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Su argomenti sociologici e religiosi
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HOSPICE VILLA SPERANZA
Attività ed eventi 20 marzo 2018
IL SEGRETO PER ESSERE FELICI
A Villa Speranza incontro con lo scrittore Antonio Thellung
Le folte sopracciglia bianche incorniciano uno sguardo vivace e profondo, il fisico asciutto e agile non rivela assolutamente l’età. Antonio Thellung – 87 anni – è la dimostrazione vivente che Fare del Bene fa bene.
E anche se con scherzosa provocazione gli piace dire che non ha tempo per star male, il segreto della sua vitalità è sintetizzato nell’affermazione “Ho imparato ad essere felice”.
Una frase apparentemente semplice che ci ha chiarito oggi pomeriggio a Villa Speranza raccontando la sua lunga esperienza come volontario nell’assistenza domiciliare ai malati terminali. Un vero pioniere perché quando ha iniziato, tanti anni fa, in questo campo ancora si muovevano i primi passi e si doveva procedere adattandosi al momento. Insomma – come ci ha detto sorridendo – “bisognava avere un po’ di inventiva”.
E di inventiva e capacità di adattamento Thellung ne ha avuta davvero tanta, come dimostrano i diversi casi che ha raccolto nel libro “ACCANTO AL MALATO … SINO ALLA FINE”, al centro dell’incontro di oggi.
Tanti racconti, tante persone – ognuna con la sua peculiarità – descritte nel loro personale approccio alla malattia e al trovarsi di fronte al momento conclusivo della propria vita, identificate soltanto con il nome di battesimo, particolare che ha dato alla narrazione un’intimità che ce le ha rese vive.
Ma il momento in cui Thellung è riuscito a coinvolgerci ancora di più e a dare prova ancora maggiore della sua sensibilità è quando ci ha raccontato la sua esperienza con i bambini.
Un campo minato che molti cercano di evitare tenendoli lontano, raccontando bugie e facendo così danni a volte irreparabili.
Invece, ci ha detto, bisogna mettersi al loro livello per trovare il canale di comunicazione e allora diventano facili da conquistare e capacissimi di “assorbire le emozioni”.
Come quando ai figli di una mamma il cui corpo era stato, chissà perché, vestito di nero ha proposto di “colorarlo” con i fiori. La scena ha perso allora tutta la sua drammaticità e ci siamo trovati, commossi, a sorridere.
In chiusura le domande dei numerosi volontari e medici presenti che hanno sottolineato la notevole differenza tra l’assistenza raccontata da Thellung – e da lui definita “artigianale” – e quella praticata (e codificata dalla legge) attualmente. Anche se è risultato evidente che, ieri come oggi, alla base di una buona assistenza c’è sempre l’ascolto.
Ringraziamo Antonio Thellung per questo incontro – due ore che sono volate! – e per la promessa che ha fatto di tornare a trovarci.
Noi facciamo così
Sono passati ormai più di 65 anni da quando con la mia sposa, non ancora ventenni, abbiamo cominciato a camminare insieme tenendoci per mano. Durante il percorso ci è capitato d'incontrare meraviglie e tragedie, così come accade a molti in questa vita contraddittoria, capace di offrire sprazzi di paradiso, ma anche momenti infernali.
Quel che abbiamo scoperto, via via, è che qualsiasi evento, bello o brutto che sia, può diventare esperienza positiva se viene vissuta con la speranza nel cuore, e questa a noi non è mai mancata. Ad esempio, diverse volte non ci siamo trattenuti dal litigare, come è normale in ogni rapporto coniugale, ma lo abbiamo sempre fatto tenendoci per mano senza mai mettere in dubbio che la nostra sia stata fin dall'inizio una scelta per la vita. Per questo continuiamo a sperimentare, anche nella vecchiaia, momenti nei quali la tenerezza non ci risparmia il suo coinvolgimento.
Così, anno dopo anno, siamo diventati vecchi assieme, fino a scoprire che amarsi da ottantacinquenni è più bello che da giovani. Insomma, un amore, il nostro, che ancor oggi continua tenacemente appassionato.
Una fede comune e condivisa, libera da schemi e formalismi, sempre rivolta verso l'orizzonte per ricercare oltre, ci accompagna quotidianamente, cadenzata anche su antiche consuetudini che aiutano a non cedere alla stanchezza.
Ma ci sono gli acciacchi che pretenderebbero di contrastare i nostri spazi di libertà, costringendoci a sempre nuove invenzioni per non soccombere. In particolare, per fare un esempio, noi crediamo che al di là dei formalismi sia importante partecipare alla messa domenicale. Vero che talvolta alcune celebrazioni appaiono stereotipate, per non parlare poi di certe omelie che sarebbe assai meglio non ascoltare, e tuttavia a sottolinearne il valore basterebbe il fatto che tante persone diversissime fra loro, e con pensieri sovente contrastanti, partecipano fianco a fianco, e poi vanno tutte assieme, in un dato momento, a compiere un gesto di comunione che nessuno è in grado di sapere oggettivamente che cosa veramente significa. Un gesto che, da solo, sovrasta il senso di qualsiasi chiacchiera o interpretazione.
Alla nostra età, però, non sempre è possibile recarsi in chiesa, così, quando gli acciacchi non ce lo permettono, ci contentiamo di accendere la televisione e partecipare a distanza, ben consapevoli di ricevere un grande privilegio, perché se fossimo vissuti al tempo dei nostri nonni non avremmo avuto simili opportunità.
Abbiamo anche riflettuto sul fatto che, pur essendo fisicamente in distanza dal celebrante, la nostra partecipazione potrebbe essere sostanzialmente equivalente, proprio dato lo sviluppo della tecnologia attuale. In fondo, la tecnica moderna ci suggerisce che il tavolo che sostiene la televisione, anche come effetto ottico, potrebbe essere considerato un prolungamento dell'altare. Da lì l'dea di porre proprio davanti allo schermo un pezzo di pane e un bicchiere di vino, da consumare poi al momento opportuno insieme a tutti gli altri.
D'altra parte è teologia tradizionale che il prete celebrante sia un semplice mediatore di Gesù Cristo, il quale ovviamente agirà come vuole. E se può mutare il pane e il vino sull'altare nel suo corpo e nel suo sangue, non potrebbe forse volerlo fare anche attraverso una trasmissione TV? Sarà pur sempre la sua intenzione che conta. E forse anche la nostra, quando collima con la sua.
Per esempio, si potrebbe anche prevedere che, con i vertiginosi sviluppi odierni capaci di stravolgere ogni consuetudine, prima o poi i preti illuminati, quelli che precorrono i tempi, cominceranno a confessare e assolvere per videotelefono (skype o i-pad che sia). D'altronde, se amministrare i sacramenti significa in sostanza chiedere allo Spirito Santo di operare, come si potrebbe escludere che possa farlo anche attraverso i collegamenti che l'evoluzione tecnologica ci mette a disposizione?
In sintesi, la comunione, lo dice la parola, è qualcosa che unisce, e quando con la mia sposa ci poniamo la domenica davanti alla celebrazione eucaristica è come se dicessimo: noi siamo qui e ci offriamo alla comunione con Cristo e con tutti i fratelli e le sorelle che guardano a lui. Quale sarà il reale significato del nostro gesto non pretendiamo di saperlo: a noi basta sentirci in comunione.
In ogni caso, ripeto, noi abbiamo la chiara impressione di partecipare profondamente all'eucarestia comunitaria anche attraverso la televisione. E ci sentiamo in comunione con la Chiesa intera, pur senza pretendere certezze oggettive. Del resto sappiamo bene che nessuno può avere certezze, neppure partecipando secondo i canoni tradizionali. È soltanto questione di fede.
E proprio per la nostra fede noi facciamo così, pensando di nutrirci in tal modo dell'autentico simbolo eucaristico. Ma anche, tuttavia, con la chiara coscienza che se poi così non fosse, al massimo avremo semplicemente mangiato un pezzo di pane e bevuto un sorso di vino.
pbblicato da ADISTA n. 34 dell'8 ottobre 2016
Fuori dal gregge
Obbedienza e dissenso, speranze e utopie:
verso una Chiesa delle coscienze
adulte e consapevoli.
L'obbedienza non è più una virtù, diceva Don Milani esortando a coltivare la presa di coscienza. Non per contrapporsi all'autorità, ma per educare ciascuno ad assumere le proprie responsabilità, senza pretendere di scaricarle su altri. L'obbedienza infatti può anche dirsi una virtù, ma soltanto se si mantiene entro limiti equilibrati, da valutare appunto con coscienza. Perché l'obbedienza cieca è il tipico strumento utilizzato dalle strutture autoritarie gerarchico-imperialistiche per esercitare il potere, offrendo in cambio ai sudditi lo scarico della responsabilità personale. Tipico esempio si è avuto nel dopoguerra quando pareva che nessuno dei feroci gerarchi nazisti fosse colpevole, perché sostenevano tutti di aver semplicemente obbedito a ordini superiori.
Il vangelo è chiarissimo: «perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?», ma la cristianità che si è affermata nella storia ha preferito mutuare dall'Impero Romano un'impostazione imperialistica che si mantiene presente tuttora, sia pure adattata ai tempi odierni. Un'impostazione che riduce i fedeli a «docile gregge», come li definiva a suo tempo Pio X. Il vangelo, inoltre, esorta anche a non chiamare nessuno padre sulla terra, un lampante invito a non cadere nelle tentazioni del paternalismo, che svaluta la dignità delle persone: Ma l'uso di chiamare "padre" i ministri del culto la dice lunga. Nello stesso brano, poi, Gesù in persona ammonisce i suoi apostoli a non farsi chiamare maestri perché solo Cristo è il maestro, ma sorprendentemente su taluni documenti ecclesiastici anche dei tempi presenti, come ad esempio il Documento di Base del 1970, si legge nientemeno che: «per disposizione di Cristo, gli Apostoli affidarono ai loro successori, i Vescovi, il proprio ufficio di Maestri». Incredibile!
Si potrebbe dire che il magistero ha sempre richiesto ai fedeli un'obbedienza cieca, e non pochi tra coloro che hanno cercato di opporsi hanno pagato talvolta perfino con la vita. San Francesco, nella sua prima regola, aveva provato a scrivere che un frate non è tenuto ad obbedire al superiore se questi gli ordina qualcosa di contrario alla sua coscienza, ma naturalmente Papa Innocenzo III si è guardato bene dall'approvarla. In tempi più recenti, nel 1832, Gregorio XVI definiva un «delirio» la libertà di coscienza e nel 1954 Pio XII scriveva: «È giusto che la Chiesa respinga la tendenza di molti cattolici a essere considerati ormai adulti». Non è stupefacente?
Chi esercita il potere, di qualsiasi tipo, vorrebbe dai sudditi una delega in bianco, perché teme le coscienze adulte, che sono difficilmente governabili per il loro coraggio di esprimere dissenso, quand'è il caso. E tanto più il potere è prepotente e prevaricante, tanto più esige un'obbedienza cieca. È ben noto cha i dittatori gradiscono solo il consenso dai loro cortigiani, condannandosi così a risultati sovente catastrofici. Anche il magistero ecclesiastico ha sempre mostrato una grande avversione al dissenso, trattandolo come un nemico da combattere perfino con metodi violenti, nel caso, senza capire che proprio il dissenso è il miglior amico degli insegnamenti di Cristo, perché agisce come sentinella delle coscienze, imponendo di non accettare nulla supinamente, ma di vagliare il senso profondo di ogni cosa.
Il dissenso, nella Chiesa, c'è sempre stato, con buona pace di coloro che nelle varie epoche storiche hanno preteso di soffocarlo usando talvolta armi che sono incompatibili con l'insegnamento di Gesù. Sarebbe ora che l'autorità prendesse atto che il dissenso non è un nemico ma, anzi, un grande amico, che se può rendere più complesso e faticoso il cammino, proprio per questo aiuta a non scivolare verso i tradimenti di Cristo, che sono sempre subdolamente in agguato. Il Concilio Vaticano II mostrava di averlo capito quando scriveva, nella Gaudium et Spes: «La Chiesa confessa che molto giovamento le è venuto e le può venire perfino dall'opposizione di quanti la avversano o la perseguitano». Ma ben presto, poi, sono prevalsi nuovamente gli atteggiamenti di repressione e condanna verso chi tenta coraggiosamente di alzare la testa.
Personalmente non dubito che un magistero ecclesiastico sia necessario e prezioso, ma di quale tipo? Qualsiasi coscienza adulta sa che di fronte a disaccordi e perplessità non avrebbe alcun senso rifiutare l'autorità o ribellarsi tout court: non sarebbe costruttivo. Ma sente però il dovere, prima ancora che il diritto, di chiedergli maggiore credibilità, di esigere che sappia proporre senza imporre, con rispettoso ascolto delle opinioni altrui. Gli ascoltatori di Gesù «rimanevano colpiti dal suo insegnamento, perché «parlava con autorità», e non perché aveva cariche istituzionali. Così il magistero può sperare di essere creduto, dalle coscienze adulte, quando offre messaggi autorevoli e convincenti, e non per il solo fatto di essere l'autorità costituita. Oggi la credibilità dei vertici ecclesiastici, con tutti gli scandali di questi tempi, è fortemente minata, e si potrebbe dire che solo facendo leva surrettiziamente sulla grande fede in Gesù Cristo che continua a sostenere tante persone (malgrado tutto) evita di porsi in caduta libera. Ma fino a quando, se permane la pretesa di continuare a proporsi come magistero di un «docile gregge?».
La parabola della zizzania insegna che la Chiesa è comunione di consensi e dissensi, perciò, per ricuperare credibilità, le autorità dovrebbero finalmente prenderne atto e imparare a dialogare con tutti alla pari, e in particolare proprio con il dissenso. Dovrebbero educarsi ed educare ad accoglierlo con l'attenzione che merita. Perché un dissenso respinto e represso a priori diventa facilmente aspro, arrabbiato, distruttivo, mentre se accolto con benevolenza può diventare costruttivo, benevolo, e perfino affettuoso. Un altro dissenso è possibile, ed è ora di prenderne atto, in alto come in basso. Una buona educazione al dissenso potrebbe diventare la miglior scuola alla formazione di coscienze adulte, capaci di confrontarsi senza acquiescenze o confusioni, ma anche senza censure. Capaci cioè non farsi travolgere da vergognosi intrallazzi di qualsiasi tipo: è urgente dirlo oggi, di fronte a tanti scandali che continuano a emergere.
Personalmente, da tempo mi occupo di questo argomento, cercando, nel mio piccolo, di fare quel che posso. Qualche anno fa l'editrice La Meridiana ha pubblicato un mio libro dal titolo Elogio del dissenso, e per ottobre prossimo ha in programma di pubblicare un mio nuovo saggio dal titolo I due cristianesimi, scritto per sottolineare le differenze tra il messaggio originale di Cristo e l'imperialismo cristiano, non solo come si è affermato nella storia, ma anche come si manifesta al presente. L'interrogativo è focalizzato sulla speranza nel futuro, mentre le critiche a quanto è stato ed è contrabbandato in nome di Cristo servono solo per capire meglio come si potrebbe uscir fuori dalle tante macrocontraddizioni.
La speranza è irrinunciabilmente legata a una Chiesa delle coscienze adulte, perciò sogno un magistero impegnato a farle crescere senza sottoporle a pressioni psicologiche; un magistero capace d'insegnare a distinguere il bene dal male senza imporre valutazioni precostituite; lieto di aiutare ognuno a diventare adulto e autonomo senza costringerlo a sottomettersi; teso a promuovere un comportamento responsabile senza obbligarvi alcuno contro la propria volontà; volto a stimolare una sempre maggiore consapevolezza rinunciando a imposizioni precostituite. Un magistero che affermi i suoi principi senza pretendere di stigmatizzare le opinioni diverse; che proponga la propria verità senza disprezzare le verità altrui; che sappia insegnare mentre è attento a imparare. In altre parole, sogno una Chiesa dove sia possibile ricercare, discutere, confrontarsi, camminare assieme.
Sogno un Magistero che affermi il patrimonio positivo della fede, libero dalla preoccupazione di puntualizzare il negativo; che sappia offrire gratuitamente l'acqua della vita, senza voler giudicare chi beve; che proponga la verità di Cristo, esortando a non accettarla supinamente; che tracci la strada, ammonendo a non seguirla passivamente; che offra strumenti per imparare a scegliere, a non essere acquiescenti, a non accontentarsi di un cristianesimo mediocre e tiepido. Un magistero che preferisca circondarsi da persone esigenti, irrequiete, contestatrici, piuttosto che passive, pavide, addormentate. Esso per primo ne trarrebbe grandi benefici: sarebbe il magistero di un popolo adulto, maturo, responsabile.
Etimologicamente la parola obbedienza significa ascolto, e sarebbe ora di educarci tutti a questo tipo di obbedienza reciproca: i fedeli verso l'autorità, ma anche l'autorità verso chiunque appartenga al Popolo di Dio, non importa con quale ruolo. Solo questa obbedienza è autentica virtù.
Chissà se San Paolo, quando esortava a sperare contro ogni speranza, si riferiva anche alle utopie!
pubblicato su Mosaico di Pace, 7 luglio 2012
Ipnosi generalizzata
Se non fosse da piangere ci sarebbe da ridere. Qualcuno afferma che siamo alle comiche finali, e si potrebbe essere d’accordo, sulle comiche, ma mi mostrerei prudente sul considerarle finali.
Quel che mi suscita stupore non è il comportamento del presidente del Consiglio, ma il consenso che continua a ricevere, non solo da moltissimi cittadini italiani, ma anche da ambienti che (almeno teoricamente) dicono di voler promuovere e sostenere comportamenti moralmente corretti, se non proprio irreprensibili. Come mai così tanti italiani sono disposti a perdonargli tutto? E come mai anche persone autorevoli sembrano fare altrettanto?
Dopo lunga riflessione mi si è affacciata alla mente un’ipotesi. Il nostro è un abilissimo illusionista, e in particolare un ipnotizzatore. Con una capacità straordinaria è riuscito a raggiungere la maggior parte degli italiani diffondendo fra loro un ipnotismo generalizzato che ha contaminato tutti, destra e sinistra, cattolici e laici, amici e avversari. I refrattari all’ipnosi sono una piccolissima minoranza, che in democrazia, ovviamente, finisce per contare poco o nulla. Gli altri si dividono regolarmente tra coloro che lo esaltano e lo difendono visceralmente, e quelli che farebbero qualsiasi cosa per toglierselo dai piedi.
Si discute accanitamente se sia innocente o colpevole, se se le va a cercare o se è un perseguitato, tutte cose assolutamente insignificanti in un regime di dormienti.
Come spiegare, altrimenti, la situazione odierna? Si potrebbe capire il sostegno di taluni maschietti pruriginosi che ammirano il "modello" e si perdono le bave all’idea di fare l’orgetta con fanciulle compiacenti, ma come spiegare il seguito di tante massaie pronte a dare il mattarello in testa ai rispettivi mariti, se soltanto si azzardano a sbirciare qualche biondina per strada? Si può capire chi ama il denaro e guarda a lui come a un modello mitico, ma come si potrebbe spiegare l’atteggiamento benevolo e acquiescente di alte gerarchie ecclesiastiche, se non con uno stato di trance provocato da un tale mago ipnotizzatore?
Indipendentemente da ragioni o torti, Berlusconi ha comunque una personalità che divide in schieramenti contrapposti: questo è indiscutibile. Ma quanto è gradito, agli italiani, questo clima di contrapposizione radicale? Penso che, al giorno d’oggi, sia pressoché impossibile uscirne per vie ordinarie. Ma mi domando: sarà possibile liberarsi da questo stato d’ipnosi collettiva? Per riuscirci, per ottenere un risveglio, bisognerebbe uscire dallo schema tipico della tecnica ipnotica, che è quello di indirizzare l’attenzione su elementi secondari per far perdere di vista quello primario. Nel nostro caso, dato che il presidente del Consiglio rappresenta comunque tutti gli italiani, se potessi dare un suggerimento a ciascuno per le prossime elezioni, suggerirei di rinunciare a chiedersi se sia colpevole o innocente, modello da imitare o da esecrare, per concentrarsi invece su una sola domanda: come mi sento rappresentato? Ne sono orgoglioso o me ne vergogno? E se mi capita di parlarne, mi sento fiero di vantarne i meriti, oppure devo trovare delle giustificazioni? Sarebbe utile, prima di mettere il proprio voto sulla scheda, raccogliersi fra sé e sé e rispondersi serenamente.
Dopo di ché, se la maggioranza degli italiani dichiarasse di sentirsi ben rappresentata, non resterebbe che accettare il verdetto. La democrazia merita di essere rispettata anche fra gli ipnotizzati.
pubblicato su ADISTA del 5 febbraio 2011
L'antico vezzo della Chiesa che "contestualizza"
Con la parola cristianesimo vengono abitualmente indicati due diversi modelli di riferimento, talvolta inconciliabili fra loro. Il primo si riferisce a quello che Gesù ha detto e fatto, cioè al cuore del suo messaggio. Il secondo esprime il cristianesimo reale così come si è incarnato nella storia e nelle società umane, o per meglio dire la cristianità.
Il nucleo fondamentale dell'insegnamento di Gesù traspare dal discorso della montagna, là dove dice: «Avete inteso che fu detto: amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico; ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, perché siate figli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti. Infatti se amate quelli che vi amano, quale merito ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani? Siate voi dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste» (Mt 5,38-48). Quest'ultima frase, isolata, appare stupefacente: come si fa a essere perfetti come Dio? Ma nel contesto il significato diventa chiarissimo.
Il Dio di Gesù è fatto così: non è un potente severo e distaccato pronto a colpire chi sgarra, ma un papà affettuoso che ama tutti i suoi figli, anche i cattivi, anche gli ingiusti, anche i malvagi. Non quindi una perfezione teorica, basata su modelli astratti e irraggiungibili, ma un atteggiamento molto concreto: amare non per quello che si riceve in cambio, ma per il gusto di amare, perché offrire amore è bello e riempie il cuore di gioia. Un atteggiamento alla portata di tutti, divino e umano allo stesso tempo. Essere perfetti come Dio significa avere sempre e solo risposte d'amore di fronte alle situazioni della vita, ciascuno per quello che può, nei propri limiti, ma con un atteggiamento di qualità equivalente a quello divino. Per questo Gesù non chiede di sottomettersi a Dio, come fanno le religioni basate sul sacro, ma invita a somigliargli praticando un amore simile al suo.
Ecco il cuore del Cristomessaggio, ecco il metro di misura del cristianesimo secondo Gesù Cristo, un aspetto della rivelazione veramente geniale e irresistibile, per chi lo capisce. Qualsiasi cosa entra in contrasto con l'amore gratuito allontana dal suo insegnamento, e adattare il messaggio ai propri comodi equivale a tradire Cristo in nome di Cristo.
Molto diversa è invece la cristianità. Ambigua e contraddittoria nelle sue varie articolazioni, per certi versi ha svolto un ruolo storico sociale che può anche avere riscontri apprezzabili, soprattutto in confronto ad altre realtà umane, religiose o civili. Ma per altri aspetti si è caratterizzata proprio nell'adattare Cristo ai propri comodi, contrabbandando come "cristiane" certe azioni incompatibili con l'insegnamento di Gesù, che tra l'altro diceva: «I capi delle nazioni dominano su di esse, e i grandi esercitano su di esse il potere. Non così dovrà essere tra voi; ma colui che vorrà diventare grande si farà vostro servo», una raccomandazione che, francamente, non sembra sia stata gran ché recepita dalle autorità istituzionali, che hanno invece scelto il modello imperiale, organizzandosi secondo uno schema gerarchico tipico di chi domina ed esercita il potere su popoli e persone. Un modello che divide irrimediabilmente gli esseri umani in buoni e cattivi (quelli che stanno dalla propria parte e gli avversari), concludendo, e non solo implicitamente, che i cattivi bisogna combatterli, punirli, scomunicarli, cacciarli via e (perché no?) ucciderli. Se il Cristomodello afferma che siamo tutti (ma proprio tutti) figli di Dio, tutti fratelli, tutti dalla stessa parte, sottolineando che se un fratello va fuori strada è naturale e spontaneo fare tutto quel che si può per ricuperarlo, senza mai stancarsi, il modello imperialista della cristianità si riferisce a un Dio patrigno e una società di fratellastri, immagine che favorisce quel regime basato su potere e sudditanza così gradito sia dai prepotenti che dai pavidi.
Sarebbe interessante tracciare una storia di questa duplicità della Chiesa, per evidenziare i momenti che hanno tenuto viva la fiaccola dell'amore di Cristo, e i momenti nei quali è prevalsa la logica di potere. Esistono numerosi saggi che documentano, con dovizie di particolari, gli scollamenti tra cristianità e messaggio originale di Gesù Cristo, ma quel che più interessa oggi è sottolinearne le conseguenze politiche.
Si può dire che gli interessi economico-sociali dell'istituzione ecclesiastica siano ben noti, cosa che può spiegare il perché di certe prudenze nei confronti dei potenti. E tuttavia, al presente, appare incredibile accorgersi che l'attuale Presidente del Consiglio, spacciandosi come vittima di complotti permanenti, sia riuscito a intimidire tutti, autorità ecclesiastiche comprese. Così se qualcuno, come ad esempio Famiglia Cristiana, si permette di denunciarne taluni comportamenti scorretti, qualche autorità si preoccupa subito di precisare che quella testata non rappresenta la voce della Chiesa. E se il direttore di Avvenire si permette di criticarlo, l'autorità ecclesiastica resta pressoché passiva di fronte alla virulenza di certi attacchi menzogneri della stampa filogovernativa, favorendone le dimissioni. E via di questo passo, fino ad arrivare al punto che di fronte alle bestemmie qualche autorità di primo piano, anziché insorgere, si alza a dire che vanno contestualizzate. Pur ricordando che a pensar male si fa peccato, è difficile allontanare il sospetto che certi benefici, fiscali o d'altro genere, abbiano il loro peso.
Del resto, è quello che la cristianità ha sempre fatto: contestualizzare le parole di Gesù per poterle deformare a uso e consumo di chi detiene il potere. Nel passato, più d'uno tra i suoi autorevoli esponenti ha preteso di contestualizzarne anche l'amore, ad esempio affermando che la Chiesa perseguita per amore, o che uccidere un malvagio non è omicidio, ma malicidio. E al presente non manca chi sponsorizza un sedicente partito dell'amore che utilizza questa parola al solo scopo di svalutarne il senso.
Forse l'istituzione ecclesiastica, radicata com'è nell'ambiguo contesto politico-sociale, non può seguire coerentemente il messaggio autentico di Gesù Cristo. Ma potrebbe almeno smetterla di sminuire le malefatte dei politici per inseguire nuovi privilegi e difendere quelli acquisiti. Potrebbe smetterla di contestualizzare i comportamenti scorretti dei potenti di turno, col risultato di fornire loro qualche sorta di giustificazione di fronte all'opinione pubblica.
Pubblicato su ADISTA n. 95 dell'11 dicembre 2010
Si può ancora sperare in un mondo migliore?
Potrei dire che tante cose mi stanno a cuore, ma poi, in sintesi, mi accorgo che tutte confluiscono in una sola: mi sta a cuore la speranza. Per questo, giunto alla soglia degli ottant’anni, mi sento inquieto, perché le drammatiche quotidiane tragedie, vicine e lontane, sembrano addirittura in espansione, e col passare del tempo la speranza di un mondo migliore tende a diminuire.
“Chi vede me vede il Padre”, diceva Gesù, annunciando che il Dio da lui rivelato si manifesta in particolari atteggiamenti e comportamenti umani, quelli che producono armonia, fraternità, pace. La frase vale per tutti, perché chiunque potrebbe dire: chi vede me vede il Dio (o non Dio) in cui credo, vede l’immagine di quel Dio che vive nel mio intimo e indirizza il mio agire. Ciascuno infatti riflette nella vita sociale, politica, religiosa i valori, o i disvalori, o le incertezze, o le confusioni presenti nella propria mente e nel proprio bagaglio culturale, e se oggi vediamo prosperare tanta violenza a tutti i livelli, è perché nelle menti umane permangono tante, troppe immagini di un Dio violento che non ha nulla a che fare con quello indicato da Cristo.
Per noi cristiani, la riflessione dovrebbe partire da un riesame spassionato delle ambiguità che ci definiscono, perché la stessa parola ‘cristiano’ è usata comunemente con due significati molto diversi e talvolta inconciliabili: l’uno si rifà al messaggio di Gesù, l’altro alla cosiddetta cristianità (cioè al cristianesimo reale così come si è strutturato nella storia). Le differenze si articolano su pluralità di vario tipo, ma tutte riconducibili a due modelli: l’uno, minoritario, prende sul serio che siamo tutti figli dello stesso Dio, tutti fratelli, tutti dalla stessa parte; con l’ovvia deduzione che se un fratello va fuori strada è spontaneo fare di tutto per ricuperarlo. L’altro modello, di gran lunga prevalente, afferma (talvolta inconsciamente) che ci sono i buoni e i cattivi, concludendo (anche solo implicitamente) che per stare dalla parte dei buoni è necessario combattere, punire, scomunicare, espellere, persino uccidere i cattivi. Il guaio è che entrambe le impostazioni rivendicano immagini scritturistiche e teologiche a sostegno, perché le Scritture possono essere lette con criteri diversi, e sovente strumentali. Confesso di non capire come le immagini che si rifanno a un Dio violento possano trovare cittadinanza in ambiente cristiano. Forse perché, mi dico, un Dio patrigno e una società di fratellastri favorisce quel regime basato su potere e sudditanza, religioso o civile, così gradito sia dai prepotenti che dai pavidi.
Dato che non potrei mai abbandonare la speranza, mi sta particolarmente a cuore cercare di riscoprire l’essenza dell’immagine divina annunciata da Gesù Cristo, e nel mio piccolo cerco di farlo, per quel che posso, tentando anche di coinvolgere altri, anche se con scarso successo. Non saprei dire se esista ancora la speranza di un mondo migliore, ma credo che (per noi cristiani) l’unica possibilità concreta parta da un onesto riesame della nostra fede, senza arroccamenti dietro bastioni difensivi che servono solo a dividere ancor più la società umana in buoni e cattivi.
L’immagine divina è il punto chiave per un rinnovamento mentale, spirituale, politico, sociale, capace di rendere migliore il nostro mondo. Finché lasciamo imperare nell’inconscio collettivo il Dio che divide, come potrebbe esistere una speranza che non sia illusione?
Pubblicato su ADISTA n. 78 - 16 Ottobre 2010
MEGLIO ATEI DEVOTI CHE LIBERI CREDENTI?
Si può dire che da sempre esistono due cristianesimi: quello ideale conforme a quanto insegnato da Gesù, e quello espresso dai cristiani nel contesto della storia occidentale. L’uso della stessa parola per indicare due realtà così diverse è fonte di grandi ambiguità, in particolare quando si sente parlare d’identità cristiana dell’Europa.
Al cristianesimo secondo Gesù appartengono le beatitudini, il perdono, l’amore disinteressato (perfino per i nemici), il porgere l’altra guancia, l’ammonizione (assai difficile da capire) che siamo tutti ma proprio tutti fratelli. Invece il cristianesimo reale si è distinto nella storia per le conversioni forzate, le crociate, l’inquisizione, i ghetti e i pogrom contro gli ebrei, lo sterminio degli indios, lo schiavismo, il capitalismo liberale, lo sfruttamento selvaggio del pianeta.
Se Costantino e Teodosio hanno cominciato imponendo la religione di stato, Carlo Magno ha poi cristianizzato l’intera Europa costringendo talune popolazioni alla conversione forzata, fino a far materialmente tagliare migliaia e migliaia di teste a chi rifiutava. Quanto ai disastri delle crociate sono noti a tutti, tanto più che le tragiche conseguenze continuano a incidere assai negativamente perfino sulla politica odierna. Inquisizione, persecuzioni degli ebrei, sterminio dei nativi d’oltre oceano, schiavismo, sono vergogne che nessuno osa negare.
La storia si è sempre trovata a fare i conti con tremende difficoltà dovute alla congenita conflittualità umana, è vero; e obiettivamente bisogna riconoscere che nel cammino del cristianesimo non sono mancati elementi edificanti, oltre a persone di grande spessore che hanno testimoniato i valori di Cristo pagando sovente con la propria vita.
Le valutazioni storico critiche sono molto diverse. Qualcuno dice che il cristianesimo reale è un clamoroso tradimento di Cristo, altri preferiscono sottolineare gli elementi positivi pensando che siano sufficienti a riscattare le ombre; e tuttavia anche i più tradizionalisti, coloro che si sentono strettamente legati alla Chiesa e al suo Magistero, hanno sempre riconosciuto che nel cristianesimo reale ci sono tante, troppe vergogne, che al massimo possono essere sopportare con molta sofferenza, e non certo da esaltare. Da sempre, si potrebbe dire, si è auspicato un rinnovamento per ricuperare maggior fedeltà all’insegnamento di Gesù, e nel suo insieme il Concilio Vaticano II può essere inteso come espressione emblematica di tale auspicio.
Da qualche tempo, invece, le cose sono cambiate e, da quando neocons e atei devoti hanno fatto comunella, la valorizzazione del cristianesimo reale tende a prevalere anche di principio su quanto indicato da quell’utopista di Gesù. Il recente libro del senatore Pera: Perché dobbiamo dirci cristiani, va in questa direzione. A Pera importa poco di Gesù Cristo e della fede cristiana per sua dichiarazione esplicita, mentre interessa il cristianesimo sociologico, da utilizzare per fini politici, auspicando per l’Europa un’identità cristiana intesa come baluardo difensivo contro i non europei.
Francamente appare curioso proporre il cristianesimo come collante europeo quando nel secolo appena trascorso abbiamo assistito allo scannarsi a ripetizione tra cristiani tedeschi e austriaci da un lato e cristiani polacchi, francesi, britannici dall’altro, con i cristiani italiani che, per non far torto a nessuno, hanno partecipato alle carneficine ora contro gli uni, ora contro gli altri. Comunque sia, oggi non pochi sostengono la tesi del senatore Pera, che la esprime, bisogna riconoscere, con argomentazioni interessanti e molto ben elaborate. Ma è fuori dubbio che aderirvi significa scegliere, tra i due cristianesimi, quello reale, quello storico, proclamarlo vincente, e quindi abbandonare o relegare in secondo piano il modello Gesù.
Non stupisce che gli atei devoti cerchino l’alleanza della Chiesa a fini politici, cosa che hanno sempre fatto nelle più svariate forme per consolidare il potere. Quel che invece lascia sorpresi è che il Papa intervenga a sostegno con una lettera di approvazione entusiastica, firmata non dalla persona Ratzinger, ma come Papa Benedetto XVI, cioè in nome dell’Istituzione.
Che dire? Le stranezze non finiscono mai di stupire.
pubblicato da ADISTA 17 gennaio 2009
La nuova umanità secondo Guzzi
Marco Guzzi, poeta e saggista, è un autore singolare. Analizza lucidamente la drammaticità degli eventi quotidiani che si abbattono sul nostro pianeta, ma invece di lasciarsi scoraggiare, come fanno tutti (o quasi), riesce a trarne motivi di fiducia e di speranza. Il suo ultimo lavoro, appena pubblicato, comincia con queste parole: «La tesi che vorrei sostenere in questo libro è che il nostro sia un tempo straordinariamente propizio, nonostante tutte le apparenze contrarie. Vorrei mostrare come una nuova figura di umanità, più libera e più matura, stia faticosamente emergendo sul nostro pianeta, proprio attraverso i conflitti e le contraddizioni estreme». (Marco Guzzi: La nuova umanità. Un progetto politico e spirituale, Ed. Paoline, 2005).
Le perplessità non mancano: secondo molti profeti di sventura, ma anche persone ragionevoli e moderate, l’attuale deriva verso il peggio non promette nulla di positivo. Anzi, rischia di farci ripiombare in un nuovo medioevo nel senso peggiore del termine. Violenze e terrorismo vengono ormai percepiti come fatti (quasi) normali della vita quotidiana, e le più comuni iniziative per contrastarli non sanno far altro che riproporre schieramenti e repressioni, secondo un tipo di umanità tutt’altro che «più libera e più matura», come ipotizza Guzzi. E tuttavia, al di là dei flussi e riflussi contingenti, egli insiste nel dire che taluni segni fanno sperare in una nuova umanità. Questi segni li vede emergere dallo sviluppo culturale del XX secolo, come la crisi del dogmatismo scientistico, il crollo delle ideologie materialistico-storiche, lo sviluppo della coscienza democratica, la sofferenza crescente per l’alienazione urbana. E inoltre, particolari motivi di speranza trae dall’emancipazione progressiva della donna, oltre che da altre molteplici istanze, come l’anelito a una migliore autenticità relazionale, al dialogo, alla pace, a una maggior attenzione all’ambiente, e a una crescente ricerca della dimensione spirituale. E pensa che il problema culturale all’ordine del giorno sia quello di aggregare tutti questi spunti nascenti, per renderli visibili.
Se «le culture della modernità vivono una sorta di crisi terminale» che «accelera ogni giorno la sua trivella», è anche vero che «ogni crisi ci spinge all’espansione del nostro essere, e quindi ad arrischiarci oltre le nostre possibilità, oltre noi stessi». Perciò quel che appare più urgente oggi è una «inedita creatività culturale» per comprendere quali siano i lineamenti di questa nuova umanità che sta emergendo, e per favorirne l’emersione.
Tutte le tradizioni religiose del pianeta sono travagliate e costrette a vertiginose trasformazioni, sottolinea Guzzi, e l’insorgenza di riflussi fondamentalistici è solo il segnale di un’angosciante reazione isterica di fronte alla fine del proprio mondo. Ma anche la cultura laica vive una crisi di identità e di fondazione teorica senza vie di uscita, e quindi va ripensata in un contesto inedito, qual è quello del multiculturalismo in cui viviamo. In occidente «si vanno relativizzando fino quasi a sfumare i netti confini tra credenti e non credenti», perché «il vero scontro che si sta consumando non è tra culture e civiltà tradizionali (ad esempio Islam e Cristianesimo), ma tra questa figurazione inedita di umanità e tutti i riflussi fondamentalistici (religiosi ma anche laicistici), favoriti dalle derive nichilistiche di tipo tecnico-mercantile. Oggi, «di fronte all’impazzimento di una storia lasciata al proliferare di tecnologie prodotte secondo la logica del mercato, il livello psicologico-spirituale e quello storico-politico sono chiamati ad integrarsi in modo inedito, in una forma di laicità realmente post-moderna».
Anche se nel tempo presente ci sono dei veri e propri tentativi di restaurazione, certe deliberazioni conciliari (l’apertura verso l’ecumenismo, che sia pure sovente frenato e disatteso è stato ormai proclamato in modi e forme che non potranno mai più essere cancellate) e alcuni gesti papali (preghiere comuni con altre religioni, proclamazione dei mea culpa, visite alla chiesa evangelica, alla sinagoga, al muro del pianto, etc.), sono tutti fatti che fino a mezzo secolo fa erano addirittura impensabili, ma che oggi sono diventati irreversibili. E tenendo conto che lo sviluppo verso una chiesa più conforme a Cristo non è lineare, ma si svolge anch’esso inevitabilmente attraverso flussi e riflussi, Guzzi legge i tentativi di restaurazione non come qualcosa di preoccupante, ma come semplici momenti passeggeri di un cammino verso «la conversione del cristianesimo alla propria verità», che considera ormai inarrestabile.
Il libro non manca di indicazioni pratiche rivolte a ciascuno su come «educarsi all’avventura autotrasformativa» (da anni Guzzi conduce corsi di autotrasformazione presso l’Università Salesiana di Roma), e a tale scopo suggerisce al lettore «una lettura lenta e creativa, ruminante, co-pensante». L’indicazione operativa è di costruire «laboratori per la nuova umanità», non per formare dei «professionisti», così apprezzati secondo gli schemi d’efficienza cari alla mentalità consumistica, ma per valorizzare lo spirito da «inesperti», senza abbandonarsi «al pressappochismo e all’improvvisazione» ma conservando lo sguardo da «principiante dell’era nuova».
Una sfida, insomma, un atto di fede che probabilmente solleva più perplessità che facili adesioni. Verrebbe spontaneo pensare che forse, da buon poeta, Guzzi sia un sognatore idealista, amante dell’utopia. Eppure, per quanto la pesante atmosfera odierna sia intrisa di pessimismo, chiunque crede e spera in un Cristo libero da sovrastrutture clericali e autoritaristiche non può che augurarsi di cuore che abbia ragione.
Pubblicato da Koinonia gennaio 2006
Tra documenti e speranze
L’esigenza di un radicale mutamento d’impostazione, nelle strutture ecclesiastiche, si avverte sempre più forte a tutti i livelli. Sull’argomento, è di grande interesse un coraggioso documento scritto dal vescovo Luigi Moretti, responsabile della pastorale familiare del vicariato di Roma, che già nel titolo è molto significativo: La Parrocchia del Futuro: Una Famiglia di Famiglie. (Vicariato di Roma, Centro per la Pastorale Familiare, La Parrocchia del Futuro: Una Famiglia di Famiglie, Contributi alla Relazione Annuale di S.E. Mons. Luigi Moretti, Anno 2002-2003).
Partendo dalla Familiaris Consortio, che descrive la comunità ecclesiale come «grande famiglia formata da famiglie cristiane» (pag. 6), il documento sottolinea che «la famiglia non è fatta per essere mononucleare: l’isolamento la uccide... nessuna famiglia è un’isola... La famiglia è costituzionalmente fatta per essere clan, gruppo di famiglie solidali» (7), e afferma che «tante situazioni in tante giovani famiglie precipitano proprio perché le coppie sono lasciate assolutamente sole a gestire quotidianamente situazioni pesantissime» (21) Poi indica «tra le nuove opportunità... il superamento del clericalismo e la presa di coscienza del ruolo dei laici nella Chiesa non come individui ma come sposi» e «la costituzione di gruppi di famiglie solidali» (25).
Aggiunge, inoltre: «nella misura in cui quest’azione di coscientizzazione avrà successo, ciò cambierà il volto della comunità ecclesiale, la parrocchia innanzi tutto, facendone ciò che per essenza dovrebbe essere: una famiglia di famiglie» (7), con «la famiglia come centro della nuova evangelizzazione... animatrice e costruttrice di comunità di famiglie» (11). «La chiave di volta... consiste nel... aiutare le famiglie ad aiutarsi reciprocamente» (7), perciò «i presbiteri e gli sposi.... divengano complementari» (11) considerando la «complementarità dei due sacramenti dell’ordine e del matrimonio» (12), «due sacramenti della maturità... finalizzati alla costruzione e al servizio della comunità» (11). Insomma, «né gli sposi da soli né i sacerdoti da soli... solo insieme questa costruzione può essere realizzata» (15).
Anche se è ben noto che le stesse parole vengono sovente intese in maniere differenti, a devono quindi essere messe alla prova nella loro applicazione pratica, mi pare fuori dubbio che il documento sia proiettato verso il futuro in modo innovativo spiegandone motivi e necessità: «se le cose continuassero in questo modo non c’è da stare molto allegri per il futuro, e le prospettive per le nostre parrocchie non sarebbero esaltanti... ciò che uccide e toglie le forze... non è il dover lavorare, ma il lavorare senza prospettive, senza un futuro che non sia la stanca e sempre più illanguidita conservazione dell’esistente» (17), «in Italia siamo al di sotto del 20% nella frequenza domenicale, sul 90% di battezzati, con alcuni luoghi, ad esempio della Toscana, dove la pratica scende anche al di sotto del 5%» (23). Costatando «il diffondersi di una nuova pratica religiosa fai-da-te» (23), il documento si chiede «dove si trova la ragione culturale profonda di questo impressionante fenomeno di scadimento dell’appartenenza religiosa istituzionale, a fronte di una crescita altrettanto massiva della domanda religiosa privata nella società postmoderna?» (25). Poi risponde: «la ragione essenziale si ha nel fenomeno tipico della modernità del dissolvimento della distinzione sociologica fra chierici (letteralmente coloro che hanno in sorte il potere perché hanno studiato) e laici (letteralmente gli appartenenti al popolo suddito e analfabeta)... Una delle fondamentali ragioni del dramma del non incontro tra domanda religiosa e offerta religiosa da parte delle religioni istituzionali è nel fatto che tutta l’impostazione dell’offerta religiosa tradizionale... è fondata su una distinzione chierici–laici che nella società di oggi è stata completamente ribaltata... occorre declericalizzare l’offerta religiosa. Ritagliarla cioè sulle reali esigenze delle persone e delle famiglie... il futuro anche immediato sarà solo di quelle istituzioni che saranno capaci di aggiornare nel senso di una complementarità autentica tra fedeli e sacerdoti» con un «ruolo dei fedeli.... del tutto complementare ma non minore a quello dei sacerdoti» (27).
E prosegue: «non può esistere evangelizzazione affidata alle sole parole.... invece noi ancora pretendiamo che le famiglie ascoltino la nostra evangelizzazione fatta solo di parole, di catechesi verbale» (28). «Ora, nel terzo millennio, assistiamo al declino dei religiosi, soprattutto numerico... e già sappiamo a chi cederanno il testimone dell’evangelizzazione: alle famiglie... per la prima volta nella storia, infatti, sono esse, le famiglie, anche il soggetto principale dell’azione evangelizzatrice della Chiesa.» (29/30). Aggiungendo che «non è cambiamento culturale da poco, passare dall’idea della chiesa-istituzione clericale che fornisce certi servizi alle famiglie, all’idea che siano le famiglie cristiane stesse, organizzandosi, a fornirsi reciprocamente certi servizi» (45), esprime la convinzione che «se è tutta la mentalità ecclesiale, a cominciare dai vescovi e dai parroci, a spingere in questa direzione, può fare il miracolo» (46).
Insistendo sul fatto che «in ogni caso è indispensabile far entrare la formazione alla condivisione e alla comunione interfamiliare come una delle componenti fondamentali alla formazione cristiana al matrimonio. Educare le giovani famiglie non solo a essere insieme al loro interno, ma anche a stare insieme fra di loro, aiutandosi, sostenendosi, è dimensione fondamentale del matrimonio cristiano» (48), il documento conclude con le parole della Familiaris Consortio: «Bisogna che le famiglie del nostro tempo riprendano quota! Bisogna che seguano Cristo!» (53).
Bisogna innanzi tutto riconoscere al vescovo Moretti di essersi espresso con grande coraggio. Il documento, nella sua esposizione teorica, a noi sposi cristiani appare indubbiamente come eccellente proiezione verso il futuro. Ma come impedire dubbi e perplessità sulle concrete possibilità di applicazione? Per giungere a «una complementarità autentica tra fedeli e sacerdoti» anche la teologia, soprattutto quella matrimoniale, dovrebbe essere riesaminata, ripensata, riformulata insieme, in un intreccio paritetico tra chi ha il carisma dell’ordine e chi, essendo ministro del matrimonio, può mettere alla prova concretamente, nella vita vissuta, «le ispirazioni, per saggiare se provengono veramente da Dio» (Cfr. 1Gv 4,1). Ma possiamo sperare che l’autorità ecclesiastica sia disponibile a rimettersi in discussione? Perché altrimenti, se si inviteranno le famiglie alla presa di coscienza del loro nuovo ruolo, intendendo però che sui punti di riferimento fondamentali la parola spetterà solo e soltanto ai chierici, come nel passato, allora l’utilità di qualsiasi documento sarà pari a zero.
Pubblicato da Koinonia, Febbraio 2003
Quando i buoni si convertiranno?
Col passare del tempo mi convinco sempre più che se a questo mondo ci fosse solo il male prodotto dai cattivi, le cose andrebbero molto meglio. Credo invece che sia la cosiddetta cattiveria dei buoni a rendere tragica la realtà: il male fatto a fin di bene finisce sovente per innescare processi diabolici.
Ma chi sono i buoni? Sono quelli che organizzano e governano la società, fanno le leggi, tracciano le regole di comportamento e ne definiscono i limiti. Poi stabiliscono che cosa bisogna fare ai cattivi che non li rispettano. Strutture sociali e religione dei buoni si basano su ordine, gerarchia, obbedienza, sottomissione alla legge e a chi la rappresenta. Tutti legami facili da infrangere, ma niente paura: si può sempre ricuperare con qualche forma di purificazione, che serva da riconoscimento e conferma delle regole da rispettare. Si può dire che il governo del mondo sia sempre stato nelle mani dei buoni, e sono i buoni ad aver anche inventato la Chiesa monolite, quella che vede il dissenso come un nemico.
Per capire meglio, ci si può chiedere qual è la sindrome dei buoni: a me sembra che l’aspetto patologico sta nel sentirsi dalla parte giusta. Quel che dice di se stesso il fariseo nel Tempio è presumibilmente vero: non ruba, paga le tasse, rispetta le regole. E trova corretto concludere, dal suo punto di vista, che per lui va bene restare così, che sono gli altri a dover cambiare. Ma Gesù svela l’inganno indicando un’altra strada, perché su quella è inevitabile esasperare la propria identità per promuovere aggregazione, formare schieramento con quelli che vi si riconoscono, distinguersi dai diversi (dai meno buoni o dai cattivi), sentirsi dalla parte giusta, guardare gli altri con disprezzo. Fermo questo ammonimento, appare ancor più strano il tentativo di definire l’identità cristiana secondo certi documenti magisteriali, anche recenti. A prendere sul serio l’immagine del sale della terra, come non tener conto che la sua identità è sciogliersi nel cibo per renderlo saporito? Appare chiaro che tanto più si vuole definire e difendere la propria parte, tanto più si tende a diventare spietati verso gli altri. Non si può tollerare che qualcuno metta in discussione un quadro ben identificato: per questo secondo i buoni andare d’accordo equivale a uniformità, senza tolleranza verso il dissenso, salvo che resti confinato nel privato.
Tali principi dei buoni potrebbero non essere negativi di per sé, ma è la rigidità con cui vengono difesi a creare conseguenze nefaste. Una rigidità che rischia di creare contraddizioni insuperabili. Per paradosso, se esistessero solo il vero e il falso la realtà sarebbe assai più semplice, perché a suo modo il falso è autentico quanto il vero. L’inganno viene dal verosimile, che mischiato ad altro qualcosa di vero finisce per confondere le capacità di comprensione.
Tutte le impostazioni assolutistiche, più o meno radicali, si basano su qualcosa di vero, ma sovente finiscono per imporre ben altro. Nella storia e nella cronaca abbondano movimenti e organizzazioni, politiche o religiose, invischiate in tali problematiche. Ad esempio, Escrivà de Balaguer predicava la santità nella vita quotidiana, cosa indubbiamente ottima. A tale scopo ha fondato l’Opus Dei, che pur nel suo alone di mistero è nota per le grandi capacità organizzative e imprenditoriali. Ma l’identità rigorosa che contraddistingue i suoi componenti non consente deroghe, neppure di principio. Scriveva infatti Escrivà già negli anni trenta che "nel lavoro apostolico non si deve perdonare la disobbedienza" (Cammino n. 952). È curioso notare che il “lavoro apostolico” dovrebbe rifarsi all’annuncio dell’insegnamento di Cristo, il quale è basato irrinunciabilmente sul perdono. Sarebbe quindi come dire che sulla via del perdono, non si deve perdonare qualcuno o qualche cosa. A me sembrerebbe chiaro che il rigore nell’impegnarsi “a fin di bene” può far travalicare le intenzioni di partenza, perché radicalizzare un cammino, anche se positivo, prima o poi conduce inevitabilmente a diventare spietati con chi si muove su coordinate diverse (contraddicendo il proprio cammino).
I buoni sono abilissimi, spesso in perfetta buona fede, a interpretare le indicazioni secondo i propri comodi. Bastino due esempi. Il primo riferito al quinto comandamento: non uccidere. Sembrerebbe un’affermazione talmente secca e drastica da non consentire manipolazioni di sorta. E invece ecco che cosa dice il Catechismo della Chiesa Cattolica: "La Scrittura precisa la proibizione del quinto comandamento: non far morire l’innocente e il giusto" (CCC 2261). Naturalmente spetta ai governanti, ai buoni di turno, identificare chi è innocente e giusto, e di fatti nessuno è mai stato condannato legalmente a morte se non dopo essere stato dichiarato colpevole.
Come secondo esempio, mi sembra interessante citare il commento alla parabola della zizzania fatto da San Roberto Bellarmino: "Mentre il Signore proibisce di distruggere i cattivi, non proibisce che l’uno o l’altro vengano uccisi, ma ordina che i buoni non cerchino di distruggere tutti i cattivi dovunque... Così è la parabola generale, e così insegna che non avverrà mai prima della consumazione dei tempi, che tutti i cattivi vengano debellati" (Roberto Bellarmino, De controversiis christianae fidei (1596) lib. III c. 21). Entrambe le interpretazioni dimostrano come sia possibile aggiustarsi le cose.
D’altra parte i buoni hanno bisogno di schematizzare i comportamenti, altrimenti dovrebbero interrogarsi continuamente su come affrontare la complessa realtà umana e sociale. E questo è faticoso e inquietante. Eppure Gesù ha spiegato che "il figlio dell’uomo (cioè l’uomo pienamente consapevole) non ha dove posare il capo". Ma la presa di coscienza richiede un’autentica disponibilità a rimettersi in discussione, e la tentazione di esorcizzare l’insicurezza è sempre in agguato. Meglio ribadire che i buoni siamo noi, e che siamo autorizzati a pensare che vada bene così. Non è forse vero? Che cosa facciamo di male? Ovvio che i cattivi siano gli altri, quelli che sono diversi, quelli che vanno fuori dalle regole.
La giustizia dei buoni si esprime prevalentemente contro qualcuno. Chi va fuori dalle regole è cattivo e bisogna combatterlo. Ed è giusto punirlo: se lo merita. Quanto a noi, possiamo restare come siamo, soddisfatti del risultato: se stiamo dalla parte giusta, allora dobbiamo essere spietati, sia pure dolorosamente, con chi tende ad inquinare la nostra realtà. Un trionfalismo particolarmente adatto a creare solidarietà, ma di quale tipo? Per difendersi dai diversi, i buoni sono prontissimi ad aiutarsi fra loro, ma secondo forme di solidarietà che talvolta non sembrano differire molto da quelle efficacissime di stampo mafioso.
"Chi vede me vede il Padre": credo che valga per tutti, perché di fatto ciascuno rispecchia il Dio in cui crede (o non crede). Ma anche gli aspetti diabolici nei quali resta invischiato. Questa è la chiave di volta: quali sono per ciascuno i punti di riferimento?
Un’antica leggenda narra che quando Dio decise di creare il mondo, Lucifero si ribellò, ma non secondo l’opinione comune che tende ad attribuirgli l’intenzione di fare del male, in contrapposizione del bene operato da Dio. Al contrario, la leggenda dice che si è ribellato dicendogli: "Non lo creare perché sarà un disastro, pieno di eventi negativi che procureranno tremende sofferenze. Io voglio che tu e tutto quel che esiste resti radicalmente puro come adesso". Ma dato che Dio non ha voluto rinunciare al suo progetto, allora Lucifero gli ha detto: "D’ora in poi, io lavorerò per distruggere quel che creerai, per ripristinare la purezza iniziale". In altre parole, il diavolo non sarebbe un cattivo dichiarato, ma un buono radicale, intransigente contro tutti e contro tutto. Dio invece avrebbe scelto il ruolo di un genitore tollerante, disposto a sopportare tutte le vicissitudini che i figli combinano, pur di accompagnarsi con loro lungo il cammino della vita. (Un’immagine di questo tipo traspare anche dal Genesi (8,21) «Non maledirò più il suolo a causa dell’uomo, perché l’istinto del cuore umano è incline al male fin dalla adolescenza; né colpirò più ogni essere vivente»). Un buono moderato e tollerante, insomma, come qualsiasi genitore che ponendosi al servizio dei suoi figli non può che dir loro: siate buoni se potete (come usava dire San Filippo Neri). Al contrario, il diavolo pretenderebbe che tutto debba andare rigorosamente bene, innescando processi che conducono a risultati disastrosi.
Il buono radicale non ha mai intenzione di fare del male, ma vorrebbe imporre un bene senza sconti. Per questo motivo finisce per creare delle strutture diaboliche tali da costringere, come conseguenza, a fare comunque del male. Come giustificazione, invoca la necessità di governare: bisogna pur reprimere il male, ripete, altrimenti dove si andrebbe a finire! E così nasce un tragico equivoco, un luogo comune che volentieri i buoni danno per scontato: quello di credere che combattere il male sia sinonimo di fare del bene. Ma il bene non si può imporre, e la violenza, come qualsiasi arma del male, produce sempre altro male. Può darsi che talvolta sia inevitabile usar violenza, ma appunto perché ci si trova imprigionati in qualche struttura diabolica. Guai però a credere che in certi casi possa essere considerata un bene.
Prendiamo ad esempio il governo israeliano: di fronte agli atti terroristici palestinesi, lasciar fare sarebbe mostruoso; intervenire con la repressione, altrettanto mostruoso. Quali altre vie concrete ci sono? In realtà l’intreccio israelo–palestinese è una complessa e consolidata struttura diabolica dalla quale è difficilissimo uscire. La speranza che prima o poi si riesca a imboccare un itinerario costruttivo non può abbandonarci, e tuttavia, realisticamente, le probabilità di evadere da questa prigione non sembrano molte. Lo stesso dilemma diabolico vale per tutti i governanti, in proporzione al potere effettivo di ciascuno, e in particolare per il Presidente degli Stati Uniti, che se è considerato l’uomo più potente del mondo, a guardar bene talvolta sembra il più impotente, il più disgraziato, costretto com’è, dall’intreccio delle diaboliche strutture che deve governare, a prendere decisioni che produrranno inevitabilmente altro male (speriamo non sempre, almeno). Nessun buono parte mai con l’intenzione di fare del male, ma la cosa più tragica è che sovente, sentendovisi costretto, per esorcizzare dubbi e inquietudini finisce per chiamare bene quel che non può fare a meno di fare, al punto talvolta da crogiolarsi nel trionfalismo: esultiamo, i cattivi sono stati schiacciati.
Gesù non è stato benevolo con i buoni: "I peccatori (cioè i cattivi, i diversi, gli altri) vi passeranno avanti" . Facile la tentazione di credere che lo diceva ai buoni di allora e non a quelli di tutti i tempi. Ma in altra occasione il Vangelo è ancor più esplicito: "Credete che quei diciotto, sopra i quali rovinò la torre di Sìloe e li uccise, fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? No, vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo". Erano buoni o cattivi quei diciotto? Non avrebbe alcun senso chiederselo: secondo Cristo è indispensabile uscire da tale ottica, perché noi e gli altri stiamo tutti comunque dalla stessa parte, quella dei figli di Dio. E in ciascuno, anche nel migliore, anche nel peggiore, coesistono un po’ di bene e un po’ di male.
La religione dell’obbedienza e della sottomissione, monolitica e spietata, è quella dei governanti, dei potenti, dei giusti, dei buoni. Quella di Gesù, invece, invita semplicemente a somigliargli, a fare come lui: "Amatevi gli uni gli altri come io vi ho amato". Nell’ottica dell’una, andare d’accordo significa uniformità e rinuncia al dissenso. Secondo Cristo invece significa confrontarsi, dissentire, e magari litigare, ma tenendosi per mano. Perché la natura umana non può prescindere da divergenze, contrasti, scontri; e tuttavia discutendo e tenendosi per mano prima o poi emergerà qualche posizione accettabile. In fondo, è quanto accade nelle famiglie in buona salute, dove fratelli e sorelle imparano a trattarsi con tolleranza (che non significa acquiescenza), e i genitori sanno sovente accontentarsi del meno peggio, riuscendo con l’esempio e il perdono a trasformare il male in bene.
Ponendosi dalla parte dei buoni, quando un cattivo va fuori strada viene istintivo intimargli: devi convertirti. Ma se quel “cattivo” è mio figlio, mio fratello, un amico a cui voglio veramente bene, che cosa faccio? Comincio a convertirmi io per andare da lui. Capisco che solo così, forse, riusciremo a convertirci insieme. Insomma, da un lato l’immagine di un Dio onnipotente che la farà pagare a chi sgarra (e che invita i potenti di turno ad anticipare i tempi in suo nome) propone la conversione dei cattivi; al contrario quella di un Dio della disponibilità, del perdono, dello “state buoni se potete”, chiede la conversione dei buoni. Mi viene il sospetto che questa sia l’unica speranza di trovare un’armonia d’insieme capace di condurre i cuori dallo schieramento all’accoglienza. L’unica speranza di dare finalmente inizio a una qualche forma di pacificazione. Altrimenti l’ammonizione evangelica apparirà oggi straordinariamente attuale: crediamo forse che quelle migliaia sopra i quali rovinarono le torri gemelle e li uccisero fossero più colpevoli di tutti noi? No, ma se noi buoni non ci convertiremo periremo tutti allo stesso modo.
Che cosa si potrebbe fare, in concreto? La Chiesa ha questo patrimonio costruttivo nel suo bagaglio, solo che viene disatteso, sepolto com’è dalla diabolica preoccupazione d’identificare quel che distingue i cristiani (e ancor più i cattolici) dagli altri. Una Chiesa delle coscienze si costruisce anche sui contrasti, oltre che sull’armonia. Ad esempio, una cattedrale gotica si regge sulla spinta degli archi a contrasto, mentre se le arcate fossero tutte uniformi la cattedrale non starebbe in piedi. Ma se è in quest’armonia di contrasti che si reggono le costruzioni più ardite, perché mai aver paura del dissenso?
Credo che la Chiesa delle coscienze dovrebbe rifarsi al modello familiare, che è Chiesa domestica, come dice il Concilio, e ne incarna quindi la sua caratteristica più intima. Pur nella crisi odierna, la famiglia resta il più tipico ambiente del possibile, dove è indispensabile affinare l’arte di arrangiarsi: luogo ideale per cercare e accontentarsi di quel meno peggio che alla lunga può rivelarsi quanto di meglio possibile. La tolleranza indispensabile per costruire una famiglia equilibrata insegna a riconoscere i valori reali. In famiglia nessuno può permettersi di essere radicalmente buono, altrimenti l’insieme non regge e la famiglia cessa di essere tale.
Mi domando che cosa accadrebbe se avessimo il coraggio di ripartire dall’amore coniugale. La coppia che giunge a un’armonia di contrasti riesce a incidere al meglio su tutta la famiglia, e quindi sulla società intera. Come testimonianza personale, posso dire che fino a un certo punto mia moglie e io eravamo sempre pronti a chiedere all’altro di cambiare, di convertirsi. Per ciascuno dei due, si trattava del tentativo di affermare la propria identità, difendere le proprie ragioni, considerarsi migliore dell’altro. Poi siamo diventati un po’ meno buoni tutti e due, e finalmente ci siamo incontrati. Come risultato, eccoci nuovamente innamorati, ma in modo assai più divertente d’un tempo.
La Chiesa è una grande famiglia, istituita da Cristo come modello dell’ancor più grande famiglia umana, quella dei figli di Dio (tutti, che lo sappiano o non). E i matrimoni che funzionano sono la maggior spinta verso una conversione dei buoni che, uscendo dall’ottica astratta delle utopie, sappia costruire una società del possibile e dell’accettabile. Una società dove l’educazione all’accontentarsi potrebbe promuovere quella pace relativa e quella libertà condizionata che non sarebbero l’ideale, ma consentirebbero di ripartire equamente i pesi, in modo che ciascuno possa caricarsene sulle spalle una porzione ragionevole, senza più costringere altri a doverne sopportare troppi.
Pubblicato da Koinonia dicembre 2002
L'ÉGLISE C'EST MOI? UN AFFETTUOSO DISSENSO
Il Papa striglia i vescovi austriaci perché affrontano i problemi ecclesiali con metodi troppo democratici, e ribadisce che la Chiesa è di natura divina, e non una struttura terrena. Ma se questo è vero, è per andare oltre le miserie umane, e non per promuovere forme di autoritarismo che la sensibilità sociale odierna ha ormai rifiutato. Da molto tempo, ma con accanimento crescente, è sotto accusa il dissenso, più volte dichiarato contrario alla comunione ecclesiale. Resta da chiarire se comunione significa pensarla tutti allo stesso modo, o camminare insieme anche quando vi sono divergenze d’opinione. In realtà, le esperienze di vera comunione dimostrano che andare d’accordo significa anche litigare di più, perché la fiducia reciproca invita a dirsi chiaramente in faccia quello che altri tacciono ipocritamente pro bono pacis. E tuttavia è un tipo di conflitto che unisce, proprio perché fatto in comunione, nella piena fiducia che il fratello dissenziente non è un cattivo soggetto, ma semplicemente un aspetto diverso del pluriforme mistero umano. Al contrario, il coro uniforme al servizio del capo è proprio caratteristica tipica di certe umanissime strutture dittatoriali.
A suo tempo, all’affermazione luterana della sola scrittura, il cattolicesimo ha opposto la triplice: scrittura, tradizione, magistero, che poi, di fatto, è diventata solo magistero, dal momento che rivendica a sé in esclusiva il diritto d’interpretare scrittura e tradizione. Ma ora siamo andati oltre. Ogni forma di dissenso è ormai negata non solo a laici, teologi, singoli vescovi, ma anche alle conferenze episcopali, praticamente costrette dalla recente Apostolos suos a non poter più pubblicare documenti magisteriali, se non con l’approvazione del Papa. L’intenzione è certamente quella di promuovere il bene della Chiesa, ma intanto si sta consolidando l’immagine di un Papa assolutista. L’Église c’est moi, sembra voler affermare con sempre maggior vigore.
Un grande Papa, sia chiaro, capace di gesti entusiasmanti. Chi avrebbe potuto immaginare, fino a pochi anni or sono, un Papa che prega sulla tomba di martiri protestanti uccisi da cattolici, che chiede perdono per l’Inquisizione, che ha il coraggio di proclamare: “io, Papa della Chiesa di Roma, a nome di tutti i cattolici, chiedo perdono dei torti inflitti ai non cattolici nel corso della storia”? Non si può che amarlo, per queste sua coraggiose aperture ad extra. Al contrario però, ad intra, il pugno di ferro rischia di portarlo sempre più verso uno splendido isolamento, proprio come è accaduto a certi famosi capi di stato del passato, che s’illudevano di avere un seguito compatto solo perché nessuno osava più esprimersi fuori dal coro.
Il dissenso, se riprovato e respinto, finisce per diventare aspro e forse talvolta anche cattivo. Quando invece viene accolto e rispettato, può rivelarsi pungente, com’è sua funzione, ma ha tutto l’interesse ad essere benevolo e affettuoso, per contribuire alla costruzione comune. Talvolta il dissenso viene riprovato con sottile disprezzo e con la subdola insinuazione che mascheri interessi personali, più o meno meschini. Ma ben diverso è il problema. Porsi fuori dal coro, per un cristiano impegnato, significa automaticamente trovarsi in posizione scomoda, che può essere sopportata soltanto con un grande amore per la Chiesa, nella preoccupazione di mantenerne vivi anche quegli aspetti che sovente le posizioni ufficiali vorrebbero cancellare. Per fare un esempio, attorno all’Humanae Vitae si era sviluppato un dibattito ricchissimo, con opinioni di vescovi e cardinali ben diverse fra loro. Poi il magistero ha fatto le sue scelte, e l’attuale Papa impone di non parlarne più. Ma tutta quella pluralità di posizioni è patrimonio della Chiesa intera, che non può permettersi di cestinarle come carta straccia. E oggi l’inquieta realtà coniugale e familiare dimostra chiaramente che l’argomento, prima o poi, dovrà essere riaperto.
Per quanto mi riguarda, non ho alcun problema personale, perché mi sento perfettamente libero di esprimermi e di vivere la mia fede, e non provo proprio nessun senso di frustrazione verso l’autorità ecclesiastica, che amo fraternamente, anche se per certi versi mi fa un po’ soffrire. Ma il problema non riguarda il rapporto tra singolo fedele e autorità. La Chiesa è un intreccio di rapporti, e ciascuno ha il diritto-dovere di conoscere e far conoscere quella pluralità di riflessioni, comprese quelle dissenzienti, che alla fin fine fan parte del bagaglio completo di ogni documento magisteriale. Voler tappare la bocca alle dissonanze, non è scarsa fiducia nelle coscienze o, peggio, nello Spirito Santo?
E’ noto, ad esempio, che la maggior parte degli sposi cristiani vivono la loro morale coniugale in modo autonomo, rispetto alle norme ufficiali, soprattutto in materia di procreazione responsabile e anticoncezionali. Ma questo sembra non creare problemi, purché non se ne parli. Invece è grazie al dissenso che il problema resta vivo, nella speranza di poter prima o poi essere riaffrontato a viso aperto e senza ipocrisie. Altrimenti quello scisma di fatto tra fedeli e autorità, che costringe a vivere la propria fede nel privato, finirebbe per cristallizzarsi irreversibilmente. Oggi ci vuole un grandissimo coraggio a proclamarsi cristiani, col risultato di sentirsi subito etichettati come persone allineate a priori su posizioni che non si sentono proprie. Ma quali alternative ci sono? Costringere la propria coscienza ad abdicare per sottomettersi acriticamente all’autorità, equivarrebbe ad annacquare e svalutare la propria fede.
Da tempo sogno un magistero capace di benevola accoglienza verso il dissenso, che in tal modo, non avendo più motivi per scadere in sterili contrapposizioni, si proporrebbe come invito alla speranza, sollecitando a non fermarsi sul già fatto. Perché mai temerlo, quasi fosse un nemico? Parafrasando Gamaliele, se tale dissenso è di origine umana svanirà presto, se invece è d’origine divina.....
La nostra fede ci autorizza a credere che il non praevalebunt valga a tutto campo. L’invito a tacere potrà scoraggiare chi è tiepido, e far cessare il dissenso strumentale o artificioso, ma non quello dei cristiani coscienti del loro compito, per i quali Gesù Cristo e lo Spirito Santo restano un riferimento irrinunciabile. Anche se con molta difficoltà, ciascuno di noi, nel suo piccolo, continuerà a dire la sua, ben cosciente di potersi sbagliare, ma anche di non poter zittire la fede. Se il Papa rischia di restare chiuso in uno splendido isolamento, non saremo noi a privarlo del nostro affettuoso dissenso. Noi, che in alcune cose non siamo d’accordo con lui, non lo lasceremo solo.
pubblicato da ADISTA 12 dicembre 1998
LEGGE NATURALE, BIOETICA E SIGNIFICATIVE INCERTEZZE
In una recente intervista al gironale La Repubblica(23 ottobre 1998) il cardinale Sodano ha tra l’altro detto: “Il Papa ci ricorda che la legge naturale è una grammatica comune per tutti”. Tuttavia, a parte il fatto che tale legge “non sarebbe sempre precisa e chiara”, come emerge più oltre dalla stessa intervista, non mancano di affiorare altri interrogativi. Il problema infatti non sta nell’identificare quali siano i confini della “legge naturale”, dato che nessuno li considera invalicabili (in molti interventi medico-chirurgici vengono ormai abitualmente superati). Il problema, assai più complesso, sta nel comprendere e definire i limiti e i confini etici di tali interventi, destinati a dilatarsi sempre più nel futuro.
Ad esempio, un tempo le persone anziane che si fratturavano un femore rischiavano di non riuscir più a rimettersi in piedi e a ritrovare efficienza. Oggi, con le moderne protesi, la gravità di tali traumi viene drasticamente ridotta. Non c’è dubbio che un pezzo di plastica introdotto nell’organismo, in sostituzione di un osso, sia una forzatura della legge naturale, ma non si è mai sentito nessuno protestare e opporsi a tali interventi. In altre parole, è troppo facile essere d’accordo là dove i risultati sono chiaramente positivi, così come altrettanto facile può essere l’accordo di vietare ipotesi mostruose ed estreme d’ingegneria genetica. La difficoltà sta nel mezzo, là dove il confine fra positivo e negativo appare talmente contraddittorio da scalzare qualsiasi certezza.
L’argomento trapianti, entrato ormai nella routine quotidiana da parecchio tempo, offre la possibilità di ampliare interrogativi e perplessità. Trasferire organi da una persona a un’altra significa certamente travalicare i confini della legge naturale, non tanto per i suoi aspetti tecnico chirurgici, quanto perché l’dentità dell’individuo è data soprattutto dal ripetersi in ogni sua cellula dello stesso codice genetico. Con i trapianti quest’identità viene traumaticamente modificata (con conseguenze nient’affatto chiare). Ma nessuna autorità eticamente impegnata li definisce immorali.
Indubbiamente, tarpar le ali alla speranza di poter vincere talune malattie traumatiche, anche forzando la natura, sarebbe forse un’altra forma d’immoralità, e tuttavia non si può ignorare che talvolta, alla fine, certe attese si rivelano soltanto crudeli illusioni. Ricordo una mia cara amica, piena di vita malgrado un’insufficienza renale: costretta prima a lunghi anni di dialisi in attesa di trapianto, e poi a un periodo di drammatiche tribolazioni per inutili terapie che non hanno impedito il rigetto, ricordo che già parecchio prima di giungere alla fine dei suoi giorni si rammaricava di non aver lasciato, a suo tempo, che la natura seguisse il suo corso, col solo risultato di aver allungato il calvario suo e dei suoi familiari.
Ma nel contesto concreto della morale applicata, l’aspetto eticamente più drammatico dei trapianti sta in quegli effetti collaterali, probabilmente imprevisti ma non imprevedibili, che sono nati in ambienti senza scrupoli, ma anche con la collaborazione e l’acquiescenza (più o meno indiretta) di tante persone “per bene”. Mi riferisco al commercio clandestino, i cui trafficanti, com’è noto, non rinunciano neppure all’infamia di rapire e sopprimere qualcuno per procurarsi gli organi richiesti dal mercato. Certamente è comprensibile, da parte di chi ne ha bisogno, la ricerca di un rene o un cuore attraverso qualsiasi canale, e chi lo trova ha diritto di sperare che sia stato procurato correttamente. E tuttavia come nascondersi che vi sono casi in cui il tentativo di salvare una vita avviene al prezzo di sacrificarne un’altra? La responsabilità diretta, ovviamente, non può investire chi non è in grado di conoscere i retroscena dei singoli casi, ma la responsabilità morale media collettiva di tali misfatti non ricade forse su tutti coloro che li rendono possibili?
Di fronte al futuro, già iniziato, delle manipolazioni genetiche, non si può che provare brividi d’angoscia. In teoria, l’ipotesi ad esempio di poter intervenire per eliminare eventuali cromosomi anomali, per sottrarre alla sindrome di Down chi vi sarebbe altrimenti condannato, piacerebbe a tutti. Ma poi? Da un lato si sente sempre più spesso parlare di leggi per vietare la sperimentazione selvaggia, ma dall’altro lato il fatto stesso che sia così difficile elaborare norme convincenti per tutti (o quasi) dimostra quanta incertezza sia presente anche nelle coscienze più sensibili. Ma dal punto di vista dell’etica il problema si propone ancora a livello teorico, perché è il senso delle possibili novità a non esser chiaro. Clonazione, selezione della razza, creazione di uomini cavia: i divieti avranno scarsa possibilità di impedire sperimentazioni inquietanti, perché ci sarà sempre qualche paese che non sottoscriverà gli accordi e offrirà asilo a scienziati senza scrupoli. La tenue speranza di evitare che il futuro si spalanchi a simili aberrazioni è soltanto nella formazione di coscienze più adulte e mature, ma questo richiederebbe innanzi tutto il coraggio di rivisitare la teologia morale, per liberarla da tutte quelle sovrastrutture che si sono cristallizzate attraverso epoche nelle quali i problemi odierni e futuri non erano neppure immaginabili.
Anche talune concezioni religiose tradizionali verranno interpellate. Ormai s’ipotizza di trapiantare nelle persone umane organi d’animali, come ad esempio il fegato di maiale, ma per il domani si è già parlato della possibilità di creare ibridi, innestando geni umani in animali o vice versa. Come pura ipotesi provocatoria, per aiutare a riflettere sulle “certezze” consolidate, se prima o poi verrà creato qualche incrocio uomo-animale, cosa che tecnicamente appare possibile, quell’essere vivente (anche eventualmente soltanto in una provetta di laboratorio) sarebbe da considerare uomo, con relativa anima immortale, oppure non abbastanza umano?
Alla soglia del duemila sembra che tutto o quasi venga rimesso in discussione, se non nei fondamentali significati di fondo, almeno nel modo di applicarli concretamente nella vita vissuta. Forse anche il rapporto Dio-natura va compreso meglio. Forse per trovare un’etica comune a tutte le persone di buona volontà, cattoliche e non, le “certezze” di una morale che taglia col coltello la linea di demarcazione tra bene e male dovrebbero lasciare il posto a qualche inquietudine, che nasce dalla coscienza di non saper distinguere così chiaramente il grano dalla zizzania.
Forse è proprio vero che il figlio dell’uomo non ha dove posare il capo. La fede in Cristo risorto non elimina le incertezze del quotidiano.
pubblicato da ADISTA 15marzo 1999
LA NON-INGERENZA NON È PIÙ UNA VIRTÙ
In epoca di globalizzazione il problema del rispetto per le altre culture si fa sempre più delicato, tanto più per noi europei, impegnati in un’integrazione che ci costringe ad allargare i confini della ristretta mentalità nazionale. C’è da credere che proprio su tale tema si giocherà la coscienza dei cittadini proiettati in dimensione mondiale, e quindi gran parte della politica del prossimo futuro.
Quel che avviene oggi in Algeria, anche se particolarmente clamoroso, è soltanto l’anello di una catena di sangue e sofferenze che si snoda attraverso tanti, troppi paesi di questa nostra società, particolarmente debole proprio sul rispetto dei diritti più elementari. Ogni volta che accadono simili drammi non mancano voci autorevoli a proclamarli inaccettabili, intollerabili, insopportabili. Però nessuno è mai morto d’insopportabilità, perciò, passato ogni volta il primo impatto, nei nostri ambienti occidentali si continua a vivere esattamente come se tali crudeltà non accadessero. Che si potrebbe fare? E’ una domanda che mi rivolgo spesso mentre, pur sentendomi straziato e indignato, continuo a mangiare, a dormire in un letto caldo, e a comprare i regali di Natale. Ma finisco inevitabilmente per ritrovarmi a fare i conti con moltissimi interrogativi e nessuna risposta. Perciò vorrei soltanto condividere qualche riflessione da semplice cittadino occidentale.
Di fronte alle varie forme d’indignazione per le stragi o altri fatti che seminano terrore e morte, il paese di turno risponde che si tratta di affari interni, e in nome del principio di non-ingerenza nessuno può o vuole fare nulla. D’altra parte, anche chi sostiene necessaria qualche forma d’intervento non sa indicare di quale tipo. Per il momento, non ci resta che riflettere sui limiti di tale principio e sui rischi di spostarne i confini (in entrambe le direzioni). All’epoca del colonialismo le potenze occidentali sostenevano senza scrupoli il valore dell’ingerenza, e per fare un esempio nostrano, al tempo della guerra d’Etiopia la propaganda fascista rivendicava il diritto, vantandosene, d’imporre la civiltà là dove esisteva ancora lo schiavismo. Del resto, i cristiani hanno seminato la storia di soprusi e ingerenze in nome di quello che è giusto, morale, buono, vero. Ma bastano gli esempi storici negativi per far considerare positiva la non-ingerenza? Non c’è il rischio che diventi un comodo alibi per scaricarsi la coscienza e lavarsene le mani?
L’interrogativo, poi, si allarga se ci chiediamo perché mai dovrebbe valere la non-ingerenza tra stato e stato, quando leggi e carte dei diritti umani consentono e impongono controlli e ingerenze sul comportamento di ogni singolo cittadino, ed anche su famiglie, associazioni, comunità, paesi, regioni? Dal punto di vista politico, appare difficile anche soltanto ipotizzare Stati o Nazioni a sovranità limitata, ma fino a che punto quel che accade in altri paesi interpella e coinvolge le coscienze personali? Perché mai la mancanza di dubbi sull’imperativo morale d’intervenire per far cessare violenze e soprusi in qualsiasi proprietà territoriale privata, cessa davanti a un confine di Stato?
Il rispetto per gli altri è un valore che riguarda tutti i rapporti, e il principio di non-ingerenza comincia ad apparire tremendamente condizionante in quello che si sta rivelando uno dei problemi più esplosivi dei prossimi decenni: le massiccie migrazioni dai paesi poveri e sovraffollati a quelli ricchi e con popolazioni invecchiate. Piaccia o non, l’Europa sarà sempre più invasa da extracomunitari, e tutte le persone con un briciolo di cervello sanno che si tratterà comunque di un doloroso dramma che sconvolgerà l’assetto sociale, ridimensionando molti dei nostri privilegi attuali. Muri, barriere o repressioni non potranno nulla contro masse affamate e oppresse, e la società occidentale, lo voglia o non, diventerà inevitabilmente integrata. Le persone lungimiranti mostrano dubbi e interrogativi soltanto sul tempo necessario per tale trasformazione, e su quanto sarà più o meno cruenta. L’auspicata politica d’interventi in loco, per offrire a ciascuno delle possibilità di vita dignitose e accettabili nei propri paesi, potrebbe al massimo aiutare a controllare meglio (o meno peggio) l’emigrazione, ma non certo a eliminarla.
Immaginando una società futura altamente integrata, nella quale convivano minoranze significative di culture diverse, quali confini di rispetto e non ingerenza si possono ipotizzare? Il rispetto delle culture altrui può valere fino al punto da violentare la propria? Ad esempio, come sarebbero integrabili nella nostra società le popolazioni che praticano la poligamia? Vietandola, oppure consentendo loro quel che agli europei è vietato? E con quali rischi, in prospettiva futura? E per quanto riguarda certi “diritti” del capo famiglia, sanciti da leggi di altri Paesi? (Finché si tratta di minoranze insignificanti, tali problemi possono sembrare marginali, ma domani non sarà inevitabile che masse significative di persone integrate come cittadini europei a tutti gli effetti rivendichino il diritto alla loro cultura?)
Anche un problema di limitate dimensioni (almeno per il momento) come l’infibulazione, può far sorgere interessanti interrogativi. Largamente praticata in talune popolazioni musulmane o africane, un recente sondaggio ha accertato che anche dopo essersi trapiantati in Europa molti di loro continuano a praticarla. Sarebbe giusto tollerarla, in nome della non-ingerenza nella cultura altrui, oppure bisognerebbe vietarla? D’altra parte, se dei genitori europei si azzardassero a praticarla sulle loro figlie, non sarebbero perseguiti penalmente? Che se poi, un giorno, venisse praticata su quantità significative di bambine, sorgerebbero ben presto istanze sociali di carattere medico-sanitario, perché tali pratiche, eseguite di solito con metodi primitivi e in precarie condizioni igeniche, finiscono spesso per provocare infezioni. Sarebbero allora ipotizzabili interventi legislativi? Un’analogia la si potrebbe vedere nella legge che regola l’interruzione di gravidanza, che a parte qualsiasi altra considerazione di ordine etico, impone di praticarla in strutture pubbliche con adeguate garanzie igieniche. Sarebbe auspicabile, nel nome della non-ingerenza, una legge che consente di praticare l’infibulazione, purché nelle strutture pubbliche?
Gran parte del nostro domani si giocherà su questo tema, e per sperare in un mondo migliore sarà necessario inventarsi qualche forma di rispetto attivo, che sappia superare la sterile e passiva non-ingerenza. Solo a pensarci gl’interrogativi si presentano a bizzeffe: spunterà, prima o poi, anche qualche risposta? Pilato, pur convinto dell’innocenza di Gesù (non trovo in lui nessuna colpa - Gv 18,38) se ne lava le mani per non interferire in un affare interno dei Giudei. Di solito, non viene citato come esempio da seguire.
pubblicato da ADISTA 17 gennaio 1998
LE COLPE DEI PADRI… RICADONO SU TUTTI
Le imprudenti parole di Vittorio Emanuele riguardo le leggi razziali firmate da suo nonno, hanno fatto rinascere un antico dibattito su quali responsabilità si possano attribuire a un discendente per le colpe dai propri antenati. L’argomento è d’importanza capitale, perché i diversi orientamenti influenzano, più o meno inconsciamente, gli atteggiamenti politici, sociali, e anche religiosi del presente.
In qualsiasi atto illecito vi sono responsabilità dirette e complicità. E’ fin troppo ovvio che le prime sono soltanto di colui che compie il misfatto, ma non così le seconde, che possono talvolta coinvolgere molti, anche in tempi successivi. Ad esempio, se tedeschi o giapponesi non avessero preso chiaramente le distanze dal nazismo e dalla mentalità bellica, escludendo anche qualsiasi complicità ideologica, la loro potenza industriale di oggi susciterebbe timori e reazioni ben diverse da quelle di una semplice concorrenza commerciale. E le probabilità di ricreare motivi di conflitto aumenterebbero di molto.
Sarebbe assurdo chiedere a Vittorio Emanuele di sentirsi colpevole per le azioni compiute da suo nonno quasi sessant’anni fa, ma è chiaro però che se le approva, o le giustifica, o comunque non le condanna, è come se dicesse: “se oggi fossi io al potere, regnerei con le stesse intenzioni e gli stessi criteri”. Se l’avvenimento è storico, la valutazione di oggi è realtà che vive nel quotidiano, e il fatto che il potere non gli appartenga più non basta a liberarlo da eventuali sue complicità dirette e personali.
Nella coscienza di qualsiasi cristiano-cattolico, l’episodio non può che richiamare inquietanti interrogativi per i crimini della nostra storia ecclesaistica. Credere che riguardino soltanto il passato è una colpevole ingenuità. La Chiesa è una realtà al di fuori del tempo, che impegna in solido chiunque ne faccia parte. E’ come una catena che da Cristo è giunta fino a oggi, per andare oltre. Se in questa catena c’è del sangue, questo sangue, anello dopo anello, scorre fino a noi e bagna anche le nostre mani. Quei trionfalisti o apologeti che tentano di esorcizzare il problema invitando a non provare sensi di colpa, rimorsi, vergogne, finiscono per somigliare a quei veterocomunisti che si arrabbiano quando sentono parlare delle crudeltà di Stalin (come se fosse malvagio chi mantiene vivo il ricordo del crimine, non chi l’ha commesso!). Ma attribuire alla cattiveria degli altri le proprie colpe non è il modo migliore per riscattarle.
La credibilità e l’affidabilità della Chiesa di domani dipendono dall’atteggiamento odierno nei confronti della storia vissuta. Se siamo pronti a scandalizzarci perché un potenziale monarca non vuol prendere le distanze dalle colpe di un suo predecessore, che cosa dobbiamo fare di fronte ad analoghe resistenze a riconoscere di aver tante volte tradito Cristo in nome di Cristo? Personalmente confesso di provare molta vergogna, non tanto per i fatti del passato, che possono avere delle spiegazioni storico-ambientali (come potrei esser certo che, a quei tempi, non avrei approvato anch’io?), ma per il persistere, al presente, di un atteggiamento ambiguo. E mi domando: che altro, se non vergogna, proveremmo se ci sentissimo chiedere: tu come ti sei comportato di fronte ai crimini compiuti nel mio nome? Hai taciuto? Hai lasciato fare? Hai trovato giustificazioni? Hai scaricato la colpa su altri e te ne sei lavato le mani? Stendere un velo sul passato, ignorarlo come se non ci riguardasse personalmente, o ancor peggio svalutarne la gravità, equivale a farsene complici, rendendolo insuperabile. Solo se, sull’esempio di Cristo che si è preso sulle spalle i peccati del mondo, ciascun cattolico avesse il coraggio di farsene carico, sentendosi chiamato a risponderne moralmente in prima persona, allora la Chiesa intera riacquisterebbe prestigio, e ritroverebbe lo slancio evangelico per annunciare autorevolmente il futuro.
Ricordo di aver partecipato, dodici anni fa, a un congresso dell’Associazione Teologica Italiana che aveva per tema il rapporto tra verità e carità. Che stranezza: non è forse l’amore l’unica indiscutibile verità di Cristo?! Ricordo che il settimanale diocesano di Trento, dove si svolgevano i lavori, era uscito con il titolo: E se la Chiesa nascesse dalla carità? sottolineando, nel testo, che la risposta affermativa porterebbe a notevoli e sorprendenti novità non solo nella teologia ma anche nella vita della Chiesa. Roba da non credere. Eppure la Chiesa ha preferito privilegiare una verità mentale e teorica anziché l’amore applicato, unico frutto che garantisce di trovarsi sulla via di Cristo. E questa “verità” è inevitabilmente diventata un’ossessione: l’ossessione di dover poi dire e ridire che la chiesa non sbaglia e non può sbagliare, fino al punto da giustificare qualsiasi sopruso su chi si permette di non essere d’accordo. Fino a diventare il peggior ostacolo all’annuncio del Vangelo, che è stile di vita capace di conquistare con l’esempio, e non preoccupazione di tappare la bocca agli altri.
Purtroppo, la separazione tra verità e amore è presente negli ambienti cattolici, non soltanto ecclesistici, oggi non meno di ieri. Non c’è carità possibile senza verità, afferma Vittorio Messori nel suo Pensare la storia (pag 25). Ma si può dire così soltanto riducendo le due parole a concetti teorici, perché chiunque viva l’amore applicato sa che nessuna verità di Cristo può mai consentire di fare del male a qualcuno. E il recente caso di Tissa Balasuriya, scomunicato per motivi di “verità”, e non certo di carità, la dice lunga sul persistere di questa mentalità dualistica, che tenta ancora di creare rigide contrapposizioni, anziché proporre modelli di conversione. Ma per nostra fortuna la presa di coscienza aumenta inarrestabile, e sempre più gente segue le indicazioni del proprio cuore, rifiutando di lasciarsi ingabbiare in qualche schieramento. La Chiesa rischia di perdere ancor più credibilità, se si lascerà trascinare dall’esterno a un cambiamento comunque inevitabile, anziché farsene coraggiosamente protagonista. Continuare a negare di essersi talvolta sbagliata è complicità col passato, e quindi una colpa presente che ostacola il cammino verso il futuro.
pubblicato da ADISTA 10 maggio 1997
SE PRENDESSIMO SUL SERIO LE SCOMUNICHE…
Varcare la soglia della speranza, questo l’auspicio del Papa per il terzo millennio. Ma in quale direzione? Dal Concilio Vaticano II quella soglia era stata varcata, ma ora, dopo un lungo periodo di riflusso, recenti avvenimenti ecclesiastici autorizzano a interrogarsi sull’ipotesi di un varco di ritorno. Rimozioni dall’insegnamento, pubbliche riprovazioni, condanne al silenzio non bastano più: ora è stata rispolverata anche la scomunica. Che cosa ci riserverà il futuro? Un tempo faceva da anticamera alla tortura e al rogo, ma il fatto che oggi, per nostra fortuna, la società civile sia sufficientemente evoluta da scongiurare simili rischi, non la rende meno preoccupante.
Leggendo gli scritti del teologo scomunicato, Tissa Balasuriya, e le relative dichiarazioni della CDF, oltre a un senso di sconforto e di tristezza, si avvertono inquietanti interrogativi. Da qualche tempo il vertice della Chiesa è impegnato nel tentativo di voler controllare tutto e tutti, il Papa ripropone quotidianamente affermazioni a tutto campo, e i cattolici sono continuamente invitati a uniformarvisi. Insistentemente vengono proposte e riproposte come infallibili e irreformabili anche dichiarazioni relative ad argomenti non di fede. Che sta accadendo? Talvolta sembra che l’autorità ecclesiastica si senta mancare il terreno sotto i piedi, che avverta lo scricchiolare di talune pseudoverità, ormai insostenibili, e tema il crollo del suo attuale edificio. Per questo sembra preoccupata soprattutto di costruire muraglioni, dighe, argini, nel tentativo di consegnare al futuro una Chiesa ingessata e immodificabile. Ma non servirà a nulla: si può forse impedire a un fiume di mutare il suo alveo, quando l’evoluzione naturale del terreno glielo impone?
Con atteggiamento rispettoso e garbato, Balasuriya chiede di rivedere talune sovrastrutture teologiche, affermatesi nei secoli ma estranee alla rivelazione, che oggi tolgono credibilità alla Chiesa. E’ questo un motivo di scomunica? Dopo la sanzione, inoltre, ha scritto al cardinal Ratzinger una lettera appassionata, ma anche affettuosa, dove tra l’altro dice: “.... sto perseverando nel mantenere ad ogni costo la mia comunione con e dentro la Chiesa.... vediamo di risolvere la questione nel modo giusto e con il dialogo necessario, perché possa tornare a vantaggio della Chiesa che entrambi abbiamo servito per mezzo secolo e più”. Questo è il punto. Il Magistero ha diritto e dovere di mettere in guardia verso nuove teorie, che potrebbero introdurre elementi fuorvianti, purché lo faccia senza creare contrapposizioni e divisioni. Altrimenti può far solo del male a tutti, compreso se stesso. Perciò chiunque ama la Chiesa dovrebbe farsi avanti e chiedere, con altrettanto affetto, una pausa di riflessione. Abbiamo già maltrattato abbastanza Cristo nei secoli passati, non sarebbe il caso di entrare nel terzo millenio con un nuovo atteggiamento dei cuori?
La paura di riconoscere che talvolta la Chiesa si è sbagliata, sembra prevalere sulla fiducia nello Spirito Santo. Eppure qualcosa sta cambiando. Sulla pena di morte, ad esempio, sono in molti ormai, anche ai vertici, che la considerano illecita (ammettendo quindi implicitamente che nel passato la Chiesa si è sbagliata). Un tempo, soprattutto nell’America latina, certi cattolicissimi padroni di schiavi erano approvati e riveriti dalle autorità ecclesiastiche, ma oggi il Papa ha chiesto scusa per gli errori e gli orrori della schiavitù. Nei secoli passati numerosi Papi, a cominciare da Innocenzo IV con la bolla Ad Aestirpanda, hanno dichiarato lecito l’uso della tortura negli interrogatori, mentre oggi il Catechismo dice inequivocabilmente che quei Papi si sono sbagliati, là dove afferma: “La tortura che si serve della violenza fisica o morale per strappare confessioni.... è contraria al rispetto della persona e della dignità umana” (CCC 2297). C’è poi il caso Galileo, col recente riconoscimento pubblico di errori da parte della Chiesa, e il caso Savonarola, a suo tempo scomunicato e condannato al rogo, e oggi proposto per la causa di beatificazione.
Su questi e altri punti, però, gli apologeti sono sempre pronti a mille distinguo per arrivare, alla fine, ad affermare che non è la Chiesa ad essersi sbagliata, ma il suo personale (come diceva Maritain). C’è però un caso, al presente, poco noto ma non per questo poco interessante, che a un attento esame appare davvero inequivocabile. L’attuale Papa, Giovanni Paolo II, in un suo discorso tenuto il 14 aprile 1982 dice tra l’altro: “Nelle parole di Cristo sulla continenza per il Regno dei Cieli non c’è alcun cenno circa l’inferiorità del matrimonio.... Le parole di Cristo riportate in Matteo 19,11-12 (come anche le parole di Paolo nella prima lettera ai Corinzi, cap.7) non forniscono motivo per sostenere né l’inferiorità del matrimonio, né la superiorità della verginità o del celibato.... Il matrimonio e la continenza né si contrappongono l’una all’altra, né dividono di per sé la comunità umana (e cristiana) in due campi (diciamo: dei perfetti a causa della continenza e degli imperfetti o dei meno perfetti a causa della realtà della vita coniugale).” Potrebbero sembrare affermazioni di realtiva importanza, se non ci fossero stati dei precedenti significativi. Nell’enciclica Sacra Virginitatis, Pio XII aveva detto che “la dottrina che stabilisce l’eccellenza e la superiorità della verginità e del celibato sul matrimonio, annunciata dal Divin Redentore e dall’Apostolo delle genti, fu solennemente definita dogma di fede nel Concilio di Trento (n.28)”. Ed infatti, il Concilio di Trento dice testualmente: “Se alcuno dicesse.... che non è cosa migliore e più beata rimanere nella verginità o nel celibato, che unirsi in matrimonio, sia scomunicato” (sess. XXIV can.10).
Papa Giovanni Paolo II lo ha detto, ripetendolo con insistenza inequivocabile, secondo il suo stile (cfr. Oss. Rom. 15/4/82). Che significa dunque? Sembra difficile sfuggire al dilemma. Abbiamo un Papa scomunicato? Oppure il Concilio di Trento prima e Pio XII poi si sono sbagliati su un dogma di fede? O forse i dogmi non vanno presi troppo sul serio?
Per nostra fortuna lo Spirito Santo è più grande delle parole, anche di quelle infallibili e irreformabili. Comunque sia, una pausa di riflessione non guasterebbe.
pubblicato da ADISTA 22 marzo 1997
SI PUÒ ESSERE CRISTIANI E FORCAIOLI?
A PROPOSITO DI UN'INTERVISTA DI MESSORI
L’interrogativo impone di riflettere sulle differenze fra Cristo e la cristianità, premessa probabilmente superflua e banale per alcuni, ma non per tutti. Se il primo è un modello, la seconda è la civiltà politico-culturale sviluppata nella storia da coloro che a quel modello si rifanno, sovente contraddicendolo vergognosamente. Ad esempio, se pensiamo a San Francesco non è difficile l’accostamento al modello, ma se invece riflettiamo su un personaggio come Torquemada, è difficile immaginare Cristo nei suoi panni, mentre istruisce i discepoli sui metodi più efficaci per seviziare i fratelli, sia pur colpevoli di qualche cosa. Eppure l’aggettivo cristiano può essere usato in entrambi i casi, correttamente ma non con lo stesso significato, creando non poche ambiguità. Nelle riflessioni che seguono va inteso con riferimento a Cristo.
In questi giorni, la tragedia causata dai sassi lanciati sulle auto, ha suscitato polemiche e reazioni che, di fronte a fatti tanto dolorosi e crudeli, possono essere tutte, in qualche modo, comprensibili e giustificate. Com’è possibile difendersi da mostruose e assurde stupidità criminali? Un tale angosciante interrogativo è naturale che, a caldo, possa anche far emergere affermazioni e proposte enfatiche. Ma se le varie opinioni meritano comunque rispetto, non si può ignorare che cessano di essere soltanto personali quando provengono da insigni personaggi cattolici, perché rischiano di apparire come esempi e proposte di buon cristianesimo. Sotto questo profilo, appaiono per lo meno stupefacenti le parole di Vittorio Messori nell’intervista pubblicata sul Corriere della Sera del 3 gennaio scorso (che ADISTA riporta in questo stesso numero) dove, tra l’altro, dice: “A viste umane...... bisognerebbe mettere una bella serie di forche nel punto esatto in cui sono stati lanciati i sassi. Quindi, procedere all’impiccagione e dare ai parenti della vittima il diritto di infierire sui cadaveri.” Domanda dell’intervistatore: “Non le sembra una procedura barbara?” Risposta: “Macché. Sono convinto che all’esecuzione assisterebbero, plaudenti, milioni di persone. E sono convinto che, razionalmente, sarebbe la soluzione più giusta.”
Per l’opinione pubblica, Messori è un cattolico DOC, considerato forse il laico più vicino al Magistero, non foss’altro che per la fiducia accordatagli dal Papa, quando gli ha concesso in esclusiva quella lunga intervista pubblicata nel libro best-seller: Varcare le soglie della speranza. Leggendo ora quest’ultime sue dichiarazioni, forse molti (ma speriamo pochi) si sentiranno istigati e autorizzati a credere che si può essere cristiani e forcaioli, e se non ci saranno interventi autorevoli a smentirlo, rischierà di consolidarsi la convinzione che la voglia d’infierire sui colpevoli faccia parte del bagaglio d’un buon cristiano.
Ma nelle parole di Messori c’è dell’altro che suscita stupore: egli si esprime come se la morale di Cristo fosse valida soltanto tra cristiani, e non applicabile “a viste umane”. In altre parole, come se il cristiano fosse chiamato a farsi schizofrenico, capace di avere opinioni e comportamenti diversi a seconda degli interlocutori. Se egli ha inteso dire, come sembra, che di fronte a certe follie criminali (che chiama male assoluto) sono utili e auspicabili interventi drastici e cruenti, può anche darsi che abbia delle valide ragioni, meritevoli di essere discusse a fondo sul piano sociologico. Purché, però, vi sia almeno il coraggio di chiamare le cose con il loro nome.
Per fare un esempio, se di fronte a qualcuno che mi da uno schiaffo penso sia meglio restituirglielo anziché porgere l’altra guancia, può darsi che la mia scelta sia sociologicamente valida, ma non c’è dubbio che, almeno in quel momento, il mio comportamento non è cristiano. Così, se Messori intende dire che in certi casi non è ragionevole essere cristiani, può darsi che abbia ragione, ma sarebbe corretto dirlo esplicitamente e senza mezzi termini.
La morale di Cristo non ha alcuna pretesa di sostituirsi alla giustizia terrena, che per proteggere e difendere la società da violenze e soprusi deve talvolta ricorrere a metodi tristi e dolorosi, anche quando sono necessari. La morale di Cristo, al di là delle parole, è invece qualcosa di misterioso che chiede alle “viste umane” di uscire dalla logica dei propri schemi (ad esempio, occhio per occhio) per entrare in nuove ottiche. Indubbiamente, per la complessità della natura umana, e quindi delle problematiche sociali, in taluni casi essere cristiani è piuttosto difficile, e talvolta forse impossibile. Ma bisognerebbe avere il coraggio di ammetterlo, anziché trovare giustificazioni per considerare cristiani dei comportamenti inconciliabili con Cristo, come ad esempio continuare a considerare lecita la pena di morte.
Di fronte a tragici fatti criminali s’impone una giustizia rigorosa e senza sconti, ma il cristiano deve adoperarsi perché sia libera non solo da ogni sete di vendetta, ma anche da qualsiasi compiacimento o trionfalismo. Insomma, perché sia purificata dalla subdola cattiveria dei “benpensanti”. San Filippo Neri diceva ai suoi ragazzi: siate buoni, se potete, ed anche Cristo, in fondo, ci chiede: siate cristiani, se potete. Immaginandomi coinvolto in prima persona con eventi tanto assurdi e crudeli, riconosco che probabilmente non potrei, non saprei o non vorrei esserlo; e non nego di sentire talvolta dentro di me un tale senso di ribellione da sentir la voglia di fare affermazioni tipo quelle di Messori (anche se un po’ meno truculente). Ma per non dare scandalo, se le facessi mi sentirei moralmente obbligato a dire con chiarezza che rinuncio, almeno temporaneamente, a essere cristiano.
La cristianità, in passato, ha scelto più volte una strada diversa: quella di deformare l’insegnamento di Cristo per adattarlo alle proprie esigenze sociopolitiche. Ricadere oggi su tale strada non aiuterebbe a varcare la soglia della speranza.
pubblicato da ADISTA 18 gennaio 1997
MORALE PROCLAMATA E MORALE APPLICATA
La FAO si propone di dimezzare in vent’anni il numero degli affamati, Fidel Castro dichiara che tale obiettivo è vergognoso (per la sua modestia), e naturalmente alcuni si sono stracciati le vesti dicendo: da che pulpito viene la predica!. Da parte mia penso che Castro non abbia affatto le carte in regola per dar lezioni agli altri, ma ciò non m’impedisce di riconoscere che in questo caso ha ragione. In un mondo che si vanta d’essere civile ed evoluto, anche per aver costituito associazioni come la FAO, c’è da chiedersi di quale civiltà si tratti, quando l’assemblea degli stati membri si divide sull’opportunità di definire un obbligo internazionale il diritto al cibo, oppure un semplice obiettivo o aspirazione.
E tuttavia tale obiettivo, per vergognoso e modesto che sia, è tutt’altro che garantito, ed è anzi assai probabile che resti utopia. La FAO agirà più o meno bene, ma intanto si propone di fare qualcosa, e tutti coloro che sperano in qualche concreto risultato dovrebbero aver interesse ad aiutarla e incoraggiarla, oltre che proporsi di correggerne i difetti. Invece sono in molti ad aver preso le distanze, contribuendo così a crearle ostacoli anziché migliorarne l’azione. Fra questi il Vaticano, per divergenze relative alle ipotesi sul controllo delle nascite.
La complessità del problema è fin troppo nota, sia per quanto riguarda la scelta dei criteri morali e sociali, sia per le difficoltà di mettere in pratica qualsiasi progetto. Ma la posizione della Chiesa ufficiale sembra voler rifiutare qualsiasi tipo di controllo. Vero che il Papa nel suo discorso alla FAO ha riconosciuto che la crescita demografica non può essere illimitata, ma contemporaneamente ha sostenuto che “una popolazione numerosa può rilevarsi fonte di sviluppo in quanto implica scambi e richieste di beni”.(cfr O.R. del 14/11/96) Penso che sia facile trovarsi d’accordo in linea di principio, ma che significa “numerosa”? Quella attuale è già numerosa, o è ancora scarsa? E quella prevista tra venti o cinquant’anni, se non si faranno interventi drastici? Ma nell’ambiente cattolico ufficiale emergono opinioni ancor più inquietanti. In chiusura del Vertice FAO, il giornale Avvenire definisce “l’invito al controllo demografico, un’ossessione per i potenti anche in questo meeting”(19/11/96). La sensazione è che si voglia dire comunque no, col risultato (per il momento) di frenare e svalutare qualsiasi tentativo d’impegno a sostegno della FAO, anziché stimolarla a fare almeno tutto quel che è concretamente possibile. Di conseguenza, alcuni che potrebbero ricevere aiuto non lo riceveranno, ma le affermazioni di principio resteranno salve. Si fanno tanti proclami per difendere i diritti dei non ancora nati, ma la preoccupazione per i diritti di chi già vive negli stenti e nella tragedia sembra assai meno presente.
Qualche settimana fa il Vaticano, per motivi analoghi, aveva ritirato il suo contributo (simbolico di soli 2000 dollari l’anno) all’UNICEF, invitando più o meno implicitamente i cattolici a fare altrettanto con i loro contributi personali. Il giornale AVVENIRE ha sottolineato la presa di posizione con un articolo in prima pagina dal titolo stupefacente: Vuole una cartolina? Serve per i preservativi. L’UNICEF ha dichiarato esplicitamente più volte di non promuovere né attuare politiche demografiche, ma di intervenire là dove ci sono bambini che hanno bisogno d’aiuto, per svolgere iniziative concretamente possibili in loro favore. Talvolta, per raggiungere lo scopo, si trova a collaborare con enti o governi che attuano interventi demografici di vario tipo, ma in ogni caso i bambini esistenti hanno bisogno di aiuto, e l’UNICEF cerca di darglielo. Si potrebbe far meglio? Certamente, perché l’azione dell’UNICEF non è senza difetti. Ma dove stanno altri enti e organismi pronti a fare concretamente qualcosa? Anche se avesse la “colpa” di essere favorevole agli anticoncezionali, tutti i bambini vaccinati negli ultimi anni, le battaglie per il rispetto dei loro diritti, la campagna di alfabetizzazione soprattutto delle femmine, in quei paesi dove vengono maggiormente emarginate, gli impianti per l’acqua potabile, i numerosi interventi d’emergenza nel caso di guerre o calamità naturali, le migliaia di bambini riuniti alle famiglie dalle quali erano rimasti separati per cause belliche: sono tutte cose che non contano? Con quanta serietà si può dire che i contributi all’UNICEF vengono utilizzati per diffondere anticoncezionali (ammesso che sia vero), come se tutto il resto non esistesse? Eppure lo dice Avvenire, “quotidiano d’ispirazione cattolica”, con un titolo e un articolo che non sono certo il miglior esempio di spirito cristiano.
In un mondo che va a rotoli, nel quale la nostra isola occidentale rischia di venir ben presto travolta insieme a tutti i suoi privilegi economici e culturali, ma anche religiosi, le dichiarazioni di principio saranno sempre più costrette a lasciare il posto a forme di morale applicata, che si proponga di realizzare il meglio possibile nella concreta realtà esistente. In altre parole, va benissimo riaffermare i propri valori, purché intanto si collabori a porre qualche limite alle tragedie esistenti. Altrimenti se ne diventa complici. Togliere l’appoggio, per motivi dottrinali, a chi fa qualcosa di concretamente cristiano non può che lasciare perplessi.
Nel Nuovo Dizionario di Spiritualità, pubblicato nel 1979 dalle Edizioni Paoline con regolare imprimatur, alla voce obbedienza è scritto che “il fedele ha dovere di non assuefarsi a un’autorità ecclesiale situatasi nell’ambiguità: deve spronarla a convertirsi al Signore”. Oggi si sa che anche la Soc. San Paolo è nell’occhio del ciclone per le sue scelte editoriali, ma per fortuna molti cristiani hanno ormai una sufficiente autonomia di coscienza, tale da poter fare le loro scelte senza lasciarsi imbrigliare dai proclami ufficiali. L’UNICEF stia tranquillo: non saranno molti a sottrargli il loro contributo.
pubblicato da ADISTA 4 gennaio 1997
C'È ACCOGLIENZA E ACCOGLIENZA:
QUELLA CRISTIANA DEVE ESSERE INCONDIZIONATA
La sanguinosa riesplosione del conflitto israelo-palestinese, ed anche le nuove inquietudini suscitate dalle ultime notizie sulla guerra civile in Afganistan, costringono a riflettere ancora sull’eterno problema dell’accoglienza, parola chiave per qualsiasi cristiano.
Un interessante spunto di riflessione ce lo offre la liturgia dell’appena trascorsa Domenica, XXVI del tempo ordinario, là dove nell’0razione (colletta) dice: O Padre, sempre pronto ad accogliere pubblicani e peccatori appena si dispongono a pentirsi......
Tutto l’insegnamento della Chiesa, e in particolare la liturgia, si propone di stimolare i fedeli a farsi come Cristo e a seguirne le orme. Ed è soprattutto su tale versante che Gesù ha mostrato atteggiamenti nuovi, accogliendo più e più volte pubblicani e peccatori, fino a creare con loro quel clima di coinvolgimento indispensabile a capirsi, e a sciogliere le contrapposizioni altrimenti insuperabili. Le parole di una breve orazione potrebbero sembrare, in sé, d’importanza relativa, ma sono invece assai significative, perché sono segno di un’interpretazione divina che si esprime analogamente in molte altre forme.
Sempre pronto ad accogliere.... la premessa è magnifica, ma subito dopo una condizione ....appena si dispongono a pentirsi. Insomma, accoglienza condizionata da un previo: se tale immagine viene fatta propria e applicata concretamente nei rapporti interpersonali, quali conseguenze potrà avere? Su questo dobbiamo interrogarci, oltre naturalmente a chiederci se è proprio questo che Gesù ha insegnato.
Sarebbe difficile negare che nel vangelo venga descritta e proposta un’accoglienza senza condizioni: Gesù entrava in rapporto con chiunque senza chiedere purificazioni preventive. La conversione, nel caso, veniva dopo, stimolata proprio dalla sua accoglienza incondizionata, unico atteggiamento capace di rimuovere le paure, di render comprensibili le posizioni altrui, di far smantellare i propri arroccamenti difensivi. Certo Gesù non scendeva a compromessi, né rinunciava a rilanciare senza annacquamenti il suo messaggio, che però, su questo versante, è il chiaro invito a liberarsi da ogni tentativo di assimilazione dei più deboli, per valorizzare le caratteristiche personali di ciascuno.
L’imbroglio del previo, al contrario, introduce atteggiamenti radicalmente diversi: ti accolgo se tu.... ma se tu non.... ti rifiuto. Bella questa disponibilità, che in pratica significa: ti accolgo se accetti le mie condizioni, se non mi crei problemi, se ti fai come me o, in altre parole, quando non hai più bisogno di accoglienza!
Probabilmente ci sono anche molti cristiani che, al di là delle parole, sono di fatto poco disposti a far propria perfino a un’accoglienza condizionata da tale previo, ma non vale la pena di occuparsene in questa sede. E’ invece importante offrire spunti di riflessione a quanti si sentono pronti a perdonare e accogliere chi si dichiara dalla parte del torto, ed è disposto a sottomettersi, riconoscendo implicitamente all’accogliente una posizione di privilegio. Certamente è già meglio di un rifiuto totale, e tuttavia quale valore innovativo può avere? Non fanno forse così anche gli intrallazzatori, anche i mafiosi, anche i peggiori? Eppure una simile preghiera, che ignorando l’insegnamento di Cristo propone l’immagine di un Dio dall’accoglienza condizionata, autorizza a credere che sia questo l’obiettivo da raggiungere. Come meravigliarsi poi se molti fra i cristiani rifiutano di accogliere i diversi (se ne stiano al loro posto), continuano a sfruttare i più poveri (personalmente, che dovrei fare?), prendono le distanze dai tragici problemi dei popoli sottosviluppati (è colpa loro), e giungono perfino ad auspicare o giustificare la pena di morte?
Accogliere con un previo può funzionare quando le difficoltà sono relative, mentre di fronte a problemi gravi qualsiasi condizione preventiva significa né più né meno che un atteggiamento di rifiuto. Basterebbe ricordare quante volte, nella storia, è stato impossibile dipanare conflitti e divergenze, finché qualcuna delle parti in causa insisteva nel richiedere qualche previo all’altra parte.
Il punto chiave è proprio qui: accogliere non vuol dire aver risolto un problema, ma significa semplicemente cominciare a esaminarlo, significa mettersi l’uno di fronte all’altro e guardarsi negli occhi, con speranza, fiducia e voglia di risolverlo. Insomma, accoglienza prima o dopo? Questo il dilemma: accogliere chi si uniforma a noi, oppure i diversi così come sono, rispettandone le differenze? Collaborazioni, accordi, forme di convivenza pacifica, rapporti costruttivi sono possibili solo dopo essersi reciprocamente accolti, e non prima. In fondo basterebbe un piccolo ragionamento per capire il valore (utopistico?) di un’accoglienza incondizionata: se credo veramente valide le mie posizioni, come poteri temere che non vengano apprezzate anche da chi accolgo? E se poi scoprissi valide le loro, perché mai dovrei avere difficoltà ad accoglierle, anche a prezzo di modificare le mie, se occorre?
La mia fede mi stimola a credere che l’atteggiamento d’accoglienza del Padre sia di questo tipo, perciò avrei preferito un’orazione che lo descrivesse pronto ad accogliere chiunque così com’è, lasciando implicitamente intendere che soltanto dopo si può cominciare quel cammino di trasformazione capace di far sciogliere i pregiudizi e i luoghi comuni, di far capire la ricchezza delle differenze, di porre in evidenza che i privilegi sono difficilmente compatibili con uno stato d’animo limpido e trasparente, soprattutto quando diventano strumento d’emarginazione e sopraffazione.
E’ difficile? Forse, ma il modello è questo. Altrimenti, per proporre o far propria una banale accoglienza condizionata, sarebbe assai meglio non scomodare Cristo.
pubblicato da ADISTA 12 ottobre 1996
CONTESTERANNO DA ORIENTE E DA OCCIDENTE
Un bagno di folla mai visto, per il Papa, in oriente, ma i buddisti disertano l'incontro sentendosi offesi dalle opinioni che ha espresso sul buddismo nel suo recente libro: Varcare le soglie della speranza. Ecco alcune frasi incriminate: "...sia la tradizione buddista sia i metodi da essa derivanti conoscono quasi esclusivamente una soteriologia negativa. L' "illuminazione" sperimentata da Budda si riduce alla convinzione che il mondo è cattivo, che è fonte di male e di sofferenza per l'uomo. Per liberarsi da questo male bisogna liberarsi dal mondo; bisogna spezzare i legami che ci uniscono con la realtà esterna.... Il buddismo è in misura rilevante un sistema "ateo". Non ci liberiamo dal male attraverso il bene, che proviene da Dio; ce ne liberiamo soltanto mediante il distacco dal mondo, che è cattivo. La pienezza di tale distacco non è l'unione con Dio, ma il cosiddetto nirvana, ovvero uno stato di perfetta indifferenza nei riguardi del mondo".
Verrebbe istintivo chiedersi come si può ignorare la com-passione, caratteristica fondante del buddismo, ma ai fini di questa riflessione non ha alcuna importanza entrare nel merito, per stabilire con ragionamenti logico-filosofici se le opinioni espresse dal Papa sono più o meno corrette. C'è un argomento decisivo che elimina ogni perplessità: i buddisti non si riconoscono in tali affermazioni. Non basta questo a dimostrare che sono errate?
L'accaduto costringe a riflettere su considerazioni fin troppo ovvie: la fede non è un complesso di elementi logico-razionali dei quali si può parlare secondo sillogismi, ma è piuttosto esperienza vissuta. Come a dire: chi può parlare di fede, in termini puntualizzanti, se non chi la vive? Come si può dar giudizi sui contenuti di una fede che non è la propria? Sarebbe come se un sordo volesse spiegare agli udenti che cos'è il suono, e un cieco stabilire che cosa significa vedere.
In questi giorni s'inseguono le polemiche sulla destituzione del vescovo Gaillot dalla sua diocesi, che rispolverano tra l'altro temi caldi come nuovo catechismo, pastorale dei divorziati, sacerdozio femminile, morale sessuale. Argomenti molto diversi dal primo, e tuttavia un elemento li lega tutti insieme: una mentalità autoritaria che pretende d'imporre il proprio punto di vista. Intendiamoci bene, non si tratta affatto di rifiutare un Magistero, che è indispensabile, ma di esortarlo a far convivere le esigenze dello slancio profetico con il rispetto altrui. Nel merito, le posizioni di Gaillot sono certamente discutibili, ma i metodi usati e i provvedimenti presi creano difficoltà sul modo d'intendere la comunione ecclesiale.
Non sono gli atteggiamenti di rigore e fermezza nel proporre le tesi ufficiali a creare difficoltà, ma la pretesa di voler stabilire dove altri sbagliano. Credo che ogni deviazione ecclesistica abbia sempre avuto origine da proposizioni negative, dal voler giudicare gli altri secondo il proprio punto di vista, ignorando o travisando il loro. Evidentemente non è molto seguita l'esortazione di Gamaliele a non preoccuparsi troppo delle affermazioni altrui, perché se sono di origine umana tramontano presto, mentre se sono di origine divina si corre il rischio di combattere contro Dio (cfr At 5,38-39).
Se si liberasse dal peso psicologico di essere "la voce" dalla quale non è lecito dissentire, e si proponesse come una voce rispettosa delle opinioni altrui, il Magistero riacquisterebbe, paradossalmente, un'autorevolezza che oggi non ha. Potrebbe insegnare con rigore, chiarezza e, volendo, perfino severità, ma contemporaneamente riconoscere diritto di cittadinanza ad altre voci, dentro e fuori la chiesa, che si propongono obiettivi analoghi, ciascuna secondo le proprie capacità. Forse sono un inguaribile ottimista, ma mi domando spesso a quale altro livello ci troveremmo ora, noi cristiani, se avessimo avuto il coraggio di annunciare semplicemente la verità di Cristo senza la pretesa d'imporla, se avessimo capito che la verità non ha corazza e spada, ma è come un'aurora gentile, tenera, disarmata che rischia di farsi male, quando viene trattata con poca delicatezza. E quale attrattiva eserciterebbe sugli altri una chiesa ecumenica prima di tutto al suo interno, purificata da ogni tentazione autoritaria, interamente al servizio delle coscienze! Da tempo sogno un Magistero attivo, che annuncia, afferma, propone, senza perder tempo a contestare gli altri; un Magistero che mentre traccia con decisione la propria strada, per metterla a disposizione di chi vuole liberamente seguirla, ha il coraggio di sperare che ve ne siano anche altre, altrettanto valide; un Magistero capace di proclamare con forza il suo messaggio senza più rischiare di far danni, perché finalmente convinto che la verità diventa concretamente vera solo quando qualcuno è disposto ad accoglierla per farla propria.
Varcare la soglia della speranza: e chi potrebbe non condividere questo auspicio del Papa? Ma sul come fare vi sono (fortunatamente) diverse opinioni. Molti hanno paura del dissenso e lo giudicano sconveniente, mentre altri considerano di grande aiuto le contestazioni che giungono da oriente e occidente, perché prima o poi lasceranno il segno e costringeranno ad abbandonare le istanze autoritarie. La speranza è là dove nessuno decide per gli altri, e per varcarne la soglia è indispensabile convertirsi a un totale rispetto delle coscienze.
pubblicato da ADISTA 4 febbraio 1995
ASSOCIAZIONE TEOLOGICA ITALIANA
Scoprire la carità dopo venti secoli
Ricordo che Rahner, in uno dei suoi ultimi articoli, rilevava come la mentalità media consideri a priori ovvie certe posizioni acquisite faticosamente dal Concilio Vaticàno Il. Forse questa lentezza nell’adeguarsi ai tempi deriva dalla preoccupazione, da sempre viva nella chiesa cattolica, di basare le proposizioni su solide motivazioni teologico-dottrinali, le quali però, una volta assimilate, rischiano di trasformarsi in altrettante resistenze a ulteriori conquiste.
Questa premessa per dire che anche ai congressi di teologia, come quello tenuto nei giorni scorsi a Trento dall’Ati (Associazione Teologica Italiana) può capitare di sentir porre i problemi in modo stupefacente per la mentalità comune. Semplificando in una sola frase l’interrogativo di fondo che ha fatto da supporto ai lavori, il settimanale diocesano di Trento ha intitolato l suo ampio servizio: «E se la Chiesa nascesse dalla carità?». Sembra quasi voler dire che non ci aveva mai pensato nessuno. Nel testo poi, sottolinea ancor più il paradosso aggiungendo: «Porre la carità come scaturigine della Chiesa porterebbe a notevoli e sorprendenti novità non solo nella teologia ma anche nella vita della Chiesa al suo interno e nei confronti del mondo».
Lo stupore, per un laico amante della teologia ma non specialista, e in permanente ricerca di fede come il sottoscritto, non è una novità. Da anni frequentatore abituale dei congressi ATI, ogni volta ho sempre provato una piacevole meraviglia nel vedere tanti «professori disposti a rimettersi a discutere anche sugli interrogativi più scontati. Senza acquiescenza, anzi, talvolta un po’ spietati nel demolirete tesi altrui, emerge tuttavia un atteggiamento sufficientemente aperto e umile, pur se i risultati non sempre corrispondono alle buone intenzioni. L’atmosfera che si respira è comunque positiva, il pluralismo è apprezzato, la ricerca coraggiosa è stimolata. Peccato che il tutto resti poi racchiuso in un’oasi privilegiata e che poco, troppo poco, giunga fino a livello delle parrocchie e delle strutture ecclesiali a contatto con la vita quotidiana.
Quattro giornate di congresso, dal pomeriggio di lunedì 9 alla mattina di venerdì 13settembre. Presenti anche numerosi laici di ambo i sessi. Relazione introduttiva di Severino Dianich, ritenuta da alcuni un po' riduttiva perché non attenta a tutte le varianti del problema, e tuttavia sufficiente a stimolare un caloroso avvio del dibattito. Particolarmente interessante è là dove il teologo, dopo aver esaminato la situazione generale, conclude: «è logico interrogarsi se è giusto che le garanzie della professione di fede siano così rigorosamente strutturate, mentre non esiste nella struttura ecclesiale garanzia alcuna in difesa di quella "forma fidei"’ (la carità), senza la quale la fede stessa non è una virtù). È il riconoscimento esplicito che la chiesa cattolica si preoccupa da sempre soprattutto della «verità» mentale e teorica, anche a costo di farne fare talvolta le spese proprio alla carità, che è l’unica verità concreta e indiscutibile rivelata da Cristo.
Quattro gruppi di studio. Il primo, condotto da Bruno Forte, si è caratterizzato per un confronto dialettico su quale sia l’elemento fondante la chiesa: se il Gesù storico o l’immagine sottintesa della Trinità. Forse le due ipotesi potrebbero convivere in senso complementare se fossero chiariti meglio i due diversi punti di vista. L’importante è che in entrambe le posizioni teologiche si riconosce lo spirito di carità, in qualsiasi modo scaturito, come materia prima per la costruzione ecclesiale.
Nel secondo gruppo, animato da Pino Ruggeri. si è affrontato lo scottante problema della tolleranza e intolleranza. Senza perdersi in scontate e sterili critiche a episodi del passato e del presente, ma con la chiara consapevolezza di quanto sia facile tradire le buone intenzioni, l’attenzione è stata accentrata sulla necessità da un lato di non svalutare le verità di fede, e dall’altro lato di rispettare fino in fondo le convinzioni altrui. Il drastico non giudicare di Gesù deve valere anche per la chiesa intera. Ci si è chiesti se sia possibile annunciare con fermezza la verità senza essere intolleranti, ed è stata avanzata la proposta, pur se utopistica, che la chiesa si preoccupi di affermare gli aspetti positivi della fede, ossia quanto viene proposto a credere, anziché addentrarsi nell’impossibile compito di stabilire i confini tra ciò che è giusto o sbagliato. Su questa linea è stato rilevato che sarebbe necessario riprendere dall’inizio il concetto stesso di verità, dietro il quale non hanno mancato di affiorare numerose e diffuse perplessità. Pur partendo da diverse posizioni, l’attuale modo di concepire e disporre della verità appare ai più assolutamente inadeguato alle esigenze del tempo presente.
Il terzo gruppo di studio, tenuto da Giuseppe Mattai, ha cercato di generalizzare l’insegnamento che si può estrarre a partire da esperienze di vita vissuta. Il riferimento a certi santi, famosi e sconosciuti, del passato e del presente, si è rivelato particolarmente ricco e suggestivo. E stata così messa in evidenza la necessità, anche per il teologo, di guardare a chi fa carità assai più che parlare di carità.
Il quarto gruppo, tenuto da Luigi Sartori, ha indagato sul modello ecumenico. La presenza e la partecipazione attiva, tra tanti cattolici, anche del pastore valdese Sergio Rostagno, ha contribuito a un confronto concreto. Particolarmente significativa, sul piano del vissuto, la testimonianza della signora Mancini, mamma di due figli (cattolici) sposati l’uno con una evangelica, l’altra con un musulmano. Più ecumenismo di così. Molto vivi i dibattiti che ne sono seguiti. In particolare, per citare solo alcuni contributi, Molari ha insistito su una chiarificazione del rapporto fede-amore, finendo col dire che forse solo adesso si comincia a vivere la carità veramente fondante per la chiesa. Citrini ha sottolineato che il significato di comunione si esprime nella continuità, al di là delle difficoltà che si incontrano nei singoli momenti, Ardusso, parlando della verità, ha evidenziato che accanto a una «sana passione» esiste anche, talvolta, un atteggiamento patologico. Rostagno, citando Lutero oltre che San Paolo, ha chiesto di riflettere di più sul tema della fede basata sull’amore e non viceversa, giacché, ha aggiunto, «alla fine della realtà c’è l’amore e non la fede».
Si anche rilevato che ad alcune suggestive aperture dei vertici ecclesiastici in prospettiva ecumenica (è stato ricordato il Papa che prega con i riformati e parla a una folla di musulmani) corrisponde il tentativo di una maggior chiusura all’interno. Pare, insomma, che la dialettica e il dissenso siano tollerati finché non emergono oltre i confini della chiesa. Il rapporto con gli altri dev’essere delegato all’autorità gerarchica, la quale così può mostrare un volto con un’identità ben definita. Su tale ipotesi, Benvenuto ha sottolineato che non si può cercare prima una propria identità per poi proporsi agli altri, perché l’identità stessa prende forma e si definisce proprio nella condivisione e nel confronto. E questo vale anche per la chiesa di Cristo.
Gira e rigira, alla fine è emerso un soggetto rimasto pressoché sottinteso per tutto il congresso: l’autorità. Qualcuno ha proposto di prenderla come tema per il prossimo congresso, giacché non si può parlate di carità, e tanto meno di tolleranza, senza identificare quale modello di autorità ecclesiastica la favorisca o meno. Non si tratta di criticate la gerarchia esistente, cosa fatta e rifatta fin troppo in altre sedi, ma di ricercare insieme, soprattutto dal punto di vista dei fedeli, un’ipotesi di autorità che sia ad un tempo determinata e coraggiosa, attenta e stimolante, rigorosa e tollerante. In altre parole, che sia autorevole anziché autoritaria. Infatti, come dice il Nuovo Dizionario di Spriritualità (ed. Paoline, 1979, pag. 1027) «il fedele ha il dovere di non assuefarsi a un’autorità ecclesiale situatasi nell’ambiguità: deve spronarla a convertirsi al Signore... Con ossequio filiale e con amore caritativo deve impegnarsi a promuovere nell’assemblea ecclesiale la presenza di un’autorità quanto più corrispondente alla grandezza del Cristo».
Ne abbiamo bisogno, perché di questi tempi sta emergendo un fatto nuovo del quale non si avverte ancora pienamente la portata. L’autorità ecclesiastica conserva un potere nei confronti del clero e dei religiosi, sui quali ha una giurisdizione, ma non ha più alcun potere nei confronti dei laici. L’ultima forma di potere, infatti, è la pressione psicologica esercitata da una religiosità impostata sulla minaccia (del castigo divino) e sul perdono. Un po’ come l’antico metodo del bastone e della carota. Ma una volta passate le generazioni dei cinquantenni, che hanno ricevuto in prima persona i condizionamenti di una tale educazione, e di coloro fra i più giovani che, esagerando in talune contestazioni, hanno finito per assorbire il moralismo dell’antimoralismo, l’impotenza dell’autorità attuale sì rivelerà in tutta la sua drammatica dimensione. La minaccia, infatti, non interessa nemmeno più. Quanto al perdono, i giovani d’oggi si rivolgono al sacerdote come amministratore del sacramento, desiderosi di ascoltarne anche gli stimoli e i suggerimenti, ma non sono più disposti a delegargli il giudizio critico sui comportamenti altrui. Preferiscono, insomma, lasciare l’ultima parola direttamente al Padre che vede nel segreto delle coscienze.
Fra qualche anno, qualche decennio al massimo, l’autorità ecclesiastica sarà ascoltata (e anche cercata) solo se saprà essere interessante e convincente, mentre non le servirà più a nulla scagliare anatemi. Forse proprio per questo saprà farsi più aderente a Cristo, che non a caso insegnava con autorità, pur non avendo alcun potere.
pubblicato da COM NUOVI TEMPI del 6 ottobre 1985
I coniugati a 15 anni dal Concilio
«Il benessere della persona e della società umana e cristiana è strettamente connesso con una felice situazione della comunità coniugale e familiare... La dignità di questa istituzione non brilla però dappertutto con identica chiarezza, poiché è oscurata dalla poligamia, dalla piaga del divorzio, dal cosiddetto libero amore e da altre deformazioni». Così si esprime il Concilio (Gaudium et Spes n. 47), e certamente non si può negare che poligamia, divorzio, libero amore e altre deformazioni oggi molto diffuse non contribuiscano a facilitare una «felice situazione della comunità coniugale e familiare». Ma non bisogna confondere causa con effetto. E’ bene rendersi conto che non sono queste piaghe a provocare l’odierna pesante crisi del rapporto coniugale, ma è piuttosto la sua grave crisi a facilitare il diffondersi di queste ed altre piaghe.
Salvo forse rarissime eccezioni, nessuno affronta il matrimonio con riserve mentali, mentre, in seguito, se il rapporto è deludente o esasperante, si apriranno di conseguenza le porte ad ogni deformazione. L'immaturità dunque è la prima causa della crisi. Il rapporto coniugale è assai spesso affrontato con scarsa consapevolezza e scarsissima preparazione. Nella maggior parte dei fallimenti matrimoniali, sia quelli espliciti, sia tutti quegli altri che mascherano dietro una facciata di convenienza un altrettanto drammatico fallimento, piaghe e deformazioni sopraggiungono soltanto dopo che si sono lasciati formare gli spazi atti a recepirle. La carenza di preparazione, la superficialità, la scarsa disponibilità a costruire insieme un rapporto che sia sano e conveniente per entrambi, ed inoltre l’insufficiente attenzione ai problemi e alle necessità del coniuge, sono altrettante aperture a risultati negativi. Una maggiore esperienza, una migliore preparazione, una più profonda attenzione potrebbero prevenire tanti drammi. Senza bisogno di attingere alle statistiche, ciascuno di noi ha nella sfera delle proprie conoscenze qualche esempio di rapporti coniugali falliti. Ed è facile notare come, nella maggior parte dei casi, i coniugi, una volta usciti dal fallimento del proprio matrimonio, si ricostituiscano poi un altro rapporto di tipo coniugale, che di solito riesce a proseguire nel tempo con un equilibrio abbastanza soddisfacente. Come mai questo arcano? Perchè mai, dopo aver compromesso inevitabilmente un rapporto. al punto da non poter essere più salvato, le stesse persone sono capaci in seguito a mostrare una ben diversa determinazione costruttiva? Perché è più facile costruire un rapporto soddisfacente dopo un fallimento? Evidentemente lo scotto di un’esperienza disastrosa vissuta in prima persona conduce forzatamente a quella maturità che in precedenza era carente per mancanza di adeguata preparazione.
Affrontare l’argomento in modo esauriente sarebbe assai lungo. Vale però la pena di accennare al punto fondamentale, che racchiude in sé, direttamente o indirettamente, ogni problema di coppia. Si tratta della fedeltà. Quanto si è svalutata e resa esteriore questa parola! Si finisce per considerarla esclusivamente dal punto di vista fisico, mentre il suo significato, in relazione alla comune costruzione matrimoniale, è ben più ampio e profondo.
A che gioverebbe una pura fedeltà fisica, quando non fosse accompagnata da un coinvolgimento nella costruzione di una vita quotidiana in comune? E, d’altra parte, quando nel rapporto umano e affettuoso si fosse creato un distacco, o peggio una qualche forma di contrapposizione, quale senso positivo conserverebbe più una pura fedeltà fisica,. ridotta a semplice atteggiamento esteriore? Bisogna rendersi conto fin dall’inizio quale importanza e quale ampiezza abbia il vero significato del concetto di fedeltà.
Il rapporto coniugale ha speranze e possibilità di riuscita soltanto nella misura in cui i coniugi che l’affrontano sanno rinunciare ad un atteggiamento di difesa l’uno dell’altro, per sapersi coinvolgere nella costruzione di una vita in comune. La coppia deve cessare di essere somma di due persone per diventare unità. "Coppia" è una parola singolare. "Tu" ed "io" devono sparire per diventare "noi". Ed anche questo noi deve essere una singolarità. I problemi non devono più essere collocati fra i due componenti la coppia, a creare barriere e a provocare fratture. la coppia invece, unita nei due componenti fianco a fianco, che deve guardare unitariamente il problema posto davanti a sé, conscia che vera soluzione è soltanto quella soddisfacente per la coppia nel suo insieme, e non in misura diversa per ogni singolo componente.
Ogni problema, quando viene posto in mezzo ai due, spinge inevitabilmente a voler prevalere sull’altro con il risultato di stimolare ad uno spirito di rivalsa e provocare fratture insanabili, irriducibili, distruttive. Se non si ha ben chiara coscienza che il prevalere sull’altro significa automaticamente rendere meno solido, meno concreto, meno soddisfacente il proprio rapporto di coppia, non si è ancora maturi per un progetto matrimoniale.
Ma chiarito bene tutto questo, resta indubbiamente vero che anche la fedeltà fisica, la fedeltà sessuale, è d’importanza determinante per la costruzione e la realizzazione di una fedeltà più totale. E l’unica speranza, in questo senso, è indubbiamente legata alla massima valorizzazione del rapporto sessuale all’interno del rapporto coniugale. Finito per sempre il tempo in cui il sesso era visto per principio come qualcosa di negativo, accertato ormai una volta per tutte che un’educazione basata sulla repressione sessuale è causa di tante aberrazioni, si delinea ormai che la strada più costruttiva è indubbiamente quella di favorire la valorizzazione massima della vita sessuale, inserita all’interno di un più ampio disegno di fedeltà generale alla vita di coppia.. Là dove, insieme agli altri elementi necessari, l’aspetto sessuale è abbastanza soddisfacente, il rapporto coniugale e la vita familiare sono brillanti e positivi anche oggi, pur nella pesante crisi dell’istituzione matrimoniale. Ma in questi casi la maturità dei coniugi è tale da penetrare a fondo e vivere il vero significato della fedeltà donata spontaneamente per costruire sempre più a fondo un rapporto soddisfacente. Una fedeltà che nessuno esige a priori dall’altro, ma che ciascuno si preoccupa di donare tutta intera, in primo luogo preoccupandosi di fare quanto è possibile per riempire totalmente gli spazi necessari al coniuge, e rendergli possibile il suo essere fedele.
Che cosa la Chiesa postconciliare può fare per aiutare noi sposi cristiani. a valorizzare e rendere più profondi e concreti i nostri rapporti coniugali?
Guardiamo, ad esempio, il problema degli anticoncezionali. Il principio, esplicitamente espresso nell’Enciclica Humanae vitae resta ancorato al rigido divieto di tutto ciò che non rientra nei metodi strettamente naturali.. Di fatto poi, nelle direttive pastorali, si è giunti ad una tolleranza pressoché totale per tutto ciò che riguarda le componenti del rapporto sessuale vissuto nell’ambito della, vita coniugale.. E non soltanto nei confessionali o a livello di pastorale personalizzata.
Il Vicariato di Roma ha. stampato recentemente un fascicolo che riassume dati e disposizioni pastorali relative ai consultori familiari (I Consultori Familiari, Dispense del Centro Pastorale per l’animazione delle comunità cristiane ed i servizi socio caritativi, Vicariato di Roma, 1978)1 Si tratta dunque di una impostazione ufficiale che rispecchia, in concreto, il pensiero e l’atteggiamento della Chiesa.
A: pagina 65, sotto i titolo “Aspetti etico-pastorali del problema degli anticoncezionali”, in un lungo ed esauriente elaborato di oltre venti pagine, viene sviluppato assai accuratamente l’argomento. Precisato che innanzi tutto il rapporto matrimoniale è un bene primario che merita ogni sforzo per essere salvato e valorizzato, accertato che una sessualità seria, piena e soddisfacente può essere determinante allo scopo (valori dell’atto comiugale, pagg. 72/74); prese in esame attentamente sia la “Gaudium et Spes” che la “Humanae Vitae” insieme ai numerosi commenti interpretativi; confermato che, come dichiarazione di principio, il ricorso all’uso di contraccettivi resta definito “disordine morale”; di fronte però alle reali e innegabili difficoltà che i coniugi si trovano ad affrontare nella loro vita matrimoniale, conclude: (Il ricorso ai sacramenti) “Nei casi in cui appare evidente che la coppia, nonostante la sua buona volontà, non è soggettivamente riuscita a intravedere altre vie per salvare i maggiori valori della convivenza coniugale, se non quella della contraccezione, si deve evitare che essa si rifugi in uno stato di frustrazione, nell’idea angosciosa che il suo comportamento implichi la perdita della grazia di Dio”. E prosegue (pag. 85) “Fatte queste precisazioni, nei confronti della coppia che fosse ricorsa al contraccettivo nella leale convinzione che nessun’altra via le rimanesse per salvare ciò che in quel momento essa riteneva il valore più grande, sarà evidentemente saggio e costruttivo, sul piano pastorale, persuaderla a non rinunciare per questo solo fatto a ricevere l’Eucarestia; tenendo presente che la scelta contraccettiva in quelle condizioni concrete non è stata nella coscienza dei coniugi che uno sbocco praticamente inevitabile, e di conseguenza soggettivamente incolpevole. Che poi un ricorso periodico al a sacramento della riconciliazione possa e debba essere consigliato, ciò deriva non dal fatto che vi sia colpa imputabile, ma dall’efficacia particolare del sacramento, che costituisce, con la sua grazia risanatrice una premessa favorevole a una maturazione progressiva nella linea dei valori coniugali e familiari”.
Si noti: una volta ribadita l’ovvia e scontata necessità di compiere anche in questo caso, come in qualsiasi altro, una scelta responsabile, precisato esplicitamente che. l’uso del contraccettivo non implica “la perdita della grazia di Dio”, né vi è bisogno di ricorrere al sacramento della riconciliazione perché non vi è “colpa imputabile”. Sul piano pastorale poi non si tratta di “permettere” alla coppia l’accostamento all’eucarestia, ma si precisa addirittura che “sarà saggio e costruttivo persuaderla a non rinunciarvi”.
Eccellenti precisazioni. Ma. a rileggere l'Humanae Vitae nasce una sensazione di disagio. Il fedele riceve l’impressione che da un lato si voglia mantenere un principio rigido, e dall’altro si strizza l’occhio ad ogni infrazione, purché non lo si dica forte. Una più esplicita chiarezza non guasterebbe. Perché se indubbiamente su questo punto i coniugi, a grandissima maggioranza, sono facilmente indotti a seguire in silenzio le tolleranti direttive pastorali, anziché i rigidi enunciati di principio, una simile abitudine potrebbe portare a conseguenze ben più pesanti in altri settori.
Il fedele, infatti, abituatosi a pensare che nella vita concreta non tanto alle affermazioni di principio bisogna rapportarsi, quanto agli accomodamenti che si possono ottenere in altra sede, può sentirsi facilmente autorizzato, anche in altri e ben più gravi casi, a prendere con “beneficio d’inventario” i divieti espressi ufficialmente. Qualcuno potrebbe ad esempio essere indotto a credere che anche in casi come l’aborto si pronuncino divieti di principio, pronti poi ad essere accomodanti sul piano pastorale.
Ecco che cosa, noi sposati, ci aspettiamo dalla Chiesa postconciliare: una maggiore coerenza fra enunciati di principio e disposizioni pastorali, per aiutare i coniugi a valorizzare tutti gli spazi leciti all’in temo del progetto matrimoniale, con particolare attenzione ai problemi del sesso. Tanto maggiore sarà la valorizzazione della vita sessuale all’interno del rapporto di coppia, tanto più vi sarà speranza di uscire dall’attuale crisi. Ed oggi un simile risultato è possibile solo sulla strada di una chiarezza semplice e lineare, capace di indicare senza cavilli e ambiguità quali sono i limiti concreti e non soltanto teorici del comportamento cristiano.
Firmato da Giulia e Antonio Thellung
pubblicato nel volume: Il Concilio davanti a noi ed. Queriniana 1980
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