel suo insieme, ci si separa inequivocabilmente dalla fede e dall'insegnamento della Chiesa" che suona come autorizzazione ufficiale ad avere opinioni personali su aspetti parziali, purché non siano in contrasto con il senso complessivo. L'autore pone anche in evidenza che il CCC giustifica la pena di morte proprio nell'ambito della sacralità della vita, dalla quale deriva il rispetto della vita umana, quindi la condanna dell'omicidio e la giustificazione delle varie forme di legittima difesa, fra le quali rientra anche la pena di morte! Poco più oltre, però, cita un'affermazione del Consiglio Permanente della CEI del 18 marzo 1981 dove si afferma: "L'uomo che uccide, colpisce una creatura che è immagine di Dio. Anche quando fosse offuscata da gravissime colpe, tale immagine rimane sacra". L'articolo, elaborato in chiave positiva, esprime la speranza che si possa giungere "al superamento della pena di morte", tuttavia non affronta alcuni interrogativi che ci sembrano fondamentali. Primo: il CCC riconosce "il diritto e il dovere della legittima autorità pubblica di infliggere....in casi di estrema gravità, la pena di morte". Ma se la valutazione della gravità è lasciata alla stessa autorità che infligge la pena, a che serve questa precisazione? Secondo: come può la Chiesa delegare la valutazione e l'applicazione di una norma morale alla legittima autorità pubblica? Non equivale ad avallare le azioni di chi ha il potere in mano? Per quanto riprovevoli, non si può negare che Stalin, Hitler, Ceausescu, abbiano rappresentato la legittima autorità pubblica nei rispettivi paesi. Terzo: il CCC lega inequivocabilmente la legittimazione della pena di morte all'interpretazione che il quinto comandamento non esprime un assoluto (non uccidere) ma un relativo (non uccidere l'innocente) e porta a sostegno inequivocabili citazioni veterotestamentarie che giustificano questa interpretazione. Ma Cristo, che è venuto non per abolire ma per compiere, l'ha confermata o l'ha compiuta superando ogni relativismo? Anche limitandosi alle diverse posizioni citate nell'articolo, la lettura neotestamentaria appare tutt'altro che univoca. Come cristiani, però, dobbiamo sempre immaginarci che cosa farebbe o direbbe Cristo. E di fronte sia pure al peggiore degli uomini, che tuttavia ha un nome, un cognome, un volto, si può credere che, se fosse presente, direbbe: questo dovete o potete ucciderlo?
pubblicato da ADISTA ottobre 1993
PENA DI MORTE SPECCHIO DELLE CONTRADDIZIONI ECCLESIASTICHE
Al di là dei singoli interventi del Papa o dei suoi collaboratori, le problematiche relative alla pena di morte sono sempre più d’attualità. Oltre ai risvolti sociali, l’argomento riveste importanza fondamentale anche per la chiesa di oggi e di domani. Di fronte a talune obiezioni imbarazzanti, molte autorità ecclesiastiche usano ripetere, talvolta in modo implicito, che nei suoi emendamenti più recenti il CCC esprieme un rifiuto quasi totale della pena di morte. Resra da chiedersi quale valore attribuire a quel “quasi”. Se l’opposizione all’aborto è assoluta, la pena di morte viene trattata in modo qualitativamente diverso, perché una certa tradizione (già veterotestamentaria) ha voluto interpretare il quinto comandamento come divieto di uccidere l’innocente (e non chiunque, cfr CCC 2261). E siccome la pena di morte viene applicata al colpevole (rischi di errore giudiziario a parte) è da considerarsi, di principio, lecita. L’attuale tesi ecclesiastica ufficiale sostiene che oggi non è più necessaria per la difesa della società, affermando in tal modo implicitamente che nel passato lo era: un modo per tentare di salvare capra e cavoli. Ma se le motivazioni per vietarla si basano su criteri d’opportunità, e non sulla difesa d’intangibili diritti, la divergenza tra il Papa e il Presidente degli Stati Uniti finisce per ridursi a elementi opinabili: l’uno afferma che non è più necessaria, l’altro che lo è ancora, e il match finisce in parità. Non c’è bisogno di essere psicologi per capire che Giovanni Paolo II sente la pena di morte come una spina nel cuore assolutamente insopportabile, ma evidentemente l’ipotesi di affermare che l’insegnamento di Cristo nega a chiunque il diritto di uccidere, indipendentemente da qualsiasi valutazione di merito, appare troppo rischioso. L’istituzione ecclesiastica, nel passato, si è compromessa troppo con la forca, e la stessa giustizia dello Stato Pontificio ne ha fatto largo uso. Condannarla senza riserve sarebbe come ammettere che la Chiesa si è sbagliata. Vero che nessuno può esser chiamato a render conto oggi di quanto hanno fatto i predecessori di allora, però l’atteggiamento e le opinioni che vengono espresse sui fatti del passato hanno valore al presente. Dire che oggi non è più necessaria equivale a giustificare il passato, con la nota motivazione che i tempi e i costumi erano diversi. Vien però da chiedersi: la Chiesa è nata con il compito di adeguarsi ai tempi, oppure per impegnarsi a trasformarli? Non possiamo certo giudicare gli altri, consci che chiunque di noi, nel passato, avrebbe corso il rischio di adattarsi agli usi dell’epoca. Ma oggi possiamo capire inequivocabilmente che per i seguaci di Cristo uccidere non può mai essere giustificato, e se la Chiesa lo ha fatto, ciò significa che ha sbagliato. Se lo ammettesse esplicitamente, Giovanni Paolo II avrebbe l’opportunità (probabilmente gradita) di chiedere perdono a tutto campo, anziché su singoli e limitati avvenimenti, conservando inevitabilmente talune ambiguità. Ma negli ambienti ecclesiastici la paura è molta, perché ammettere di aver sbagliato significa porre in gioco la credibilità della Chiesa. Per certi versi, però, non cambierebbe nulla, perché le persone di coscienza lo sanno già che la chiesa ha sbagliato, e talvolta continua a sbagliare, ma credono che ciò non ostante resti un cammino indefettibile, al di là d’ogni singolo errore. Quello che potrebbe cambiare, invece, è che i 60 milioni di cattolici degli Stati Uniti, che i sondaggi dicono in prevalenza forcaioli, sarebbero per lo meno costretti, insieme a quant’altri sono dello stesso parere, a scegliere tra Cristo e il patibolo, una volta stabilito inequivocabilmente che sono inconciliabili. Non è giustificato il timore che il Magistero perda credibilità: l’autorità che stimola le coscienze, aiutandole a prendere le proprie decisioni, acquista molto maggior prestigio di quella che vuole imporsi. Nessuna autorità può costringere al bene, e ora che si può dirlo tranquillamente senza incorrere nelle sanzioni di un tempo, molti se ne sono accorti. La pena di morte, con tutta la problematica che l’accompagna, è simbolo del bene coatto, che appare ormai un’illusione superata per sempre. La Chiesa assicurazione, ombrello protettivo, scarico di responsabilità, è sempre meno necessaria, e chi ha bisogno di qualcuno che gli acquieti la coscienza sarebbe meglio cominciasse ad averla un po’ più inquieta. Le persone responsabili ascoltano volentieri e con molta attenzione l’insegnamento dell’autorità, ma nessuno, salvo chi ha spirito di sudditanza, è più disposto ad accettarlo acriticamente, e basta conversare con un po’ con i cristiani per rendersene conto. Questo Papa ha una capacità di comunicare e una determinazione nell’esprimere il suo credo che lo rendono affascinante, ma incarna una Chiesa di vertice, che richiama grandi folle disposte ad applaudire un leader carismatico, ma assai meno disposte a seguirlo nei contenuti. Tant’è vero che la partecipazione a una vita ecclesiale impegnata sta diventando sempre più scarsa. Che accadrà se il prossimo Papa non avrà un carisma equivalente? La speranza per il futuro è che il modello di Chiesa come gendarme di Dio venga abbandonata del tutto, e il dissenso interno, che è la maggior ricchezza di qualsiasi assemblea (ecclesia), venga accolto amorevolmente, stimolando a camminare finalmente insieme, felicemente coinvolti con il Magistero, in una pluralità d’opinioni che non impedisce di sentirsi uniti nel nome di Cristo. Di fatto questo atteggiamento esiste già, anche se l’autorità si sforza di contrastarlo. Un esempio emblematico è la vicenda del gesuita De Mello, che in questo scorcio di fine secolo, con i suoi scritti, ha avvicinato alla fede molta più gente di tutti i catechismi canonici, riconciliando con Cristo molti fra quelli che si erano sentiti costretti a prendere le distanze dall’istituzione. Critico verso l’autorità, è vero, talvolta anche in modo feroce, ma Cristo non aveva fatto altrettanto? Per fortuna però, malgrado i fulmini del Sant’Uffizio, editori e librerie cattoliche continuano a pubblicare e vendere abbondantemente i suoi libri. Nell’era delle ideologie sconfitte, l’ideologica Chiesa Trionfante sarà comunque costretta a cedere il posto a una Chiesa che sappia perdere, sul modello di Cristo. Da sempre, in realtà, la Chiesa che conta è quella di chi è disposto a rischiare il fallimento pur di annunciare il vangelo, senza scendere a patti coi tempi e le abitudini sociali (o ecclesiastiche). Come esempi illustri, basta ricordare Francesco d’Assisi, Savonarola, Giovanni della Croce, Rosmini, e al presente vescovi come Romero e Girardi.
pubblicato da ADISTA 29 marzo 1999
PENA DI MORTE: A CHE PUNTO STIAMO CON L'IPOCRISIA?
La reintroduzione della pena di morte nello stato di New York è stata occasione di un nuovo articolo di riprovazione sull'Osservatore Romano, in data 9 marzo 1995, a firma di Gino Concetti, uno dei pochi teologi che intervengono con lucidità e frequenza sull'argomento, forse sperando che, prima o poi, questo aspetto del messaggio di Cristo emerga finalmente anche fra i cristiani. Il problema si sviluppa su due versanti: l'uno riguarda l'opportunità, se cioè conviene alla società, nel senso più ampio, applicare tale pena piuttosto che altri metodi deterrenti e rieducativi; l'altro è questione di principio, se cioè il messaggio di Cristo consente, sia pure in casi eccezionali, di ritenere lecita la pena capitale. Sul primo aspetto, nel campo cristiano, siamo certamente tutti d'accordo: anche i favorevoli, o i non del tutto contrari alla pena di morte, sostengono infatti che deve trattarsi solo di estrema ratio. Lo stesso Catechismo invita a usare prima di tutto "mezzi incruenti", auspicando che siano sufficienti (2267), e dichiara lecita la pena di morte solo "in casi di estrema gravità" (2266). Strano che non ci si renda conto dell'assoluta inutilità di tali raccomandazioni, quando la loro valutazione (se i mezzi incruenti sono sufficienti o se il caso è veramente di estrema gravità) viene lasciata alle sensibilità di quelle stesse persone che detengono (in quel momento o luogo) il potere di decidere e dichiarare chi non è innocente, privandolo automaticamente dei suoi diritti morali. Ripetere perciò tali motivazioni è certamente utile per far crescere nell'opinione pubblica una coscienza tollerante, benevola, costruttiva, ma non serviranno a nulla finché, sull'altro versante, verrà conservata quell'ambiguità di fondo che consente di essere favorevoli all'omicidio legale, pur continuando a dichiararsi cristiani. Scrive, tra l'altro, Concetti: "La coscienza civile si ribella contro la pena di morte e, in nome della dignità umana ne contesta il ripristino. Nessuno - né individuo, né gruppo sociale, né Stato - può rivendicare il diritto di vita e di morte, come gli antichi imperatori e re. La fede cristiana proclama che solo Dio è signore della vita e ha comandato agli uomini e alle donne di trasmetterla e di proteggerla. Non di sopprimerla. Colui che si è macchiato di un grave delitto non perde mai la sua dignità e l'inviolabilità della propria vita". Non si potrebbe dire meglio, e tuttavia, a leggerlo attentamente, emerge una considerazione interessante. Il riferimento alla fede cristiana viene fatto in relazione al considerare Dio signore della vita, cosa che nessuno contesta, mentre è, secondo quanto scritto, la coscienza civile a ribellarsi contro la pena di morte, non la coscienza cristiana. Né Concetti potrebbe dirlo, senza accusare molti autorevolissimi cristiani, tra i quali i compilatori e responsabili del Nuovo Catechismo della Chiesa Cattolica, di avere una coscienza difforme dagli insegnamenti di Cristo. In proposito, vale anche la pena di citare quanto scrive su Vita Pastorale di marzo 1995, in risposta a un lettore, il teologo moralista Giordano Muraro. Dopo aver fatto riferimento al CCC, si dichiara personalmente d'accordo ripetendo: ".... il comandamento di non uccidere non ha un valore in assoluto, ma in relazione all'innocente: proibisce l'uccisione dell'innocente. Questo, e solo questo, è un comandamento che ha un valore assoluto e universale". Più oltre afferma: "E' vero che la persona ha un valore assoluto e nessuno può disporre della sua vita. La persona è di se stessa e di Dio. Ma è anche vero che una persona, con il suo comportamento, può compromettere la vita di un'altra persona, o il bene comune, e in particolare l'ordine sociale..... ". E via di seguito, la solita arrampicatura sugli specchi per arrivare a dire implicitamente, e spero inconsciamente, che, in sostanza, se l'uomo si sente minacciato può sostituirsi a Dio. Quanto al criterio di valutazione della minaccia, naturalmente è sempre lo stesso uomo a decidere. Talvolta sogno di scrivere una lettera a Gesù per dirgli: lo sai che dopo duemila anni c'è ancora che sostiene che in tuo nome si può anche uccidere, sia pure con mille distinguo? Ma questo mio amore per l'utopia si scontra sempre con la dura realtà. Diverse volte ormai l'Osservatore Romano ha pubblicato articoli che si contrappongono radicalmente, su questo punto, a quello che dice il Catechismo. Eppure non sono forse entrambi espressione ufficiale e fondamentale della stessa autorità ecclesiastica? L'articolo di Concetti conclude: "La società marcia spedita verso il duemila. Il progresso che ha moltiplicato la produzione dei beni e la loro fruizione, non è finora riuscito a rendere gli uomini e le donne più virtuosi, più consapevoli della loro dignità e dei loro diritti, della dignità e dei diritti di tutti e di ciascuno. La battaglia per sconfiggere la criminalità va combattuta su questo fronte: aiutare gli uomini a crescere in umanità, nel presupposto del diritto e della giustizia". Da parte nostra l'accordo è totale, anche se dispiace notare che il riferimento a Cristo sembri assente da questa battaglia. D'altra parte, come si potrebbe chiedere di abolire la pena di morte in nome di Cristo, finché documenti come il Catechismo della Chiesa Cattolica, che pretende di essere espressione del suo messaggio, continueranno a dichiararla lecita?
pubblicato da ADISTA 25 marzo 1995
QUANDO I BUONI SI CONVERTIRANNO?
Qualche tempo fa un giovane prete spagnolo, mentre celebrava la messa nella nostra parrocchia, durante l'omelia si mise a chiedere ai numerosi bambini presenti: "perché bisogna fare la comunione? perché?" E dato che nessuno rispondeva, continuò incalzante: "avanti.... coraggio.... qualcuno mi sa dire per quale motivo è necessario fare la comunione?" finché un bambino, timidamente, disse: "per fare il bene". Il giovane prete restò muto per un attimo, come spiazzato di fronte a una risposta inattesa. Poi prese a dire con voce bassa: "sì.... sì.... per fare il bene" ma riprendendosi subito continuò agitando il braccio: "ma soprattutto per.... soprattutto per.... ?" e dato che questa volta proprio nessuno dava segno di saper rispondere, concluse trionfante: "ma soprattutto per combattere il male!". Può sembrare incredibile, lo ammetto, eppure è cronaca fedele. E a pensarci bene, credo che proprio da questa diversa messa a fuoco traggano origine tante drammatiche contraddizioni umane. Un eco profonda ha suscitato in questi giorni l'esecuzione capitale, nel Texas, di un condannato per un delitto che non aveva commesso. A taluni è sembrato un fatto mostruoso, ma non a quelli che partono dal principio di combattere il male: si trattava pur sempre di un cattivo soggetto, perché, allora, stracciarsi le vesti? Questo è stato più o meno il ragionamento di chi poteva intervenire e non lo ha fatto. L'Osservatore Romano (5/1/95) ha commentato la notizia con un articolo del teologo Gino Concetti, che si esprime radicalmente contro la pena di morte, dicendo tra l'altro: "La vita è inviolabile e perciò nessuno la può sopprimere, neppure lo Stato. Ed è inviolabile anche nella persona macchiatasi di grave delitto". Concetti aveva già espresso in un suo libro questa posizione rigorosa, ma ribadita ora sul giornale del Vaticano, che significa? Che questa è l'odierna posizione ufficiale cattolica? Ma allora come la mettiamo con il nuovo catechismo, emanato dal più alto dicastero Vaticano per la dottrina cattolica, che riconosce invece "fondato il diritto e il dovere della legittima autorità pubblica di infliggere.... la pena di morte"? (CCC 2266). Non si può certo negare che nella Chiesa cattolica la voglia di combattere il male sia stata sovente messa al primo posto. Basta ricordare, per fare un esempio, il commento di San Roberto Bellarmino alla parabola della zizzania: ".... mentre il Signore proibisce di distruggere i cattivi, non proibisce che l'uno o l'altro vengano uccisi, ma ordina che i buoni non cerchino di distruggere tutti i cattivi dovunque..... Così è la parabola generale, e così insegna che non avverrà mai prima della consumazione dei tempi, che tutti i cattivi vengano debellati". (cit. da Alberto Bondolfi in: Pena e pena di morte, Bologna 1985, pag. 249). Incredibile? Eppure..... Combattere il male scatena le passioni, e tale ottica attira al suo seguito assai più del tentativo di fare qualcosa di buono, di costruire un po' di bene. Perché meravigliarsi che la Chiesa sostenesse Franco, Videla, Pinochet? Non combattevano forse contro i cattivi? E non vogliono forse combattere il male quegli integerrimi cattolici che uccidono in nome del diritto alla vita? Anche nei giorni scorsi ne abbiamo avuto degli esempi. Il Concilio aveva alimentato non poche speranze, spostando per qualche tempo l'ottica verso la necessità di costruire il bene. Cercate ciò che unisce e non ciò che divide, aveva esortato a lungo Papa Giovanni, ma il mondo moderno, tremendamente problematico, sembra fatto apposta per far prevalere timori e apprensioni su fiducia e speranza, e così il partito di chi vuol combattere il male ha ripreso vigore. Negli ultimi tempi libri e articoli di apologia cattolica si stanno moltiplicando. Giordano Bruno ha avuto solo quello che si meritava, sostiene la rivista Studi Cattolici dell'ottobre scorso, mentre l'editore Leonardo ha pubblicato recentemente due volumi dai titoli significativi: Elogio dell'Inquisizione e Elogio del Sillabo. La tesi è sempre la stessa: l'importante è colpire i cattivi, che disturbano l'ordine costituito. Vale la pena di soffermarsi un momento su questo Elogio dell'Inquisizione che, con una prefazione, come invito alla lettura, di Vittorio Messori, propone una traduzione odierna della voce Inquisition del Dictionaire apologétique de la foi catholique (Parigi, 1911 - 1931). Basti una sola citazione: "A discolpa dell'Inquisizione occorre dire che essa impiegò la tortura non certo con quella crudeltà esagerata che i suoi avversari le attribuiscono, bensì con le più grandi precauzioni.... I Papi ripeterono a più riprese che la tortura non doveva mai essere spinta fino alla perdita di un membro e ancor meno fino alla morte, fissando così un limite ai suoi rigori". (pag. 126). Incredibile? Ma che cosa stupisce di più? Che i Papi abbiano fatto simili raccomandazioni? Che vengano indicate come esempio di moderazione? Che si senta oggi il bisogno di tesserne l'elogio? Sembra che il Papa odierno abbia manifestato l'intenzione, in occasione del giubileo del duemila, di chiedere perdono delle colpe commesse dalla Chiesa e in nome della Chiesa. Speriamo che sia vero, ma perché allora aspettare? Esiste forse il pentimento a scadenza? Dillo subito, ti preghiamo, che ci siamo sbagliati, proponi subito di cancellare dal catechismo quella mostruosità che afferma l'inviolabile diritto alla vita solo per gli innocenti. I peccatori per i quali Cristo è venuto, erano forse innocenti? Oggi i forcaioli sono in preoccupante crescita: diciamolo subito che ci siamo sbagliati, anziché continuare a essere complici di tanti delitti legalizzati con approvazione cattolica. Togliamo loro ogni copertura morale. E diciamo inequivocabilmente, a chi ha la sfrontatezza di battere certe strade, che l'elogio delle nostre vergogne è il peggior tradimento del Vangelo, ed equivale a voler essere complici oggi dei delitti di ieri. Smettiamola di fare come il Fariseo nel Tempio, che chiede la conversione dei cattivi: siamo tutti a doverci convertire, tutti insieme. Finché i buoni si sentiranno dalla parte giusta, finché la loro cattiveria troverà copertura nella giustizia, finché combattere il male sarà l'obiettivo primario, allora altro e altro male prospererà, in una spirale perversa. C'è ancora spazio per la speranza? Verrà un giorno in cui i buoni, anzi, noi buoni, ci decideremo a convertirci?
pubblicato da ADISTA 28 gennaio 1995
«CHIUNQUE UCCIDERÀ CAINO…»: IL CATECHISMO E LA PENA DI MORTE
Mentre l'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa stabilisce (4 ottobre) che l'abolizione della pena di morte è requisito essenziale per l'accoglimento nel Consiglio di altri Stati; e mentre il Parlamento italiano cancella (5 ottobre) la pena di morte anche dal codice penale militare di guerra, il Catechismo Cattolico, ultimissima edizione, riconosce agli stati il diritto di ricorrervi sia pure in circostanze specialissime. Tuttavia, anche si giungesse, per pura ipotesi utopistica, ad abolire e dichiarare illecita la pena di morte in tutti i paesi del mondo, il risultato non sarebbe ancora sufficiente. Equivarrebbe, infatti, a tentare di modificare un effetto senza eliminarne la causa, col rischio di consentire altri crimini non meno gravi. E' necessario modificare quel principio ispiratore che ha consentito finora di considerarla moralmente lecita. Il nuovo Catechismo afferma ripetutamente che il divieto di uccidere si riferisce solo all'innocente, ripetendolo, nel relativo capitolo, per ben otto volte (anche se cade in contraddizione, là dove afferma "il diritto alla vita e all'integrità fisica di ogni essere umano"). Questo è dunque il punto chiave: tale diritto vale per tutti, oppure soltanto per gli innocenti? Le conseguenze si proiettano ben oltre la sola pena di morte. Voglio fare un esempio. Qualche tempo fa, la televisione ha mandato in onda un servizio sull'eterna tragedia in Angola: un'antologia di atrocità non molto diverse, purtroppo, da quelle di tante e tante altre. Ma un'immagine in particolare mi è rimasta impressa nella mente: quella di un bambino che mostrava le braccia ridotte a moncherini, mentre i suoi occhioni vivi e penetranti sembravano esprimere più stupore che altro. Gli avevano amputato le mani perché sorpreso a rubare del riso. Ingenuo e ottimista come sono, mi piace credere che un episodio del genere susciti in chiunque un senso d'indignazione e ribellione, ma, mi domando, per quale motivo? Perché tale pena è da considerarsi illegittima di principio, oppure soltanto perché risulta esagerata rispetto al reato? Ebbene, per quanto possa sembrare strano e assurdo, il Catechismo non la considera affatto illecita di per sé, là dove al sottocapitolo Il rispetto dell'integrità corporea dice testualmente: "le amputazioni, mutilazioni o sterilizazioni direttamente volontarie praticate a persone innocenti sono contrarie alla legge morale" (CCC 2297). Questa è la discriminante che ha portato la Chiesa a giustificare, avallare e praticare non solo l'uccisione di tanti colpevoli, ma anche l'uso sitematico della tortura e l'applicazione di pene minori, come appunto amputazioni e mutilazioni. Si giudica, si stabilisce chi non è innocente, lo si priva dei suoi diritti, e il gioco è fatto: infierire su di lui diventa lecito, con beneplacido legale e morale. Negli ultimi tempi, fortunatamente, anche all'interno della Chiesa si stanno moltiplicando le voci che chiedono di uscire una volta per tutte da tali ambiguità. Lo stesso Catechismo, tra le sue contraddizioni, dice: "Nei tempi passati, da parte delle autorità legittime si è fatto comunemente ricorso a pratiche crudeli per salvaguardare la legge e l'ordine, spesso senza protesta dei pastori della Chiesa, i quali nei loro tribunali hanno essi stessi adottato le prescrizioni del diritto romano sulla tortura..........Ci si deve adoperare per la loro abolizione"(2298). Ma molti sono coloro che hanno paura di dover ammettere che la Chiesa si è sbagliata, basti citare, come esempio, che cosa scrive in proposito Vittorio Messori nel suo celebre volume Pensare la storia. Partendo dalla considerazione che la Chiesa "sempre, nel suo Magistero più alto, ha affermato la legittimità della pena di morte", e riconoscendo che oggi molte voci, anche di vescovi, si levano a chiedere che venga invece dichiarata illegittima quale crimine e tradimento del vangelo, si chiede allarmato: "Se davvero è così, come difendere la Chiesa dalla colpa di complicità....... come attenuare....... la responsabilità dei papi...... insomma, un'ombra oscura si proietta su tutto quanto l'insegnamento e la prassi cattolici....... Sembra che....... certa teologia o anche certi episcopati...... non veda, o peggio, non si curi delle conseguenze che, sulla fede della gente, hanno simili variazioni dottrinali." (pag. 416 e 417). Strano come i difensori a oltranza di tali posizioni non vedano o non si curino delle tragiche conseguenze di tali delitti, non solo sulla fede della gente, ma anche sulla credibilità della Chiesa. E' forse meglio continuare ad esserne complici, piuttosto di ammettere che la Chiesa può sbagliare? Ma queste posizioni di retroguardia, che si potrebbero definire atti di scarsa fiducia nello Spirito Santo, sono destinate prima o poi a passare. Qualche mese fa alcuni giornali, tra i quali ADISTA (cfr n. 33 del 30/4/94), hanno pubblicato degli stralci di un documento, sottoscritto dal Papa, che invita i vertici della Chiesa a riflettere anche su questo tema, in vista del grande giubileo del 2000. Nel testo, tra l'altro, si legge: "Bisogna che anche la Chiesa, alla luce di quanto il Concilio Vaticano II ha detto, riveda di propria iniziativa gli aspetti oscuri della sua storia valutandoli alla luce dei principi del Vangelo......... Potrebbe essere una grazia del prossimo Giubileo. Ciò non danneggerà in alcun modo il prestigio morale della Chiesa, che anzi ne uscirà rafforzato, per la testimonianza di lealtà e coraggio nel riconoscere gli errori commessi da uomini suoi e, in certo senso, in nome suo." Una grande speranza, ma per il momento soltanto proiettata nel futuro, e quindi nient'affatto certa. Nel frattempo, che dovremmo dire a quel bambino così ferocemente mutilato? Rassegnati bimbo dagli occhioni neri: la Chiesa, il Papa, il Magistero sono pronti a gridare indignati che la pena che ti è stata inflitta è sproporzionata al fatto, mentre d'altra parte sostengono nei loro documenti che non è immorale di principio. Come dire, insomma, che un po' te la sei meritata. Ci piaccio o no, questa è ancor oggi la posizione cattolica ufficiale. Perciò non possiamo rassegnarci, ma dobbiamo insistere e gridare forte per chiedere che questa e altre simili vergogne vengano cancellate, finché la Chiesa tutta intera non si decida a dichiarare inequivocabilmente che il rispetto della vita e l'integrità della persona umana vale per tutti, assolutamente tutti, buoni e cattivi, innocenti e colpevoli. Solo così si potrà auspicare una reale abolizione della pena di morte, che sia anche abolizione di torture, mutilazioni, e analoghe violenze. O almeno, se non altro, nessuno potrà più considerare legittimi tali soprusi, sentendosi per di più coperto da approvazione ecclesistica.
pubblicato da ADISTA 15 ottobre 1994
LEGITTIMA AUTORITÀ E PENA DI MORTE
Un cittadino iraniano, Mehdi Dubaj, per essersi convertito dall'islamismo al cristianesimo (Comunità evangelica delle «Assemblee di Dio») è stato prima imprigionato per 9 anni e poi condannato a morte «per apostasia» dal tribunale islamico di Sari. La diplomazia internazionale ha denunciato il caso per impedire l'esecuzione e anche il Vaticano ha svolto buoni uffici diplomatici per salvare la vita a Mehdi Dubaj. È un episodio che richiama prepotentemente in causa il dibattito sulla pena di morte e che coinvolge anche la Chiesa cattolica. Ricordiamo che cosa dice in proposito il nuovo Catechismo: "...l'insegnamento tradizionale della Chiesa ha riconosciuto fondato il diritto e il dovere della legittima autorità pubblica di infliggere pene proporzionate alla gravità del delitto, senza escludere, in casi di estrema gravità, la pena di morte." (CCC 2266). Ma se la valutazione dei casi di estrema gravità è lasciata a quella stessa legittima autorità che ha il diritto-dovere di infliggere la pena, allora qualsiasi norma diventa inutile. Chi infatti ha mai condannato qualcuno a morte senza motivi (da lui valutati) di estrema gravità? E questo vale naturalmente anche per la legittima autorità Iraniana. L'interrogativo è inquietante: come può la Chiesa delegare la valutazione e l'applicazione di una norma morale all'autorità pubblica? Non equivale forse ad avallare anche tutte le prepotenze di chi ha il potere in mano? Non si può negare infatti che, per quanto riprovevoli, Stalin, Hitler, Ceausescu, abbiano rappresentato la legittima autorità nei rispettivi paesi. E inoltre: la norma vale per la legittima autorità cristiana o anche non cristiana? Solo a pensarci si rischia di scadere nel grottesco. Ma allora, viene da chiedersi, come non vedere l'assurdo di tali affermazioni? Il nuovo catechismo ribadisce più volte che, secondo l'interpretazione del Magistero, il quinto comandamento non esprime un assoluto (non uccidere) ma un relativo (non uccidere l'innocente) e porta a sostegno di questa tesi una citazione veterotestamentaria (Es 23,7). E' indubbio, infatti, che gran parte dell'Antico Testamento l'abbia interpretato in tal senso, ma se è vero che Gesù dice: "non sono venuto per abolire ma per compiere" è anche vero che si affretta a precisare: "se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei..." e subito dopo comincia con i suoi famosi "avete inteso dire....ma io vi dico..." attraverso i quali porta sì a compimento l'antica legge, ma rovesciandone in molti casi il senso. Non solo non uccidere, ma non adirarti con tuo fratello, non insultarlo, non metterlo in cattiva luce; non solo rinuncia a occhio per occhio, ma non opporti al malvagio, non usare le sue armi, anzi, porgi l'altra guancia; e soprattutto non limitarti ad amare il tuo prossimo (i tuoi amici, i simpatici, i giusti, i buoni, gli innocenti) perché questo lo fanno tutti, anche i cattivi. Per essere figlio del Padre celeste che fa sorgere il sole sopra i cattivi e sopra i buoni, fa piovere sui giusti e gli ingiusti, è benevolo con gli ingrati e i malvagi, devi amare perfino i nemici (gli antipatici, i cattivi, i colpevoli). E' possibile credere che con questo suo programma abbia inteso confermare che il comandamento "non uccidere" si riferisce soltanto all'innocente? Intendeva forse dire: amate soltanto i vostri nemici innocenti? Oppure: potete anche uccidere coloro (i nemici-colpevoli) che amate? O forse nel dire: quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli l'avete fatto a me, intendeva riferirsi soltanto ai fratelli innocenti? E inolte, non parla forse abbastanza chiaro la parabola della zizzania? E se non bastasse ancora, l'episodio dell'adultera non è sufficiente a fugare ogni dubbio? Era colpevole, e secondo la legge doveva essere uccisa, eppure Gesù le dice esplicitamente: io non ti condanno. Com'è possibile dunque, di fronte a tanta evidenza, che il Magistero continui a considerare lecita la pena di morte? Il motivo è intuibile: la paura di dover riconoscere che nel passato la Chiesa si è sbagliata. Ma voler per questo considerare rigidamente valido il senso di certe affermazioni fatte in altra epoca, quando la vita umana valeva poco o niente, è per lo meno altrettanto inquietante. Prendiamo ad esempio San Tommaso, che in proposito dice: "uno scellerato, che è pericoloso alla società, può anche essere ucciso; ma ciò è riservato a colui cui spetta la tutela della società: non possono quindi i privati uccidere i malfattori". Appare evidente che l'intenzione primaria è negare ai singoli il diritto di farsi giustizia da soli, e non quella di dare legittimazione morale a ciò che fanno i gestori del potere. Al di là di qualsiasi ragionamento, comunque, come cristiani dobbiamo sempre immaginarci che cosa farebbe o direbbe Cristo. In questo caso, considerare legittima la pena di morte significa credere che sia Gesù in persona a dire: "il colpevole potete ucciderlo". Ma di fronte sia pure al peggiore degli uomini, che tuttavia ha un nome, un cognome, un volto, si può credere che, se fosse presente, direbbe: "questo dovete o potete ucciderlo?" Errare umanum est, perseverare diabolicum. La paura di continuare a sbagliare non ci sfiora neppure? La Chiesa, che le piaccia o no riconoscerlo, ha commesso o avallato tanti delitti, e tutti noi ne siamo corresponsabili, ciascuno per la sua parte, nella misura in cui li mascheriamo o li giustifichiamo, ad esempio compilando o accettando catechismi che continuano a dare copertura a tali delitti. Riconoscere semplicemente di aver sbagliato e voltare pagina, porterebbe davvero a così terribili conseguenze? E' così scarsa la fiducia nello Spirito Santo? Siamo alle soglie del terzo millenio, e finalmente il Papa ha avuto il coraggio d'inginocchiarsi sulla porta degli schiavi per chiedere perdono all'umanità intera di quei crimini, compiuti dal cristianissimo occidente. Quando un Papa avrà il coraggio d'inginocchiarsi a Campo de' Fiori e chiedere perdono per tutti i roghi dell'Inquisizione? Forse allora i suoi appelli alla pace e al rispetto dei diritti umani saranno finalmente più ascoltati, e i catechismi più credibili.
pubblicato da ADISTA 5 febbraio 1994 |
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