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Sulla vita comunitaria

 

Problemi di vita comunitaria

Nella convivenza quotidiana si creano problemi di vario tipo, tanto più accentuati quanto più i rapporti sono stretti e coinvolti. Potrei dire di essermene accorto per esperienza, dopo quasi 52 anni di vita matrimoniale, gli ultimi 25 dei quali trascorsi in una piccola comunità di famiglie.

La nostra Comunità del Mattino, fondata alla fine degli anni '70, ha compiuto un percorso che si potrebbe definire ricco e variopinto. Per anni una parabola ascendente, in espansione, con attività fiorenti sia all'interno che verso l'esterno. Due dozzine di persone tra grandi e piccini, conviventi sotto lo stesso tetto, disposte a mettere in comune se stesse e i propri beni. Momenti significativi, incontri fecondi con altre comunità, vivaci e struggenti celebrazioni, toccanti esperienze d'assistenza ai malati, giornate comunitarie ricche di partecipazioni e d'inventiva. E perfino l'inattesa occasione di fondare una comunità sorella in Polonia. Ma una volta raggiunto l'apice, una parabola tende per sua natura a ritornare verso il piano di partenza. E così, con la crescita dei ragazzi e il mutare delle esigenze, ma anche per taluni contrasti irrisolti, alcune famiglie sono tornate a mettere su casa per conto proprio ed è rimasto ormai solo un piccolo resto del Mattino: tre famiglie al momento, con la previsione che una, fra qualche mese, cambierà anch'essa abitazione. Per certi versi un'evoluzione naturale, ma bisogna anche riconoscere che qualcosa non ha funzionato.

Tra comunità religiose tradizionali e comunità di famiglie vi sono differenze sostanziali. Nelle prime, vale innanzi tutto il rapporto diretto tra ogni singola persona e la comunità intera. Nelle seconde, invece, ciascuno ha da un lato un rapporto verso la comunità, e dall'altro verso la propria famiglia. Questo duplice aspetto può generare talvolta conflitti molto difficili da affrontare. Per fare un esempio, supponiamo che all'ora di qualche celebrazione io (persona singola) mi trattenga a leggere un libro o a guardare la televisione, rendendomi ritardatario o assente senza giustificati motivi. Commetterei, ovviamente, una grave scorrettezza nei confronti degli altri componenti la comunità. Ma supponiamo che abbia un figlio (ancora bambino), che magari ha subito qualche frustrazione e ha bisogno di sostegno, e in quel momento mi dica che ci terrebbe moltissimo a fare qualcosa assieme. Ovviamente, mi troverei in uno sgradevole conflitto con me stesso.

Avvenimenti di questo tipo, ma talvolta assai più complessi, sono stati frequenti nelle nostre esperienze per motivi che si potrebbero definire costituzionali. Ad esempio, nelle comunità monastiche l'obbedienza può essere applicata in modo più o meno restrittivo, nel senso di consentire più o meno a ciascuno di esprimere e sostenere le proprie opinioni, ma alla fine c'è sempre un superiore che decide, e obbedire significa comportarsi secondo le sue indicazioni. In una comunità di famiglie invece emergono assai più frequentemente priorità in relazione al momento specifico, priorità che possono essere riconosciute e valutate solo dalla propria coscienza. In sostanza, resta fondamentale il confronto comunitario, ma poi sarà sempre la coscienza personale di ciascuno a dover prendere le decisioni che contano.

Questo problema è stato da noi affrontato con la scelta di essere espliciti, di mettersi in discussione, di non tacersi approvazioni e dissensi, creando di fatto una dinamica di gruppo senza animatore che costringe comunque al confronto. Un cammino faticoso che conduce a drastiche alternative: capirsi o prendere le distanze, convertirsi o fuggire. La chiave sta nel farsi dire: un'arte difficilissima, al di là di quel che può sembrare a prima vista. L'esperienza ci ha dimostrato che l'unico modo per sapere come va il rapporto comunitario è farselo dire dagli altri, perché sovente le interpretazioni personali si rivelano ingannevoli. Il nostro vissuto testimonia che andare d'accordo è possibile: per anni abbiamo condiviso cucina, pasti, soggiorno, guadagni, spese, scelte. Una prova fra tante: non abbiamo mai litigato per questioni di soldi. Ma per riuscirci bisogna costruirsi i metodi adatti.

Uno strumento particolarmente efficace l'abbiamo intitolato: il sole non tramonti sulla tua ira, ma splenda sulla tua gratitudine. In cappella teniamo un cestino con dei sassi e un certo numero di candele. Durante la preghiera della sera, dopo uno spazio di silenzio, chi avverte un proprio stato d'animo negativo (di qualsiasi tipo) nei confronti di qualcun altro, prende un sasso e glielo pone davanti, senza fare commenti. Appena finita la preghiera, chi ha ricevuto il sasso è tenuto a chiederne i motivi (a quattr'occhi) per giungere rapidamente al chiarimento. Reticenze o rinvii sono considerati scorretti, come altrettanto scorretto sarebbe evitare di rendere esplicita le istanze negative nei confronti altrui, cosa che toglierebbe anche ogni "diritto" a lamentarsi (sia con gli altri che fra sé e sé). Siccome però l'esplicito non vale solo per denunciare le ombre, ma anche per incoraggiarsi verso la creatività, ecco le candele, da accendersi per comunicare luci. In questi casi le motivazioni vengono condivise subito, perché sottolineare il positivo è sovente il modo migliore per trasformare il negativo. E poi la fiamma delle candele aiuta a coltivare la gratitudine.

Tuttavia c'è sempre l'altra faccia della medaglia. Se da un lato la libertà di coscienza appare senz'altro positiva, per non lasciarla scadere nell'arbitrarietà ma farne un autentico decidere insieme c'è bisogno di pazienza e determinazione, qualità che richiedono tempo, talvolta molto tempo. Proprio questo è stato uno dei problemi più pesanti, che ha inciso negativamente sulla coesione comunitaria. Non le difficoltà legate a quello che si potrebbe chiamare l'inevitabile attrito della convivenza, faticoso da gestire ma identificato chiaramente come un amico che costringe ad andare oltre. Di questo non abbiamo mai sentito la voglia di lamentarci, ma il tempo necessario da dedicare a un'autentica condivisione quotidiana finiva per ridurre quello da dedicare ad altre attività.

Non abbiamo mai litigato per questioni di soldi, ma questo non significa che non vi siano state difficoltà. Fino a qualche tempo fa avevamo in comune entrate e spese, ma dato che le esigenze di lavoro erano diverse per ciascuno, ecco il sorgere di particolari problemi. Mai però problemi gravi, nel nostro caso, anche perché la scelta di vita comune è naturalmente legata alla sobrietà. Ad esempio, il vestiario non è mai stato importante per molti di noi, abituati a utilizzare sovente abiti di seconda mano. Ma alcuni lavoravano in uffici dove l'abbigliamento aveva le sue esigenze, e quindi si trovavano nella necessità di acquistarne di nuovi. La cosa però non ha mai creato conflitti, perché la possibilità di vestirsi come capita è sempre stata considerata da tutti un comodo privilegio.

Ricordo che una volta era nata qualche difficoltà per la scelta di un'automobile. Uno di noi era produttore assicurativo, doveva quindi girare molto e la sua vecchia utilitaria era ormai defunta. Occorreva acquistarne un'altra, e lui avrebbe desiderato comprarne una nuova, di tipo medio ma già abbastanza costosa. Nell'abituale riunione comunitaria ciascuno espresse francamente il suo parere, nel complesso orientato verso l'acquisto di un'auto usata, più economica. Ricordo che l'interessato era andato a dormire un po' contrariato e deluso, ma la mattina dopo aveva aderito senza difficoltà all'opinione comune, che anch'egli riconosceva più ragionevole.

Sul versante alimentazione, un mangiare fatto di cibi semplici ed economici (per quanto è possibile oggi), era (e continua a essere) gradito a tutti. La cucina comune, organizzata secondo un calendario che assegnava la responsabilità a turno (anche degli approvvigionamenti), pur essendo gestita ogni giorno da persone diverse finiva per avere caratteristiche abbastanza uniformi, e mai nessuno se ne è lamentato (salvo casi di particolari infortuni culinari, utilizzati per lo più per risate e prese in giro). Cucinavamo una volta al giorno, mangiando tutti assieme in lunghe tavolate, e lasciando a ciascuno gestirsi l'altro pasto in modo autonomo, all'ora preferita, da solo o a piccoli gruppi, utilizzando per lo più avanzi o altri cibi rapidi (col risultato, al massimo, di litigarsi qualche avanzo).

Alcuni problemi li abbiamo avuti sul versante pulizie e ordine. Tante persone (grandi e piccoli) nella stessa casa tendono a creare il caos, di fronte al quale non tutti reagiscono allo stesso modo: c'era chi non ne era per nulla infastidito, e chi ci soffriva, soprattutto quando polvere e segni d'altro genere cominciavano ad accumularsi su mobili e pavimenti. Anche per le pulizie c'erano incarichi e turni, assunti liberamente da quanti avevano possibilità di svolgerli. Ma talvolta rispettarli non era facile, con tante attività in corso. Così poteva capitare di sentirsi dire: «non prenderti l'incarico, se non lo puoi rispettare». Ma anche di sentir rispondere: «se non me lo prendo, non lo faccio di sicuro, neppure quando potrei. Se me lo prendo, per lo meno qualche volta ci provo». Ma chi non gradiva vedere la casa sporca restava sovente frustrato, così talvolta emergevano rimostranze e proteste. Su questo, non siamo mai riusciti a identificare quale fosse la via migliore.

Sul versante spirituale il nostro obiettivo è stato (ed è) quello di promuovere un cristianesimo esistenziale, capace di superare la sacralità di luoghi e gesti. Non manca chi mostra perplessità sul nostro fare tutt'uno tra chiesa e soggiorno, perplessità che sarebbero giustificate se il nostro far tutt'uno significasse ridurre la chiesa a salotto. Ma se, al contrario, fosse un modo per trasformare il salotto in luogo dello Spirito? A noi sembra ovvio che il muro di separazione tra soggiorno e cappella non abbia alcuna importanza per Gesù Cristo, e troveremmo ipocrita rinunciare a comportarci in chiesa come si fa abitualmente in un soggiorno; ma anche lasciarci andare, in qualsiasi luogo, a comportamenti che ci vergogneremmo di tenere in chiesa. Resterebbe da stabilire se in tal modo si svaluta la chiesa o si valorizza il salotto, ma non possiamo valutarlo noi, che ci limitiamo a compiere un piccolo tentativo di promuovere una spiritualità del quotidiano. Talvolta ci è capitato perfino di giungere quasi alla lite, durante una messa, cosa che per un po' ci ha posti in uno stato di sgradevole incertezza; ma poi abbiamo capito che è meglio litigare davanti al Signore che tentare di nascondersi, come a volersi illudere di poter coltivare conflitti nel privato, senza che se ne accorga.

La vita comunitaria ci ha maturato moltissimo. Intanto come stimolo a non adagiarsi sulle difficoltà. Sulla nostra bacheca, una scritta ammonisce: «Non dire mai: non ce la faccio. Potresti finire per crederti». Poi ci ha insegnato che rimandando la disponibilità a più tardi si rischia di non trovarla più. E soprattutto che la via maestra per essere felici è coltivare la gratitudine per quello che c'è, anziché rammaricarsi per quello che manca.

Per finire, potremmo dire che per anni abbiamo lavorato in profondità, elaborando strumenti e metodi per affrontare in comune le problematiche della vita quotidiana: una teorizzazione eccellente, alla quale tuttavia non ha corrisposto un'adesione altrettanto profonda nell'intimo, in grado di stabilizzarne i risultati e proiettarli verso il futuro. Probabilmente siamo rimasti troppo borghesi nell'intimo per consolidare i frutti. E tuttavia ciascuno di noi è profondamente convinto, anche ora che siamo verso il termine della parabola discendente, che alcuni anni di vita comunitaria sarebbero da consigliare a tutti.

Pubblicato su Monte Senario gennaio/aprile 2005

 

 
Quale spiritualirà?

La spiritualità del Mattino si fonda particolarmente sul senso che traspare dalla parola Padre. Una parola che nel linguaggio comune può avere significati equivoci, data la presenza su questa terra di tanti padri-padroni, magari generosi e benevoli verso i figli sottomessi, ma spietati verso i ribelli. Ben diverso è il Padre che Gesù ci ha rivelato: un genitore che si pone interamente al servizio di tutti, buoni e cattivi (Cfr. Mt 5,45) per educarli a crescere con il suo amore e la sua disponibilità, fino a renderli adulti e liberi. Un Dio che desidera più di ogni altra cosa che la sua vita si compia nei figli, in modo da potersi rispecchiare in loro; che si pone in rapporto diretto con ciascuno, per aiutarlo a far fruttare al meglio i suoi talenti; che non si stanca di chiedere collaborazione per creare e ricreare insieme il suo e il nostro mondo.

Percepire il senso di un tale Padre equivale a sentire l’unità della famiglia umana. D’istinto, infatti, verrebbe da domandarsi perché mai dovremmo riconoscerci tutti fratelli e sorelle, visto che siamo così diversi. Ma se crediamo realmente di avere un unico genitore, il problema è risolto. Percepirne il significato, al di là delle parole, stimola a guardarsi con amore anziché in cagnesco. Un amore reciproco, tale da rendere evidente che ogni conflitto è fratricida, e ogni discriminazione improponibile. Non è più possibile dividersi tra noi e gli altri, per il semplice fatto che non ci sono più “altri”. Nella vita comunitaria, che è la nostra chiesa concreta, quest’immagine si potrebbe dire oggetto di continua riflessione. Sant’Ignazio diceva: «Fidati come se tutto dipendesse da lui, ma contemporaneamente agisci come se tutto dipendesse da te». E' questo binomio impegno-fiducia a garantire che nessuno resterà indietro. Così, nel quotidiano svolgersi delle attività comunitarie, il senso di questo Dio esigente e misericordioso a un tempo è stimolo da un lato a fare senza indugio la propria parte, e dall’altro a essere tolleranti con i fratelli, senza perder tempo a sindacare i loro comportamenti.

Una volta scelta la via di Cristo, nessuno può più permettersi di poltrire o di approfittare del lavoro altrui. Perciò, se qualcuno sembra trarsi indietro, viene spontaneo pensare che avrà le sue buone ragioni, e qualcun altro prenderà volentieri il suo posto. Che se poi, dopo aver fatto la scelta comunitaria, venisse la tentazione di lasciarsi andare ad atteggiamenti passivi, ci si troverebbe a un tale livello di contraddizione da aver ancora più bisogno di non essere abbandonati.

Un buon genitore si prodiga per amore dei figli: e come potrebbe impedirselo? Per dirla con la Sapienza, «Il suo amore viene trovato da chiunque lo cerca, per farsi conoscere previene quanti lo desiderano, e chi si leva di buon mattino lo troverà seduto alla sua porta» (Cfr. Sap 6,12-14.). Sorelle e fratelli sono invitati a fare altrettanto.

Non quindi un tipo di amore protettivo e consolatorio, che lascia prevalere il desiderio di essere amati sulla gioia di amare; o la preoccupazione di porsi dalla parte “giusta” sulla voglia d’impegnarsi a fondo per superare le ingiustizie. Si tratta invece di un amore educativo, che trasforma la persona che lo accoglie rendendola capace a sua volta di amare. Possiamo testimoniare che ricordarselo quotidianamente l’un l’altro, anche con la semplice presenza, è fonte di benefici frutti.

La consapevolezza di essere un’unica famiglia suona come invito a superare ogni forma di schieramento. Non siamo dipendenti di un Dio-potere impegnato a separare buoni e cattivi, ma di un genitore vulnerabile, perché sa che la sconfitta di un qualsiasi figlio sarebbe la propria sconfitta. Un Dio che, per mestiere, trasforma il male in bene e chiede a figli e figlie di fare altrettanto, ciascuno come può.

Con un’esperienza quotidiana che non risparmia ostacoli e difficoltà, sarebbe arduo procedere senza avere a fuoco un obiettivo al di là del semplice stare insieme. Malgrado i nostri limiti abbiamo capito che la possibilità di andare d’accordo è direttamente proporzionale alla percezione della disponibilità che riceviamo gratuitamente dal nostro genitore. Ogni cristiano è incaricato di compiere le “opere del Padre”, e noi sappiamo di riuscirci assai poco, forse troppo poco rispetto alle nostre potenzialità. Ma qualcosa di significativo l’abbiamo assaporato, come ad esempio la ripetuta esperienza di assistere gli ammalati, molti dei quali ci hanno segnati per sempre.

In sintesi, ci sembra di aver trovato motivazioni sufficientemente chiare, legate al senso di una fede esistenziale e, quindi, sperimentabili negli eventi quotidiani. Quanto alla capacità di mantenerle vive, chi ne sarà mai all’altezza? in ogni caso uno straordinario patrimonio maturato insieme, che ci ha accompagnato durante tutta la parabola, anche nei momenti negativi; un valore che permane tuttora anche in coloro che hanno scelto di uscire dalla comunità per camminare su altre vie. Che cosa sapremo farne in futuro, si vedrà, ma intanto l’esperienza fatta dimostra che scoprire il senso della paternità divina equivale a dare un senso alla vita.

pubblicato da Koinonia giugno 2003
estratto dal libro: Quel che resta del Mattino

 
 

Il resto del Mattino

La comunità del Mattino: una parabola iniziata da quasi un quarto di secolo, sorretta da speranze e utopie, fermenti e frustrazioni, incoraggiamenti e contrasti. Per anni la parabola sale, nuovi fratelli si aggregano, la comunità si espande, le attività fioriscono, sia all'interno che verso l'esterno. Momenti significativi, incontri fecondi con altre comunità, ecclesiali e non, vivaci e struggenti celebrazioni, toccanti esperienze d'assistenza ai malati, giornate comunitarie ricche di partecipazioni e d'inventiva. Ma la parabola, per sua natura, una volta raggiunto l'apice tende a ritornare verso il piano di partenza. I ragazzi crescono, le esigenze cambiano, alcune famiglie tornano a metter su casa per conto proprio. Inevitabile? Forse, ma bisogna riconoscere che qualcosa non ha funzionato.

Tre famiglie, in partenza, poi sei, più alcuni single che si sono alternati nel tempo. Due dozzine di persone, tra grandi e piccini, disposte a mettere in comune se stesse, oltre che i propri beni. La cappella, cuore pulsante della comunità, accoglie le preghiere del mattino e della sera (oltre a celebrazioni eucaristiche e veglie notturne) nelle quali tutti siamo impegnati a comunicarci gli eventi positivi della giornata, ma anche quelli negativi, in modo che il sole non tramonti sulla tua ira. La libera scelta di essere espliciti, di mettersi in discussione, di non tacersi approvazioni e dissensi, ha creato una dinamica di gruppo senza animatore, costringendo ad affrontare il confronto comunque. Un cammino faticoso che propone drastiche alternative: capirsi o prendere le distanze, convertirsi o fuggire. Una testimonianza vissuta che andare d'accordo è possibile: per anni abbiamo condiviso cucina, pasti, soggiorno, guadagni, spese, scelte. Una prova fra tante: non abbiamo mai avuto contrasti per questioni di soldi.

E tuttavia qualcosa non ha funzionato. Sarà forse inevitabile la voglia, prima o poi, di ritornare su antiche abitudini? O il bisogno, per dei ragazzi che crescono, di maggiori spazi personali? O che ciascuno, vissuta l'esperienza, senta la necessità di portarla altrove? Fatto sta che oggi siamo in pochi, e l'attività comunitaria si è alquanto ridotta. Solo alcune parti della casa sono rimaste comuni, mentre ciascuno ha una sua zona di privacy dove gestirsi con maggiore autonomia. La cappella aspira ancora a essere cuore pulsante, ma le diverse esigenze fan sì che non sempre riesca a catturare molti interlocutori, ritrovandosi talvolta perfino desolatamente vuota. Potremmo definirci ormai "il resto del Mattino", quel poco che rimane delle aspirazioni vissute.

Eppure quel poco non è poco. Se da un lato il fallimento è innegabile, frustrazioni e rammarico non sarebbero giustificate. La nostra liturgia delle ore non avrà più la cadenza quotidiana, luoghi e momenti delle nostre celebrazioni saranno meno intensi e qualche volta più scarsa l'attenzione a Cristo, e tuttavia questa spiritualità un po' sfilacciata e saltuaria consente allo Spirito Santo di soffiare quando vuole, né più né meno di quanto faceva ai tempi di un maggior impegno. E se si pensa che di solito l'alternativa, per dei laici, è nessuna spiritualità (o quasi), anche un cammino un po' zoppicante si dimostra pur sempre ricco di stimoli e risultati.

L'esperienza comunitaria ci ha cambiati. I benefici che scaturiscono dal condividere la vita quotidiana con sorelle e fratelli sono grandi, e si vedono nel tempo. Soprattutto disaccordi e contrasti possono insegnare tante cose, creando un attrito comunitario, talvolta fastidioso, ma capace di far maturare succosi frutti. Com'è possibile, mi son chiesto tante volte, non riuscire a capirsi? Coloro che mi contestano sono forse nemici? Cattivi? Sciocchi? Nient'affatto, li conosco bene, so quanto valgono e dove sono diretti. Insomma, via via che l'esperienza matura, lo stupore prevale sulla suscettibilità e l'indignazione, perché fratelli e sorelle che hanno scelto insieme la vita comunitaria sanno bene che nessuno di loro può avere intenzioni malevole. Lo stupore per tutte le paradossali incomprensioni aiuta a mettersi reciprocamente nei panni degli altri, così il cammino prosegue anche nei disaccordi. Ecco il senso ecclesiale, la chiesa domestica, il cristianesimo vissuto. Si potrebbe definire un piccolo tentativo di costruire giardini per il Regno di Dio.

Non è solo il ricordo dei momenti d'oro, o la ricchezza del materiale raccolto, o gli incontri con sorelle e fratelli in ricerca, ammalati, sofferenti o impegnati a spargere semi di vita, ad alimentare il nostro cammino, ma la percezione del cambiamento avvenuto dentro di noi. Certamente un'intensa condivisione, com'era un tempo la nostra, richiede molto tempo, e gli impegni di oggi non la consentono più. Ma quel poco che resta può essere sufficiente a ciascuno per esprimere nei vari aspetti della propria vita attuale il senso dei valori vissuti. Quelli di un'esperienza che, almeno per qualche tempo, credo sarebbe utile a tutti.

Per questo, personalmente, mi sento ora impegnato a comunicarne quel che potrò. Negli oltre vent'anni trascorsi, di materiale ne abbiamo accumulato moltissimo, e potrei dire che oggi il mio lavoro primario consiste nel rielaborarlo, per chi fosse interessato a conoscerlo. Alcuni libri sono già usciti, altri sono in preparazione o in pubblicazione, i riscontri sono incoraggianti. La speranza è di riuscire a trasmettere semi di vita.

pubblicato da Genitori e Figli marzo 2002

 

LA SCOPERTA DI DIO COME PADRE NELLA VITA Q UOTIDDIANA

Tutto dipende dall’immagine di Dio che ci portiamo dentro, se il Dio della tenerezza o il Dio della violenza e dell’arbitrio, che costringe l’uomo a opporsi o sottoporsi». Questo pensiero del cardinale Martini esprime con molta efficacia la realtà della nostra vita. Di solito siamo portati a sottovalutarne il senso e l’importanza, dimenticando che l’immagine di Dio che «ci portiamo dentro» può anche essere un idolo, una chimera, un non-dio, una qualsiasi ideologia che indica i valori (o i non- valori) ai quali più o meno consciamente ci ispiriamo. Perciò, non si può parlare di «scoperta del Padre» senza prima identificarne le caratteristiche.
Ad esempio, se lasciamo prosperare nel nostro intimo quell’immagine del Dio-potere (e giustiziere) che ancor oggi, pur con le migliori intenzioni, viene tanto spesso proposta, finiremo per concepire la Chiesa come gendarme di Dio e per ridurre la religione a un arido codice di comportamento. Così, senza neppure rendercene conto, l’immagine di un Dio magnanimo e generoso finché si vuole ma che premia chi sta dalla parte sua e punisce chi lo rifiuta, o se si preferisce, per usare le parole del cardinale Martini, che costringe l’uomo a opporsi o sottoporsi, ci spingerà a dividere gli uomini in buoni e cattivi, facilitando schieramenti, contrapposizioni, conflitti che sono l’origine di tante tragedie umane. E tale atteggiamento condizionerà i rapporti tra frateDi e l’educazione dei figli anche nei piccoli episodi di vita quotidiana.

«C’è chi si rivolge a Dio per paura di subirne il castigo, chi per averne in cambio un beneficio, e chi lo cerca semplicemente perché se ne sente attratto. I primi sono schiavi, i secondi mercenari, Solo i terzi sono veri figli, che desiderano soltanto stare insieme al loro padre». Questa stimolante riflessione, patriinonio della mistica medioevale, ci invita ad abbandonare ogni secondo fine che, quand’anche fosse nobile, sarebbe pur sempre riduttivo nei confronti dell’affascinante immagine del Padre, che Gesù ci ha descritto e manifestato con chiarezza. Un’immagine ideale per suscitare e coltivare lo spirito ecumenico.

«Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro». E Dio Padre a garantire che gli uomini sono tutti fratelli, tutti di pari dignità. Ma non basta ancora dire così, perché la parola padre può avere per noi un suono equivoco, dati i molti esempi di pessimi padri con i quali c’imbattiamo ogni giorno. Spesso, troppo spesso, vediamo su questa terra affermarsi dei padri-padroni, i quali possono anche voler bene ai figli, ma usano metodi molto diversi da quelli che Gesù ha indicati.

Il padre-padrone è generoso e magnanimo con i figli che si sottomettono e seguono le sue direttive, ma può diventare spietato con chi cerca di affermare una propria autonomia. Anche quando è mosso da buone intenzioni, impone con promesse e minacce di eseguire i suoi ordini, si esprime attraverso atteggiamenti autoritari, spersonalizza i suoi figli spingendoli a un rapporto servile. Ben diverso è il Padre che ci ha rivelato Gesù: un Padre che, rinunciando a ogni discriminazione di principio, si pone al servizio di tutti (buoni e cattivi - cf Mt 5,45) per educarli a crescere con amore e disponibilità fino a renderli adulti e liberi. Egli desidera, più di ogni altra cosa, che la sua stessa vita si compia nei figli, e spera di vedersi rispecchiato in loro. Per questo si pone in rapporto diretto con ciascuno, per consentirgli di far fruttare al meglio i suoi talenti, secondo le sue caratteristiche personali, chiedendogli di collaborare alla pari per realizzare insieme un progetto comune. Un Padre, insomma, che rinuncia a qualsiasi beneficio per sé, e si pone interamente al servizio dei figli.

Anche sotto un padrone vi può essere, di principio, pari dignità: gli stessi diritti e gli stessi doveri in una sudditanza equivalente per tutti. Forse questa immagine potrebbe bastare a introdurre il rispetto per gli altri, ma fino a che punto? Diritti e doveri si possono infrangere, giustificando trattamenti diversi per chi non li rispetta. E così il senso di fraternità viene facilmente subordinato a condizioni particolari, col risultato di considerare fratelli solo coloro che sono in regola con il codice di comportamento stabilito.

L’insegnamento di Gesù, invece, conduce a un senso del Padre che impedisce di guardare ai fratelli se non con amore: un amore completamente gratuito e disinteressato che crea le premesse per rapporti comunque costruttivi, anche in situazioni difficili e scabrose, quando sembra inevitabile dover cadere nel conflitto. Riconoscersi fratelli in un contesto di amore reciproco, è prendere coscienza che ogni conflitto è fratricida, e ogni divisione improponibile. Infatti non ci siamo più noi e gli altri, per il semplice motivo che non ci sono più «altri».

Possesso, potere, prestigio: le tre «p» che regolano i rapporti tra gli uomini, creando tante tragedie! Le tre «p» manipolate spesso perfino con giustificazioni divine! Ma Gesù le lascia al «Principe di questo mondo» e con la sua «rinuncia alle tentazioni» (cf Lc 4,1-12) non fa altro che ricalcare le orme del Padre, il quale rinuncia al possesso: «tutto ciò che è mio è tuo» (Lc 15,31), rinuncia al potere mandando il figlio, che è uno con lui, «a servire e non a essere servito» (Mt 20,28), rinuncia al prestigio mettendosi perfino al servizio dei suoi (presunti) servi (cf Lc 12,37) trasformandoli così in figli. L’immagine di questo Padre, che per primo rinuncia a proporsi dall’alto in basso, elimina ogni giustificazione al «mio» e «tuo», perché tutto è nostro. Non soltanto beni e possessi materiali, ma anche capacità e talenti, che in quest’ottica vengono utilizzati non più come strumenti di sopraffazione altrui o di affermazione di sé, ma come patrimonio a disposizione di tutti per il bene comune.

Su questa «scoperta del Padre» si basa la spiritualità della Comunità del Mattino (una piccola comunità di laici sposati e con figli che vivono sotto lo stesso tetto mettendo in comune se stessi oltre ai propri beni). Nello svolgersi della vita comunitaria, L’immagine del Padre è motivo di frequenti riflessioni, anzi, si potrebbe dire che è oggetto di una continua riflessione che si sviluppa giorno dopo giorno. E il riscontro nella vita pratica appare sempre più evidente. Nei rapporti interpersonali, ad esempio, i non mancano certo contrasti e tensioni, talvolta anche piuttosto aspri (siamo tutti di temperamento vivace), eppure la fiducia reciproca si è ormai consolidata al punto da diventare indelebile. Rinunciando, nella gestione comunitaria, a qualsiasi forma coercitiva (abbiamo istituzionalizzato la rinuncia al principio di autorità), ciascuno sa di essersi assunto in i proprio ogni responsabilità, ed è cosciente che tentare di mascherare le proprie mancanze, difendersi quando si è in difetto, cercare meschine rivalse nei confronti altrui, equivale a smentire se stessi e a tradire le scelte fatte.

La via del cristiano si caratterizza per una costante ricerca d’equilibrio tra impegno e fiducia. Diceva sant’Ignazio: «abbandonati al Padre come se tutto dipendesse da lui, ma contemporaneamente agisci come se tutto dipendesse da te». Camminando sulle vie del Signore dobbiamo aver fiducia che completerà lui in qualche modo ciò che non riusciremo a realizzare noi, ma contemporaneamente guai se assumessimo un atteggiamento passivo, delegando a lui la soluzione dei problemi che spetta a noi affrontare. La tensione che scaturisce naturale da questo binomio impegno-fiducia non provoca però angoscia o smarrimento, quando appare chiara l’immagine della realtà divina. Sulla volta della Cappella Sistina, in uno dei grandi affreschi di Michelangelo, è rappresentato il Padre con un braccio alzato e il dito della mano puntato in avanti, mentre con l’altra mano sostiene e porta con sé alcune donne e bambini, simbolo dei deboli. In senso metaforico, secondo una delle molte possibili interpretazioni, l’uno rappresenta il dito dell’esigenza, l’altra la mano della misericordia. L’esigenza è stimolo a crescere, a diventare adulto, maturo, responsabile, a prendere coscienza. Perciò il Padre sprona continuamente il figlio affinché dia frutto. Ma contemporaneamente gli dice: non temere! Tu metticela tutta: se poi non ci riesci, se non hai abbastanza forza, se cadi, io ti raccoglierò per portarti con me. Non ti lascerò mai solo. Ed il rapporto collettivo con i fratelli, la dimensione ecclesiale, a garantire che nessuno resterà indietro, che nessuno verrà abbandonato a se stesso.

La Chiesa, per chi ha scelto di vivere comunitariamente il cristianesimo, si realizza concretamente, innanzi tutto, nella propria comunità di vita. Così, nel farsi carico quotidianamente dei lavori domestici e comunitari, quest’immagine del Padre, esigente e misericordioso a un tempo, è il miglior stimolo da un lato a fare senza indugio la propria parte, e dall’altro lato a essere tolleranti con i fratelli, senza vo- 1cr sindacare se stanno anch’essi facendo la loro. Nessuno, una volta scelta la via di Cristo, può più permettersi di poltrire o di approfittare del lavoro altrui. Perciò, quando apparentemente qualcuno pare trarsi indietro, viene spontaneo pensare che avrà le sue buone ragioni, e qualcun’altro prenderà volentieri il suo posto. Che se poi qualcuno, dopo aver scelto la vita comunitaria, si lasciasse andare ad atteggiamenti passivi, si troverebbe a un tale livello di contraddizione da aver bisogno, ancor più di altri, di essere raccolto e portato con sé.

Un padre, un buon padre, compie qualsiasi cosa per amore dei figli. E come potrebbe impedirselo? La sua disponibilità è tale che, per dirla con le parole della Sapienza, «il suo amore viene trovato da chiunque lo cerca, previene, per farsi conoscere, quanti lo desiderano, e chi si leva di buon mattino lo troverà seduto alla sua porta» (cf Sap 6,12-14). E questa consapevolezza ad alimentare al meglio la nostra capacità d’amare. Come dice Giovanni: «noi amiamo perché egli ci ha amati per primi» (1 Gv 4,19), ed è naturale! Se la sua realtà, che è fonte della nostra vita, non fosse una realtà d’amore, dove potremmo attingere la capacità d’amare anche noi? Ma ora che siamo stati nutriti dal suo Spirito, possiamo lavorare al suo fianco per compiere le sue opere tra gli uomini.

Il suo non è un amore protettivo, come spesso ci piacerebbe che fosse, ma un amore educativo. L’amore protettivo può lenire le sofferenze, coprire i difetti, alleviare le difficoltà, ma lascia sostanzialmente le cose come stanno: è un amore statico. Nell’ottica dell’amore protettivo l’ambizione di essere amati prevale sul desiderio di amare, il secondo fine prevale sulla genuinità, la preoccupazione di porsi «dalla parte giusta» prevale sul desiderio d’impegnarsi a fondo per eliminare le ingiustizie. Quanto è facile finire fuori strada quando la ricerca di protezione diviim viene anteposta alla donazione gratuita del proprio amore!

L’amore educativo invece è tutt’altra cosa: è creativo e trasformante. Educare, dal latino ex-ducere, significa trarre fuori, fare emergere. L’amore educativo trasforma la persona che l’accoglie rendendola capace a sua volta d’amare. Ed è in questo incontro d’amore che si sente concretamente cambiare il proprio modo di essere e la propria vita. E un incontro a disposizione di tutti, qualunque sia il proprio itinerario di vita, ma in una dimensione comunitaria, impostata proprio sulla ricerca in comune del Padre; si può trovare l’ambiente ideale per coltivare al meglio questa consapevolezza e tradurla in esperienza pratica. Accorgersi di essere capaci d’amare e ricordarsi quotidianamente l’un l’altro, anche con la semplice presenza, che ci siamo esplicitamente impegnati a compiere concreti gesti d’amore, è il modo per far prendere coscienza dell’unicità e indissolubiità dei «due primi comandamenti»: amare il Padre e i fratelli. Infatti, se «chi non ama il fratello che vede non può amare Dio che non vede» (1 Gv 4,20), è anche vero che «prendiamo coscienza d’amare i figli di Dio quando amiamo Dio» (1 Gv 5,2), quando lo sentiamo Padre.

La vita comunitaria è indubbiamente costellata di ostacoli e difficoltà, tanto da far pensare che sia impossibile portarla avanti a lungo, se non si guarda al di là del semplice vivere insieme. Per noi è diventato facile andare d’accordo perché, malgrado la nostra mediocrità talvolta scoraggiante, ci proponiamo l’ambiziosa meta di esprimere, ciascuno come può, quello stesso spirito di gratuita disponibilità che sentiamo emergere dall’immagine del Padre. E così, lentamente, accanto a un modo di vivere che conserva ancora fin troppi elementi consumistici e borghesi, vediamo anche maturare e affermarsi sempre più i delle scelte orientate secondo le «opere del Padre». Non molto, per il momento. Forse troppo poco rispetto alle nostre possibilità potenziali, ma intanto fi tempo dedicato al serviio dei fratelli sta regolarmente aumentando, e il problema è tenuto costantemente vivo perché è ormai diventato elemento primario della nostra vita.

Ma vi sono anche altri frutti, particolarmente interessanti perché specifici della vita comunitaria: è la riscoperta di antiche abitudini, presenti da sempre nel patrimonio spirituale cristiano ma ai tempi nostri un po’ disprezzate, che si sono riproposte a noi come elementi indispensabili quando la vita è orientata alla ricerca del Padre. Dapprima l’esigenza di pregare insieme mattina e sera con regolare cadenza quotidiana, e la necessità di celebrare settimanalmente un’eucarestia comunitaria. Poi il desiderio di avere uno specifico momento settimanale di adorazione eucaristica, l’introduzione di uno spazio quotidiano dedicato all’esame di coscienza e la ripetuta esperienza di legare insieme i vespri della sera e le lodi della mattina seguente con veglie notturne, in silenzio, stabilendo turni secondo le esigenze di ciascuno. E non basta. Qualcuno ha scoperto di poter pregare regolarmente in compagnia di grandi santi, qualcun’altro che gli esercizi di contemplazione, portati avanti con perseveranza, producono frutti duraturi. È finita per emergere anche la proposta di digiunare una volta la settimana, che molti comunitari hanno fatta propria ormai da tempo, scoprendo che il digiuno può diventare un eccellente esercizio di consapevolezza, capace di far percepire meglio le proprie esigenze fisiche, psichiche, spirituali.

Ultima nata in ordine di tempo, ma rivelatasi ben presto la più importante e significativa, è l’abitudine, ormai consolidata, di alzarsi periodicamente nel cuor della notte per ritrovarsi insieme in cappella a pregare. Una preghiera prevalentemente silenziosa, per sentirsi alla presenza del Padre e percepirne il mistero. Personalmente posso dire che se un tempo qualcuno mi avesse detto che un giorno mi sarei alzato di notte a pregare, lo avrei preso per matto, mentre oggi non rinuncerei a questa cadenza della mia vita per nulla al mondo. E lo stesso dicono anche altri miei fratelli comunitari.

È un’esperienza che non si può descrivere, ma che ha inciso e continua a incidere in modo significativo sulla nostra vita quotidiana. Anche noi, come i monaci che da tempo vivono abitudini simili, ci siamo accorti che nel silenzio notturno la presenza del Padre assume contorni più nitidi, e si propone come uno specchio nel quale veder riflessa la propria realtà di vita. E così, questo ripetuto confronto, è la miglior garanzia che non è più possibile lasciarsi scivolare in posizioni di comodo. Nessuno potrebbe vivere regolarmente simili esperienze di preghiera e d’incontro con lo Spirito, e poi «farsi i fatti propri» nella vita quotidiana. L’unica alternativa diventa: convertirsi o fuggire.

Questo profondo senso del Padre è ormai, per noi, una realtà acquisita. Quanto alla capacità di viverlo con coerenza ogni giorno, il discorso cambia. Chi ne sarà mai all’altezza? Ma pur nei ricorrenti inciampi, nessun comunitario mette più in discussione la direzione di marcia. Non sappiamo ancora cosa riusciremo a farne di questo straordinario patrimonio, perché la nostra mediocrità non ci garantisce che la Comunità del Mattino saprà svilupparsi in modo da coltivare e offrire tanta inconsueta ricchezza. Ma l’averne fatta esperienza è già sufficiente a di- mostrarci che la scoperta di Dio come Padre ha segnato in modo irreversibile la nostra vita quotidiana, proiettandola verso un futuro affascinante. Un futuro che non potremo conoscere, se non vivendolo giorno dopo giorno, a mano a mano che si presenterà, fino a renderlo eterno presente.

pubblicato su VIA VERITÀ E VITA di gennaio febbraio 1987




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