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Un'altra Chiesa è possibile?

Koinonia - Convento S.Domenico, Pistoia - 22 dicembre 2002

  

 

 

Un'altra Chiesa è possibile?

 

 

MATTINA:

una Chiesa a dimensione famiglia

Alberto Bruno Simoni

Senza tanti preamboli, ringrazio Antonio per questa sua presenza fra di noi, e ringrazio anche tutti voi. Posso dirvi brevemente com'è nato questo contatto. Qualche mese fa lessi un suo libro dal titolo: Con la Chiesa oltre la Chiesa, che m'interessò molto, e feci qualche annotazione critica su Koinonia. Poco dopo lui mi cercò per uno scambio di idee, e successivamente ebbe occasione di passare a trovarci qualche mese fa. In quell'occasione è nata la proposta di passare una giornata insieme. Ecco, per dire come nascono le cose nell'occasionalità propizia. Ora ad Antonio la parola per tutto quello che vorrà dirci. Noi lo ascolteremo volentieri.

Antonio

Ogni volta che partecipo a un nuovo incontro mi sento felice, perché credo che lo Spirito Santo si manifesti particolarmente negli incontri tra fratelli e sorelle che lo cercano. Perciò ringrazio di cuore tutti voi per avermi invitato. Come vedete ho qui molti libri, ma state tranquilli perché non minaccio di leggerveli tutti. Li ho portati perché preparandomi a sviluppare questo tema, che ha per sopra titolo Europa terra di missioni (ma io aggiungerei anche America e tutto il resto del mondo) mi sono ricordato di alcune premonizioni del passato, e così ho tratto dalla libreria alcuni volumi. Questo, che s'intitola I limiti dello sviluppo, è uscito esattamente trent'anni fa, ed è uno studio del Massachusetts Institute of Technology sullo sviluppo sostenibile dal nostro pianeta. Uno studio, che prendendo in considerazione cinque parametri fondamentali, quali: aumento della popolazione, inquinamento, consumo delle materie prime e delle fonti di energia, sviluppo industriale, terre da coltivare, concludeva che se entro il 1975 non vi fosse stata una decisa inversione di tendenza, intorno al 2050 si sarebbe verificata, per semplice forza d'inerzia, una catastrofe inarrestabile. Di inversioni di tendenza non ne abbiamo viste, e oggi resta solo da sperare che il MIT abbia preso qualche abbaglio. Pochi anni dopo è uscito un altro saggio degli stessi autori dal titolo Quale futuro? che non allegeriva per nulla le previsioni, e nella stessa epoca circolavano altri saggi, come questi del professor Vacca dai titoli assai eloquenti: Il medioevo prossimo venturo e Manuale per una improbabile salvezza, che potrebbero essere tuttora d'attualità. Ho portato questi libri per sottolineare che molte delle attuali problematiche erano già presenti trent'anni fa, eppure nessuno (o quasi) ha fatto nulla (o quasi) per cercare almeno di contenere i danni. E neppure al presente si vedono segni di sufficiente attenzione.
Un'opinione comune, sovente inconscia, è che l'uomo ha sempre risolto problemi drammatici di tutti i tipi, nel corso della sua storia, e quindi riuscirà a risolvere in qualche modo anche questi. C'è una differenza, però: nel passato i problemi di questo tipo erano solitamente relativi, nel senso che se c'era sovrappopolazione in un luogo si potevano colonizzare nuove terre vergini, se si esauriva una miniera se ne potevano cercare altre, e via di seguito; oggi invece, che la globalizzazione investe l'intero pianeta, gli stessi problemi sono diventati di valore assoluto, e quindi non più risolvibili per vie esterne.
A tutte queste preoccupazioni si è aggiunto ora il terrorismo, che trent'anni fa non era previsto, per lo meno all'attuale livello devastante. E dato che la mentalità tuttora prevalente sembra quella del muro contro muro, la speranza viene ricacciata sempre più in un cantuccio. Di fatto, la civiltà occidentale ha creato delle strutture diaboliche dalle quali diventa sempre più difficile uscire, a meno che i "buoni", cioè quelli che si considerano dalla parte giusta, non decidano di convertirsi. In proposito ringrazio Koinonia che nel numero scorso (dicembre 2002) ha pubblicato la trascrizione di una mia conversazione, tenuta a Roma nel novembre scorso, dal titolo: Quando i buoni si convertiranno? alla quale rimando chi desidera approfondire l'argomento. Aggiungo solo che la posizione dei buoni, soprattutto quando viene radicalizzata, rischia sempre di condurre a situazioni diaboliche, ed è proprio quello che si sta verificando nel nostro tempo. Tipico l'esempio israelo–palestinese: ciascuno dei due popoli avrebbe il sacrosanto diritto di vivere in pace, ma la politica del nostro secolo è stata capace a creare, un passo dopo l'altro, quella complessa e consolidata struttura diabolica dalla quale è ormai difficilissimo uscire.
L'altro giorno, mentre ero in automobile, ascoltavo il secondo atto della Tosca, là dove la protagonista è disperata di fronte al dilemma: salvare l'amato o tradire qualcuno. Quella famosa aria che comincia col dire: vissi d'arte, vissi d'amore, non feci mai male ad anima viva. Probabilmente, pensavo, è vero che direttamente non aveva mai fatto del male a qualcuno, e tuttavia mi sarebbe piaciuto chiederle se aveva mai pensato che probabilmente, vivendo d'arte e d'amore, e godendosi la vita con le persone benestanti che frequentava, aveva contribuito e consolidare una società prepotente, basata sulla violenza e sulla repressione. O per meglio dire, a promuovere una società di buoni schierati contro i cattivi, consentendo in tal modo che i diritti delle persone venissero sempre più calpestati, fino al punto da doverne poi subire le conseguenze lei stessa. E allora cara Tosca, avrei avuto voglia di dirle, lo capisci ora che non basta non fare del male, ma bisogna intervenire attivamente per creare una società più equa e più umana, capace di costruire un futuro libero da strutture diaboliche? Vorrei aggiungere che, stranamente, quando chiedo ai bambini del catechismo (ma anche ad adulti) quale sia la sintesi del messaggio di Gesù, la risposta che più facilmente ascolto è: non fare agli altri quel che non vuoi sia fatto a te. Eppure Gesù non ha mai detto questa frase al negativo, mentre ha detto: fai agli altri quello che vuoi facciano a te. Non credo ci sia bisogno di sottolinearne la differenza. Credo che la sensibilità comune sia più facilmente portata ad assimilare la frase al negativo, perché è più comoda: mi basta non far nulla di male, e tutto il resto non è affar mio. Ma la drammaticità odierna ha tolto ogni giustificazione di comodo, ed è ormai chiaro che qualsiasi aspetto socioculturale e politico ci riguarda tutti. Perché oggi è finita l'era dei leader assolutisti, siano essi imperatori, re, padri e padroni di qualsiasi tipo, che hanno un seguito di sudditi senza responsabilità, perché ormai la presa di coscienza non è più arrestabile. In epoca di globalizzazione, la speranza nel futuro appare incompatibile con la figura del leader, che per sua natura è inevitabilmente contro qualcuno, mentre è legata alla presa di coscienza, unica possibilità di creare armonia.
Per entrare nel tema di quest'incontro, credo che la Chiesa del futuro potrà sperare d'incidere significativamente sul sociale nella misura che diventerà Chiesa delle coscienze. Una caratteristica, si badi bene, che fa parte del suo DNA costitutivo, ma che motivi di vario genere è sempre finita in secondo piano. Ora però, come ha detto recentemente una persona del calibro di Zanotelli, non si può più barare. Andate e annunciate: questo il mandato per la Chiesa, che invece, col passare del tempo, ha finito per preoccuparsi sempre più di governare se stessa e i propri beni. Ma se governare prevale su annunciare, allora la Chiesa prevale su Dio, con tutte le conseguenze che sappiamo. Oggi non ha più alcun senso preoccuparsi di definire a parole che cosa distingue i cristiani dagli altri, o d'inseguire ossessivamente la propria identità: oggi contano solo i frutti, i gesti, quei gesti di Cristo che mostrano la bontà dell'albero, e sui quali ci si può incontrare, o non incontrare, sia nel proprio ambiente socioculturale o religioso, sia nell'incontro con altre culture o religioni.
Le verità garantite non servono più, nessuno è più disposto a prendere per oro colato qualcosa definito da altri, le coscienze delegate non hanno più alcun ruolo, nulla ha più valore se non viene maturato nella propria coscienza. Credo che passate le generazioni dei cinquantenni, se l'istituzione ecclesiastica attuale non muterà indirizzo, ritroverà al suo interno soltanto gli integralisti, quelli che gradiscono strutture di tale tipo perché guardano alla Chiesa dal punto di vista sociopolitico, e la considerano luogo di aggregazione, di pressione sociale, di schieramento, di contrapposizione, particolarmente adatta per combattere contro qualcun altro. Da parte mia penso che sarebbe ora d'imparare a non essere contro nessuno, e da tempo tento di portare avanti la tesi dell'affettuoso dissenso, per promuovere l'esigenza di lavorare tutti per la nostra Chiesa, senza il rischio di tappare la bocca allo Spirito Santo, che soffia dove vuole, sovente più negli umili che nei governanti. La mia speranza è che il modello "Chiesa gendarme" sia abbandonato del tutto per promuovere, nel futuro, un'autentica Chiesa delle coscienze. Per chi fosse interessato, ho sviluppato l'argomento nel saggio citato prima da Alberto: Con la Chiesa oltre la Chiesa. Qui non mi sembra il caso d'insistere oltre, per chiederci invece come si potrebbe fare per favorire questo rinnovamento.
Da parte mia credo che bisogna tornare al senso originale del messaggio di Cristo, che è intriso di spirito familiare, che descrive Dio come un genitore a tutto campo, esigente ma senza rigidità, affettuoso ma senza debolezze. Ricordate il dipinto di Michelangelo sulla volta della Cappella Sistina detto della creazione di Adamo, dove Dio–genitore punta il dito dell'esigenza verso la creatura umana per stimolarla all'impegno, ma contemporaneamente raccoglie con l'altra mano i deboli per portarli con sé. Ecco il simbolo di un genitore a tutto campo, ecco lo spirito che la Chiesa è chiamata ad assumere. Troppo spesso la Chiesa è pronta a puntare il dito dell'esigenza (riprovare, condannare, scomunicare) lasciando nell'ombra la mano della misericordia (accogliere istanze diverse). È ora che impari a fare il contrario. Solo quando è garantita l'accoglienza, solo quando è chiaro che nessuno verrà emarginato, escluso, abbandonato, allora si può essere esigenti, si può chiedere a ciascuno di fare tutta intera la sua parte (che poi è semplicemente fare quello che si può, né più né meno). Questo la Chiesa deve ancora imparare: la mano tesa dev'essere misura dell'esigenza, deve precedere il dito puntato, e non vice versa.
Tutte le religioni, si potrebbe dire, si basano su rituali, codici di comportamento, leggi e norme, ma Gesù ci fa una proposta molto più semplice: amatevi come io vi ho amato, fate come ho fatto io. In sintesi, basta somigliargli, basta amare. Ma come si fa, concretamente? È evidente che per poter amare bisogna aver di fronte qualcosa di amabile, e da quando ho compreso quanto sia veramente amabile l'immagine di questo Dio, esigente al punto di chiedermi un impegno totale (ma per fare il mio interesse), e contemporaneamente sempre disponibile a rimediare alle mie mancanze, mi sono reso conto di quanto negativo sia stato proporre e insistere sull'immagine di un Dio onnipotente e giustiziere, che ha finito per diventare antipatica, suscitando paura e non sentimenti d'amore.
In un mio libro, intitolato Un po' meno della verità, ho cercato di entrare in merito alle contraddizioni che ci sono nel nostro bagaglio di fede, a cominciare dai Vangeli stessi, perché anche loro contengono ambiguità. In particolare, la sensibilità odierna sente l'esigenza di una giustizia che non sia emarginazione, perché tutte le forme di giustizia che finora conosciamo sono sempre contro qualcuno, sono sempre giustizia per alcuni a spese di qualcun altro. Ma se non troveremo una giustizia capace di non emarginare nessuno, saremo condannati a conflitti permanenti. L'unica speranza di riuscirci sarà ovviamente quella di rivisitare il senso stesso della verità, o meglio, non della verità in sé, che è più grande di noi e non riusciamo mai a capirla, ma del modo di accostarvisi e di considerarla. Perché il nostro modo tradizionale ha creato una verità che giudica, una verità non tanto preoccupata di affermare se stessa, quanto di stabilire dove gli altri sbagliano. Tuttavia, per non rischiare di fare del qualunquismo, ho cominciato tale libro col tracciare un quadro dell'immagine di Dio Padre, come viene fuori dai vangeli, raccogliendo tutte le frasi che ne parlano, in modo da non leggerle qua e là diluite in mezzo ad altri argomenti, ma da poterle vedere come quadro d'assieme. Mi sono impressionato, facendolo, perché ne viene fuori un'immagine che non potrà più essere ignorata. E una volta fatta propria, di fronte a singole frasi o immagini contraddittorie, verrà spontaneo tenerle in sospensione come cose che, pur non potendo essere ignorate, non possono neppure essere prese per buone sic et simpliciter, per non rischiare di entrare in contraddizione con il quadro d'assieme.
La sintesi di questo spirito divino nei confronti dell'uomo traspare limpida nella parabola del figliol prodigo. Che cosa fa il padre quando il figlio gli dice di volersene andare per i fatti suoi? Non gli fa la predica, non lo ammonisce, non gli chiede neppure dove voglia andare. Gli da quel che gli spetta, dimostrando di non voler decidere nulla sulla pelle dei figli. Dopo di che si pone semplicemente sulla porta nella speranza di vederlo tornare. Altro che il Dio onnisciente, occhio e orecchio che scrutano tutti i particolari per prendere nota di ogni cosa: oggi mio figlio ha detto questo, ieri aveva fatto quello, l'altro ieri peggio ancora, ma un giorno gli metterò davanti l'elenco perché si vergogni! Il padre del figliol prodigo non sa dove sia suo figlio né che cosa stia facendo, perché non gli ha messo nessun poliziotto alle calcagna. Non sa che sta soffrendo la fame, non sa che vorrebbe sfamarsi con le carrube dei porci, ma non lo fa perché nessuno glie ne da! Notate che il guardiano dei porci è lui, e quindi potrebbe allungare la mano e prendersele, ma è talmente alienato, nella sua coscienza, da non saper far nulla, se non ricevere ordini. Il padre non ha bisogno di sapere questi dettagli, perché gli ha già fornito per intero il suo bagaglio, quei suoi cromosomi che gli ha donato nel metterlo al mondo, quella potenzialità divina, che si chiama Spirito Santo e vive nel cuore di tutti gli esseri umani, che è capace di esplodere in qualsiasi momento. E infatti, quando quella situazione alienante diventa insopportabile, allora il figlio rientra in sé e decide di tornare. Si aspettava di ricevere il predicozzo, pensava di dover dimostrare il suo pentimento, era pronto a sottomettersi a qualunque diktat, ma suo padre vanifica d'un colpo tutti i suoi ragionamenti: sei qui, e solo questo conta.
Ecco lo spirito divino che è la base della Chiesa, e qui entriamo in ballo noi. Dicendo Padre nostro, la preghiera tipica di noi cristiani, che cosa intendiamo dire? Quel "nostro" siamo sicuri d'intenderlo tutti allo stesso modo? La parola può essere tremendamente ambigua, perché nostro può intendersi di noi che siamo qui, di noi occidentali, di noi cristiani, di noi cattolici. Quando diciamo che Dio è con noi, intendiamo che è con noi perché è con tutti, oppure che è con noi contro qualcun altro? I soldati tedeschi che lo portavano inciso sulle loro fibbie è probabile che intendessero "è con noi contro i nostri nemici". E giustificavano tale scelta perché evidentemente partivano dall'immagine di un Dio contro qualcuno, ben lontano da quella rivelata da Gesù. Probabilmente, nell'inconscio, tendiamo a pensare che quanti recitano il Padre nostro sono tutti inquadrati della stessa fede, sia pure con sfumature diverse, dimenticando che senza intendere inequivocabilmente che è genitore di tutti, e che quindi tutti sono realmente nostri fratelli e sorelle, di qualsiasi etnia o religione, si finisce per giungere perfino a gesti assurdi e blasfemi, come quelli dei cappellani che, in nome dello stesso Cristo, benedicono contemporaneamente, su fronti opposti, le armate pronte a coinvolgersi in spaventose carneficine. Il problema è gravissimo, se non facciamo chiarezza corriamo il rischio di dare per scontato che noi crediamo le stesse cose, mentre in realtà nella dimensione ecclesiale ci sono anche taluni contrasti insanabili. E a riprova chiediamoci come mai tra i cristiani cattolici c'è chi è schierato tra i pacifisti a oltranza, e chi è pronto a giustificare la strategia delle bombe? Gesù Cristo non ha dato un messaggio unico per tutti? Credo che tali ambiguità siano comunque legate al senso che diamo alla parola "nostro".
In concreto, altro è quel che si dice da quel che si sente. Dovrebbe essere addirittura ovvio ciò che Gesù spiega con chiarezza, e cioè che nessuno può conoscere il senso, il significato stesso di avere un padre, se non chi è figlio, chi si rivela figlio, chi prende coscienza di esserlo. Per me, il Padre assume un senso nel momento in cui mi sento figlio, altrimenti resterei nella teoria, in quella teoria dove si possono innestare facilmente molte deviazioni diaboliche. E credo non sia possibile sentirsi veramente figli senza percepire che tutti siamo concretamente fratelli e sorelle, con quelle conseguenze dalle quali non si può più fuggire.
Dallo schieramento all'accoglienza, dalla sottomissione alla somiglianza. Ma per poter coltivare e far crescere lo spirito d'accoglienza nei confronti degli altri, dei diversi, è prima di tutto necessario imparare a coltivarlo all'interno del proprio ambiente, della propria famiglia, della Chiesa, che è la grande famiglia dei cristiani. Prendendo atto che la famiglia funziona quando la pazienza, la tolleranza, la voglia di ricominciare restano sempre vive e perseveranti. Se mi pongo lontano dallo spirito familiare, quando qualcuno mi pesta i piedi o va fuori strada lo ammonisco a convertirsi e cambiare, anche col rischio di provocare qualche conflitto. Ma se va fuori strada mio figlio, mia sorella, una persona di famiglia, allora comincio a convertirmi io per andare da lui e ritrovare insieme la strada. E questo significa tenere sempre in primo piano la mano tesa. Come esempio personale, posso raccontare che, con la mia prima figlia, durante la sua età critica ho sempre tenuto un atteggiamento affettuoso ma piuttosto esigente. La cosa ha funzionato bene, evidentemente perché a lei andava bene così. Con la seconda però, giunti a un certo punto, mi sono spaventato, perché assumeva posizioni talmente rigide da farmi temere che prima o poi potesse compiere qualche follia. Il contrasto non era tanto sulle idee, ma sul fatto (poi evidente) che lei doveva comunque contestare l'autorità, perché aveva bisogno di trovare e affermare la sua autonomia. Allora ho cambiato atteggiamento, rinunciando a tenere la posizione, per poter mantenere un sufficiente dialogo, anche se tremavo via via che aveva sempre più la briglia sul collo. Più volte gli altri familiari si meravigliavano della mia pazienza, quando abitualmente paziente non lo sono per nulla. Ma quando è necessario, in un contesto di affetto e stima reciproca, s'impara a esserlo.
Ecco lo spirito ecclesiale, uno spirito familiare dove si passa dagli atteggiamenti "contro" a un clima di accoglienza. Uno dei più grandi equivoci storici del cristianesimo è stato il concetto di scomunica. Eppure nei Vangeli di scomunica si parla sostanzialmente solo quattro volte, e tutte le volte sono i seguaci di Cristo a subirla. Come mai questa rigidità, questo dito dell'esigenza incapace di farsi guidare dalla mano della misericordia? Accoglienza e tolleranza non sono affatto sinonimi di acquiescenza, ma indicano uno stato d'animo che, seppure determinato, è capace di non chiudere mai la porta, di non cacciare nessuno, di mostrarsi sempre pronto a ricominciare. Né rigidità né lassismo, ma un'esigenza che sappia incoraggiare con stimolanti attestati di stima e tranquillizzante affetto. Ecco lo spirito ecclesiale capace di far crescere le coscienze, capace di far diventare amici dello Spirito santo, unica condizione per riconoscere i comportamenti costruttivi di fronte alle drammatiche sfide del mondo odierno. Il clima ecclesiale familiare è Spirito santo che trabocca.
Ho qui un nuovo documento del Vicariato di Roma, scritto dal vescovo mons. Moretti, responsabile della pastorale familiare, dal titolo: La Parrocchia del Futuro, una Famiglia di Famiglie, dove dice chiaramente che la Chiesa non avrà futuro, se non si faranno protagoniste le famiglie. La Chiesa oggi, dall'esterno, è molto "snobbata", eppure io credo abbia in sé delle qualità che potrebbero condurla di nuovo a farsi protagonista di un rinnovamento. Magari piccole cose, all'apparenza, ma grandi nel significato. Prendiamo ad esempio il gesto di pace durante la messa: potrebbe sembrare un formalismo insignificante, e invece io credo che un gesto di pace ripetuto, anche se talvolta fatto con superficialità, prima o poi lascia un segno nel cuore. Noi siamo abituati a una società fatta a compartimenti stagni, con le famiglie che vivono chiuse in piccole scatole di cemento, sovente senza neppure conoscere il nome di chi abita sullo stesso pianerottolo, alla porta accanto. Questo è ormai normale, ma una volta non era normale. Ecco che il gesto di pace, dare la mano a uno sconosciuto, porta prima o poi a chiedersi il perché, quale senso possa avere. E se nasce questo interrogativo, allora vuol dire che il messaggio è passato, che il gesto ha ottenuto il suo scopo. Oppure quando andiamo a fare la comunione, ad esempio, quante volte mi viene da pensare: quale altro ambiente mette accanto persone così diverse, per cultura, livello sociale, qualità di vita: non ci sono barriere, è l'assemblea di tutti i presenti, ricchi, poveri, pacifisti, guerrafondai (speriamo pochi), pronti a incamminarsi insieme, fianco a fianco, a fare qualcosa che nessuno di loro capisce bene che cosa sia. E come potremmo capire le cose più grandi di noi? Però tutti insieme lo facciamo, e questo è un elemento di aggregazione formidabile.
Ecco che cosa offre la Chiesa, un ambiente dove si ritrovano insieme tante realtà diverse, perciò, se crescesse il coraggio di abbandonare gli aspetti discriminanti, se aumentasse il desiderio di ricercare le pecorelle che percorrono altre strade, non perché sono cattive e quindi hanno quello che si meritano, ma perché semplicemente tra le infinite vie del Signore ci sono anche talune strade fuori delle mappe, che tuttavia potrebbero non essere meno valide. Ecco, questo desiderio d'incontrarsi è lo spirito familiare che la Chiesa dovrebbe far proprio. Questa pluralità d'opinioni, questo sentirsi uniti tra diversi nel nome di Gesù salvezza, equivale all'atteggiamento che è presente in ogni famiglia, dove, se mio figlio va fuori strada, prima di accusarlo, riprovarlo, chiudergli la porta in faccia, mi converto io per andare da lui, per incontrarlo, per sperare di capirci meglio. E forse forse alla fine, per riuscire a convertirci insieme. Questa l'immagine di Dio, lo spirito di Dio genitore che Gesù ci ha rivelato: altro che un Dio impassibile, sempre uguale a se stesso! Al contrario un genitore che si sente sconfitto per ogni sconfitta di un qualsiasi figlio, un genitore che ha voglia di incontrare i più lontani, di capire le loro ragioni, di mischiarsi a fratelli e sorelle, che siamo noi, appartenenti alla sua Chiesa, alla sua famiglia. Ecco perché dobbiamo prima di tutto convertirci noi, per restare una famiglia aperta, che non esclude nessuno, che chiede perdono di non capire qualcuno, piuttosto che lamentarsi di non essere capita.
Per dirla in altre parole, credo che nel futuro sarà sempre meno importante distinguere formalmente chi è cristiano da chi non lo è, perché credo che il cristianesimo sarà finalmente maturo quando i cristiani impareranno a mostrare Cristo nei gesti, negli atteggiamenti, nelle opere, senza neppure bisogno di nominarlo.

Domanda:

Questo ricco bagaglio che hai esposto, come e quanto è stato elaborato attraverso la vostra Comunità del Mattino?

Potrei dire che in qualche modo tutto quello che da parecchi anni sto elaborando e tento di comunicare sia stato confrontato e filtrato attraverso la nostra condivisione comunitaria, che è sempre stata intensissima e ricca di risultati. Tanto per fare un esempio, molto intenso era l'uso della nostra bacheca, che raccoglieva stimoli e messaggi, i quali venivano poi arricchiti, modificati, discussi, e sovente rielaborati come sintesi di lunghe condivisioni. Proprio nella speranza che tanta ricchezza non vada perduta, ho da qualche anno cominciato a scrivere per fissarne i vari aspetti. I libri qui presenti, che mediamente sono stati pubblicati uno l'anno negli ultimi sei anni, affrontano diversi aspetti della vita, della fede, della morale. Ho preso impegno con me stesso di raccontare solo esperienza vissuta, e la responsabilità di quanto scritto è interamente mia. Tuttavia non saprei più dire, sinceramente, che cosa sia nato nella mia mente e che cosa sia stato assorbito da sorelle o fratelli comunitari. Nella nostra comunità abbiamo condiviso molto, moltissimo, forse troppo, e forse è anche per questo che la nostra parabola è entrata in fase discendente. Da qualche anno ci siamo un bel po' ridimensionati, e proprio per questo penso opportuno scrivere per comunicarne il vissuto. Il fatto che di tutti i comunitari soltanto io mi sia dedicato a scrivere e raccontare avvenimenti e riflessioni, non modifica il fatto che per buona parte quel che dico sia bagaglio comune. Nei dettagli qualcuno dei fratelli o sorelle comunitarie potrà dissentire, ma l'insieme è patrimonio comune, anzi credo che nulla sia soltanto mio.
Fra qualche giorno uscirà un nuovo libro con la storia della nostra comunità, che si chiamerà: Quel che resta del Mattino. Titolo emblematico, perché la comunità continua a esistere, camminare, esprimersi come può, ma indubbiamente rispetto alle aspirazioni del passato ha subito un forte ridimensionamento.

Domanda:

Mi ha colpito il riferimento al segno di pace, ma mi sembra inutile che si dia il segno di pace e poi non si rispetti il fratello, magari perché è di un'altra religione. Oggi anche il Papa dice di studiare le altre religioni, per sentirsi tutti fratelli. Eppure c'è una mentalità cattolica che dice: figuriamoci se un cattolico deve mettersi a studiare le altre religioni. Mi ha colpito l'affermazione che il concetto stesso di scomunica è stato un grande equivoco. Bella anche l'immagine del dito puntato e della mano tesa. Come si fa per superare queste diffidenze verso gli altri, pur praticando ognuno la propria fede?

È certamente incoerente dare il gesto di pace se non si ha spirito di pace. Eppure credo che non sia inutile, perché a forza di ripeterlo c'è da sperare che un atteggiamento diverso finisca per maturare. Uno dovrà pur dirsi, prima o poi: compio un gesto ma non sono coerente. Se qualcuno giunge a chiederselo sarà già un bel passo avanti. D'altra parte, nel richiamare le incoerenze, bisogna stare attentissimi che il richiamo sia di stimolo, e non basato su quel senso di riprovazione che diventa escludente. Altrimenti ritorneremmo sul versante scomunica.
In proposito, un criterio del nostro bagaglio di fede tradizionale che ritengo sia stato molto negativo, è quello di aver legato insieme i sacramenti della confessione e della comunione. Non puoi fare la comunione se non sei purificato, perciò purificati prima. A ben pensarci, è quanto di meno evangelico si possa immaginare. Forse che Gesù diceva ai peccatori che si avvicinavano a lui: vai prima a lavarti, poi vieni a parlare con me? Ma è proprio ai peccatori che diceva: prima di tutto vieni qui e incontriamoci. Poi, se l'incontro sarà significativo, allora potremo sperare che ti venga voglia di cambiare vita. È Gesù che porta alla conversione, non vice versa. Invece noi abbiamo detto: non puoi accostarti a Gesù se non sei purificato. Gesù è venuto per i peccatori, e noi, simbolicamente, vogliamo impedire ai peccatori d'incontrarlo.
Non meno importante è riflettere sull'esortazione ad amare i nemici. Bellissima, viene facilmente da dire, tanto io di nemici non ne ho. Proviamo a ritradurla: amate gli antipatici. In questo modo l'esortazione diventa estremamente impegnativa, perché di antipatici ne conosciamo tutti. Che cosa vuol dire amare gli antipatici? Sentire una sorta di benevolenza verso di loro, purché se ne stiano lontani? Si sa che l'antipatico viene isolato, beffeggiato, maltrattato, umiliato, col risultato di spingerlo a farsi sempre più antipatico. Ebbene, amare l'antipatico significa semplicemente fare quel che si può per aiutarlo a diventare più simpatico. E allora mi dirò: poveraccio, tutti ce l'hanno con lui, forse avrà bisogno di qualcuno che gli dia una mano. Visto che gli altri lo evitano, perché non lo invito io, per esempio a mangiarci una pizza insieme? Se sarò simpatico con lui, vuoi vedere che cambierà atteggiamento e diventerà più simpatico anche lui? Se farò questo, allora potrò dire di aver amato, concretamente, nei gesti, un antipatico. Analogamente, amare un nemico significa fare concretamente tutto, tutto, tutto quello che è possibile per cercare di diventare amici. È sempre l'accoglienza il punto di partenza.

Domanda:

L'esposizione mi è sembrata piena di dati e di esperienze. Vorrei qualche chiarimento sul libro della MIT (I limiti dello sviluppo sopra citato). Inquietante il richiamo alle strutture diaboliche, per cui a un certo punto qualunque cosa si fa è male. Qual è la via d'uscita?

Quale via d'uscita? La domanda è sempre quella, ma credo che neppure mettendo in palio tutti i premi dei quiz televisivi sarebbe facile ottenere qualche risposta concretamente valida. La situazione è scoraggiante, non c'è che dire, però noi cristiani siamo legati alla speranza, e non potremmo rinunciarvi neppure volendo. Ad esempio, di fronte all'opinione, molto diffusa, che il Concilio sia stato disatteso, bisognerebbe ricordare, come dice Carlo Molari, che è stato fatto solo trent'anni fa, e trent'anni sono un tempo brevissimo. Il cristianesimo ha 2000 anni, e a noi sembra un tempo lunghissimo, dimenticando che il salmista dice: mille anni ai tuoi occhi sono come il giorno di ieri che è passato. Due giorni, insomma, e ora siamo al terzo, quello della risurrezione.
Certo quando si è creata una struttura diabolica uscirne è difficilissimo. Un esempio clamoroso sono gli spot pubblicitari che da qualche tempo invitano a comprare, non importa che cosa: basta consumare. Eppure tutti sappiamo che un autentico disastro dei nostri tempi è il consumismo, che porta noi occidentali a sprecare molto di più di quanto sarebbe accettabile in un tenore di vita equilibrato e rispettoso per tutti. E sappiamo altrettanto bene che uno sviluppo in tale direzione non ha futuro, e ci porterà dritti alla catastrofe. Ma ridurre i consumi sarebbe negativo, perché abbiamo creato un'economia basata sui consumi, e dal momento che al presente ristagnano, i governanti si sono inventati questa pubblicità per stimolarne la ripresa, altrimenti l'economia non riacquisterà vigore. Questo vale per l'oggi e forse il domani, ma il dopodomani? Meglio non pensarci, l'importante è riprendere a consumare. Se poi il futuro potrà aggravarsi ancora, che possiamo farci? Ecco la struttura diabolica, un'impostazione senza uscite. Perché se domani, poniamo, decidessimo tutti insieme di consumare meno, l'economia crollerebbe, le aziende chiuderebbero, creando disoccupati, fallimenti generalizzati, catastrofi, tragedie! Insomma: se consumiamo, tragedia; se smettiamo di consumare, tragedia. Abbiamo costruito una struttura diabolica, che non offre vie d'uscita incruenti. Bisognerebbe decidere di soffrire volontariamente quel che c'è da soffrire per raddrizzare le cose, ma chi ha il coraggio di cominciare?

Domanda:

Pensando alle situazioni diaboliche di questo mondo,  mi veniva da pensare: e i cristiani che cosa aspettano a far qualcosa? Che ne pensi della loro inerzia?

Non faccio alcuna fatica a rispondere che trovo vergognosa l'inerzia di noi cristiani, che non abbiamo il coraggio di dire o fare qualche cosa che mostri veramente il volto di Gesù Cristo. Sul che cosa si potrebbe fare, però, la difficoltà è enorme. Il guaio maggiore è che ci portiamo dietro delle ambiguità che paiono quasi insuperabili. Ma se non le supereremo, allora continueremo a non capire quali siano i limiti dell'essere cristiano. E infatti i cristiani di oggi stanno un po’ da una parte e un po’ dall’altra: un po’ stanno con i pacifisti, e un po’ con la strategia delle bombe. Ma anche essere contro le bombe non è sufficiente, perché "essere contro" non basta a costruire pace, armonia, vita. Certo la guerra non può essere mai una soluzione, ma dire no alla guerra è insufficiente se non si dice sì a che cosa, se non si indicano strade costruttive concretamente percorribili. Altrimenti si finisce per rinforzare le posizioni di chi vuole la guerra, che potrà più facilmente dire: se non ci sono alternative è inutile che diciate di no, perché solo la guerra è possibile. Quindi sul che cosa fare non si sa che cosa dire, e proprio per questo la situazione è diabolica.
In concreto, quei poveri palestinesi sono trattati in un modo indegno e inumano, non c’è dubbio, ma d’altra parte come si fa a negare agli israeliani il diritto di vivere a casa propria liberi da sanguinosi attentati? Sappiamo bene che la loro causa è ambigua, perché i politici del passato hanno creato situazioni territoriali assurde, con responsabilità gravissime. E tuttavia non c’è dubbio che molti israeliani sono nati lì, come molti palestinesi. Per entrambi quella è casa loro, e quindi aspirerebbero a poter stare in pace, a vivere in case o viaggiare su autobus non squassati da bombe. Ma risolvere il problema appare di una difficoltà diabolica. Anche il Papa dice no alla guerra, ma rischia di restare un discorso di principio che serve a pochissimo, se non a niente. Potrebbe forse servire a qualcosa se facesse nomi e cognomi di chi fa politiche di guerra o di terrorismo, ma dire no alla guerra non serve a nulla perché anche i guerrafondai dicono che sono contrari alla guerra, di principio, ma aggiungono di essere costretti a farla per colpa di altri. Non se ne esce, la situazione è diabolica.

Domanda:

Visto che ci chiediamo se un’altra Europa è possibile, secondo te un’altra Chiesa è possibile?

Se sarà possibile realizzarla concretamente e se riusciremo a vederla, questo lo sa solo lo Spirito Santo, e secondo me fatica a capirlo anche lui. Comunque io credo che sia possibile, e mi pare che tutta la chiacchierata precedente abbia tentato di dire che è possibile. La stessa tesi ho sviluppato nel mio libro “Con la chiesa oltre la chiesa”, libro, come spiegavo, che è nato come risposta a una domanda di un amico, il quale, dopo avermi aspramente criticato, mi ha poi scritto per ribadire le sue critiche. Da parte mia, per rispondergli mi sono seduto al computer e ne è venuto fuori quel libro, perché gli argomenti sono così tanti che a poco a poco ne è scaturito un quadro d’insieme. Dal mio punto di vista emerge chiara l’ipotesi che una nuova Chiesa sia possibile. Altri, ovviamente, possono pensare che sono un illuso, e tuttavia credo profondamente che sia possibile una Chiesa delle coscienze, una Chiesa che abbandoni l’autoritarismo per essere prima di tutto accogliente, in modo da poter fare tutti insieme un cammino di trasformazione.
A tal proposito, per spiegare bene che cosa intendo, vorrei aggiungere che ingenuamente molti pensano che andare d’accordo significhi avere le stesse opinioni, o sentire nello stesso modo. Invece, secondo me, niente di più falso, perché siamo così diversi l’uno dall’altro che non possiamo avere le stesse opinioni, né possiamo vedere le cose nello stesso modo. Inevitabilmente le differenze ci portano prima o poi a scontrarci: è una caratteristica insita nella natura umana. La miglior definizione dell'andare d’accordo, che io conosca, è: litigare tenendosi per mano. Se ci prendiamo per mano, possiamo dirci tutto quello che c'è da dire, anche le cose più sgradevoli. Ma tenendoci per mano sentiremo la voglia di continuare a camminare insieme. Ecco, io credo in questo tipo di Chiesa, dove c'è spazio per le differenze, dove c'è inevitabilmente attrito, dove in qualche modo si litiga, quando necessario. Credo indispensabile un magistero, purché lavori a favore di tutti, richiamando costantemente alla verifica sui vari punti di riferimento, incessante nell'indicare la strada, ma esortando a continuare a camminare tutti assieme, senza emarginazioni, allontanamenti, scomuniche.
Come piccola testimonianza della nostra vita comunitaria, noi abbiamo cercato di mettere in pratica atteggiamenti simili. Ad esempio, nelle nostre celebrazioni eucaristiche che sono comunitarie e con molta condivisione, fin dall'inizio abbiamo deciso di non tappare la bocca a nessuno. Così possono affiorare argomenti di vario tipo, talvolta anche irritanti, e chiunque può rispondere, fino ad arrivare, non dico a litigare, ma quasi. La prima volta che è accaduto qualcosa di simile siamo rimasti di sasso, e qualcuno ha fatto notare che se è un bene condividere, arrivare a tal punto può essere eccessivo. Poi però, riflettendo meglio, ci siamo detti: ma se esistono elementi di lite, che cosa è meglio fare? Uscire da qui, andare nel salotto che sta al di là del muro, e là sentirci liberi di schiamazzare come ci pare? Come se pensassimo che qui non possiamo farlo perché c’è Gesù Cristo, mentre di là non c’è? È un muro di separazione a risolvere il problema? Allora ci siamo detti: meglio non litigare, ovviamente, ma se deve proprio esserci una lite tra fratelli, sarà meglio che avvenga davanti al Signore. In tale contesto forse sarà più facile avere il coraggio di fermarsi, di non superare certi limiti, di stare un po’ più attenti. Noi abbiamo imparato a affrontare tranquillamente gli scontri, nella fiducia che vogliamo camminare insieme nella stessa direzione, anche se tante volte è difficile rendersene conto. Perciò credo che questa Chiesa sia possibile. Se ciascuno fa la sua parte, possiamo aver fiducia che lo Spirito Santo lavori in questa direzione, e se gli diamo una mano penso non gli dispiaccia.

POMERIGGIO

una famiglia a misura di Chiesa

Antonio

Il titolo scelto per quest’incontro pomeridiano è: una famiglia a misura di Chiesa. E subito verrebbe da chiedersi: perché la famiglia dovrebbe essere una Chiesa? Parlando di Chiesa a dimensione famiglia è più facile capire quanto sia importante lo spirito familiare, perché la Chiesa cresca e diventi se stessa. Ma forse non è altrettanto evidente perché la famiglia debba somigliare a una Chiesa. Eppure il messaggio di Cristo è unico, e il senso dovrebbe applicarsi a tutti i rapporti. Cercherò di spiegarmi meglio.
Quando Gesù dice: “In verità vi dico, se due di voi sopra la terra si accorderanno per domandare qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli la concederà”. Una frase che da un lato spaventa, e dall'altro lascia perplessi. Ma è proprio vero? È possibile? Allora potremmo metterci d’accordo per domandare, ad esempio, di poter svaligiare il caveau della Banca d’Italia e diventeremmo ricchi! Ma non è così, perché quella è solo la prima metà della frase, che prosegue poi: "perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro”. Altre volte Gesù dice frasi simili: ”Se mi chiederete qualcosa nel mio nome io la farò; se chiederete qualcosa al Padre nel mio nome la farà". Nel mio nome, ecco che cos'ha valore essenziale: nel nome di Gesù, che significa “Salvatore”. Il nome di Gesù è legato alla salvezza, e quindi la frase assume questo significato: "se chiederete qualsiasi cosa sulla via della salvezza, la otterrete". Se invece di Gesù prendessimo, ad esempio, Armando, che vuol dire "ardito", la cosa non funzionerebbe più. Se chiederete qualunque cosa sulla via dell’ardimento...... ma l'ardimento non ha funzioni salvifiche, e quindi il risultato non è affatto garantito. Ecco il punto chiave: non il chiedere "qualunque cosa" ma "nel mio nome", e cioè se due persone troveranno unità di intenti per lavorare concretamente sulla via della salvezza, per procurare salvezza a se stessi e agli altri, allora otterranno il risultato desiderato.
Questo è chiaro, ma naturalmente viene da chiedersi: salvezza da che cosa? Una volta la salvezza era pensata e creduta soprattutto in senso escatologico: salvarsi dall’andare all’inferno. La cosa (indipendentemente dalle parole usate) è certamente importante, ma quella salvezza comincia qui oggi, comincia dalla preoccupazione di salvarci dai limiti e dalle contraddizioni del presente, da questa società che sta divorando se stessa, che sta distruggendo tutto. Ecco il senso primario della frase: se lavori per salvare l’umanità dal disastro, ci riuscirai. Se uomini e donne lavoreranno per salvarsi dal catastrofe ci riusciranno. Bisogna impegnarsi a costruire, questo è l'invito divino: il Padre vuole che i suoi figli lavorino per salvare l'umanità dal baratro, e allora si comincia da due o tre, ma due significa coppia, che assume così valore primario e fondamentale. La coppia indica proprio quei due che per primi sono chiamati a mettersi d’accordo per salvarsi da questo mondo. Una volta i Greci, che se ne intendevano, nella loro lingua avevano il duale. Oggi molti non lo sanno neppure, ma la lingua greca antica aveva il singolare, il duale ed il plurale. Perché due non sono plurale! Poi le lingue si sono impoverite, e oltre l'uno, da due in poi, tutto è considerato uguale. E invece, mentre il più è plurale, i due che rappresentano la coppia non sono altro che due facce di una unità di coppia. E proprio questo voleva esprimere il duale.
Ecco quel che voglio dire: la coppia, unità plurale, è il primo veicolo di trasmissione del messaggio di Cristo. Per questo la coppia, e quindi la famiglia che dalla coppia deriva, è il nucleo primario della Chiesa. Per quanto riguarda la mia sposa e me, possiamo dire che la nostra vita è sempre stata abbastanza piacevole, e tuttavia piena di contrasti e contraddizioni. Ma da quando abbiamo capito di essere una piccola Chiesa, allora è diventata un’altra cosa, e il bello è soprattutto che se prima eravamo innamorati lo siamo adesso molto di più.

interviene Giulia

Questo dipende dal cammino fatto insieme, nel quale, a un certo punto, abbiamo scoperto la spiritualità di coppia, abbiamo scoperto quanto sia importante per costruire il rapporto, e vice versa quanto un rapporto che funziona costruisca spiritualità. Quindi è una cosa reciproca. Noi a volte, magari all’improvviso, viviamo dei momenti molto belli, senza che vi siano motivi specifici. Magari siamo soli, seduti a tavola, e improvvisamente si avverte un clima, un senso d'unione particolare, come se ci fosse una presenza che rende tutto, non so come dire, tutto più bello, più limpido, più entusiasmante. Insomma, direi che in mezzo a noi c’è veramente lo Spirito Santo. Ed è come se da li si ripartisse per una nuova tappa del nostro percorso. Basta poco per provare questa sensazione molto stimolante: basta coinvolgersi, condividere, guardarsi negli occhi. Così ci capita a volte anche di fronte alla natura: un tramonto, un bosco, il mare; oppure osservando delle opere d’arte, dei quadri. Per esempio, io ho scoperto da poco il pittore Monet, e osservandolo intensamente, a Parigi, mi sono sentita immergere in un altro mondo. Un’esperienza mistica, direi, vedendo tutti quei quadri, ma il fatto più significativo è stato guardarli insieme, tenendosi per mano, una cosa che ci faceva sentire uniti. Ecco, a noi piace fare di queste esperienze, che ci uniscono di più e ci rendono una cosa sola.

riprende Antonio

Per cercare di analizzare un po' meglio come ci siamo arrivati, partirei dal fatto che anche per noi, come un po' per tutti, credo, l’istinto era quello di prevalere. Finché ci siamo resi conto che questo fatto era negativo per entrambi, perché creava sempre contrasti e difficoltà. E allora, attraverso una lunga maturazione fatta di momenti belli e meno belli, di frustrazioni e ricuperi, abbiamo capito che è di capitale importanza facilitare al coniuge il cammino. Perché la scoperta chiave, che ha trasformato il nostro rapporto, e che ha poi anche influito in modo determinante sulla nostra scelta comunitaria, è la risposta a una domanda che può sembrare banale: come faccio a essere felice? E la risposta è incredibilmente ovvia: potrò essere felice solo se le persone che stanno intorno a me sono felici. Se vivessi in un ambiente di persone arrabbiate o scontente, depresse o rancorose, come potrei non lasciarmi condizionare, non diventare irritato o scoraggiato anch’io? Mentre da un ambiente di persone felici e creative mi sentirò aiutato, se non addirittura trascinato, a essere come loro.
Ingenuamente noi siamo portati a pensare che il proprio interesse contrasti con quello degli altri, perché pensiamo subito all’interesse economico, nel quale se io voglio aver di più bisogna che qualcun altro abbia di meno. Ma se desidero avere uno stato d’animo gioioso, sereno, vitale, allora il mio interesse non contrasta affatto con quello degli altri, ma al contrario coincide col loro. Ecco: a un certo punto del nostro cammino ci siamo resi conto che l'interesse di ciascuno di noi due coincide con quello dell'altro. E tutto è cambiato. Come marito, sarò felice se avrò accanto una moglie felice, contenta della sua vita, soddisfatta, appagata, che si sente valorizzata al punto da aver voglia di ritrasmettere la sua effervescenza. Ecco che mi troverò accanto una moglie dinamica, una moglie viva e disponibile, che si propone in modo creativo.
Quando mi son posto l'interrogativo di come avrei potuto aiutarla a diventare così, subito ho capito di dover cominciare a muovermi io, offrendo la mia disponibilità per darle modo di diventare se stessa, di esprimersi al meglio. Un intreccio di aiuti che in sostanza significa la piena convinzione che i nostri interessi coincidono. Allora tutto diventa più facile, anche se le difficoltà non svaniranno mai completamente. Nella pratica, noi abbiamo scelto un piccolo accorgimento che è stato il punto d'inizio del nostro reale cambiamento: da un certo punto in poi abbiamo preso l’abitudine di chiederci frequentemente: hai qualche cosa da dirmi? Perché sovente le difficoltà restano inespresse, per timore di reazioni negative o di non trovare il momento adatto. Col risultato che si creano degli accumuli che poi esplodono irrazionalmente. Offrirsi all'ascolto invece, possiamo dirlo per esperienza diretta, produce sempre un clima favorevole ad affrontare con calma i problemi. O anche proporci in altri modi: posso fare qualche cosa per te? Posso darti una mano? E abbiamo visto che offrire disponibilità innesta sempre reazioni positive.
Insomma, la nostra vita è radicalmente cambiata. Nel momento in cui abbiamo cominciato a offrirci disponibilità invece di fare richieste e stare sulla difensiva, tutta l'ottica si è rovesciata, e soprattutto è cambiato lo stato d’animo, passando, si potrebbe dire, dalle pretese alla gratitudine reciproca. Se infatti, nell'ottica comune, sembra spontaneo dire: ti ringrazio perché mi ami, da tempo noi siamo arrivati invece al: ti ringrazio di amarti. Perché è qualcosa di straordinario poter amare, è entusiasmante sentirsi innamorati più di quando eravamo giovani, è una cosa talmente bella che sorge spontanea la voglia di dire forte: che grazia di Dio stiamo vivendo! E la cosa che più mi vien da dire alla mia sposa è: come sei buona con me a farti amare così! E questo non perché lei faccia qualcosa per compiacermi, ma al contrario perché è se stessa, determinata, impegnata a esprimere a fondo i suoi talenti. È semplicemente amabile, ed è per questo che posso amarla. Quale più grande motivo di gratitudine?
Perché spesso, troppo spesso i coniugi non fanno altro che contrastarsi. Ci si sposa con tante speranze, con l'intenzione di creare qualcosa di bello, di costruire vita, di essere felici, e invece spessissimo ci si fa del male. Contrasti, prese di posizioni, guai a cedere, è sempre l’altro che deve cambiare, astio, rivalse, meschine ripicche. Anche noi abbiamo rischiato di cascarci, anche noi potevamo restare su posizioni contrapposte, quando ci è capitato di sperimentarle. Ma un giorno siamo stati toccati dalla Grazia, e allora abbiamo cominciato a facilitarci il compito, e tutto è cambiato. Rendersi amabili: ecco l’interesse reciproco. Non confondiamolo con l'astratto altruismo: è interesse reciproco. Da quando ho capito che per star bene devo preoccuparmi che lei sia nella sua pienezza cerco di fare il massimo, per lei, nell'interesse mio. Perché ecco che si riversa su di me tutta la Grazia di Dio che prorompe dal suo essere felice. È semplicemente ovvio. E poi è molto importante prendersi in giro, naturalmente con affetto. Noi spesso ci prendiamo in giro e ci divertiamo, ridiamo come dei bambini, come degli scemi. Chi ci vede penserà: ma che cosa avrete da ridere! Il fatto è che dietro c'è tutta una storia, c'è il richiamo a fatti e frasi dette, un passato comune che aiuta a creare un clima leggero, frizzante, bello, piacevole. Qualcuno magari si offende quando si sente preso in giro, invece noi ne approfittiamo per concederci dei bei momenti d'allegria.
Capisco che queste affermazioni potrebbero lasciare perplessi. In fondo noi potremmo essere degli esaltati, e questo quadro positivo del matrimonio pura teoria. Ma personalmente percepisco qualcosa che per me vale come dimostrazione scientifica inoppugnabile. Quando ci siamo sposati, Giulia era giovane, aveva ventun anni, mi piaceva molto, mi aveva affascinato, ero innamorato. Poi, dopo un certo numero di anni sono arrivati i primi segni di vecchiezza. Ricordo le prime sfioriture della pelle, le rughe che si accentuavano, e confesso che ero preoccupato perché pensavo che forse, presto, non l'avrei più trovata attraente. E invece la cosa straordinaria è che oggi continua a esserlo. Ormai siamo vecchi, e i segni dei tempi sulla nostra faccia li vedete tutti, e quando mi capita di guardare una donna della nostra età, e di immaginarmi nell'intimità con lei, penso che non sarebbe possibile, che mi creerebbe un disagio psicologico insormontabile. Non può attrarmi una vecchia, è logico, è naturale. Ma con Giulia è un'altra cosa, e mi sento attratto da lei come il primo giorno. I segni del tempo che vedo su di lei, che sono uguali a quelli di un’altra donna della stessa età, non solo non mi disturbano per nulla, ma in certi casi li trovo addirittura belli. Come mai? Qui c’è qualcosa di strano, che dipende, evidentemente, dal fatto che siamo invecchiati insieme. L'amore supera le barriere del tempo: è il miracolo dell’amore. È opinione comune che il rapporto coniugale, nella migliore delle ipotesi, possa essere effervescente e brillante per un certo tempo, dopo di che, se tutto va bene, i due si assestano in maniera più o meno asettica, e vivono l'uno accanto all'altra volendosi bene. Ma noi sappiamo di non essere i soli a poter testimoniare che è possibile anche da vecchi amarsi a tutto campo. Farne esperienza è una straordinaria Grazia di Dio.
Tutto questo ho cercato di esprimere nel mio recente libro: Il sapore dell’amore compiuto, che è un romanzo, non la nostra biografia. Non siamo noi, perché scene e personaggi sono costruiti con la fantasia. Però il significato è autobiografico, perché ho cercato di esprimere il senso del nostro amore, di questo amore che migliora invecchiando, come il vino buono. Un itinerario complesso, travagliato, costruito con tenacia giorno dopo giorno. E immerso in un contesto per nulla spensierato, perché ho anche cercato di esprimere la sofferenza che mi accompagna quotidianamente, senza mai lasciarmi in pace. Viviamo in un mondo infame, nel quale la tragedia ci insegue ogni giorno, tanto che sento un interrogativo permanente: è possibile godersi la propria felicità in un mondo così drammatico? Credo che nessuna persona sensibile possa sottrarsi a tale interrogativo. Un tempo credevo che felicità e angoscia fossero in alternativa: o l'una o l'altra. Ma proprio questa struggente felicità, alla quale ormai non potrei sottrarmi neppure volendo, mi ha portato a un intreccio permanente tra felicità e angoscia, che credo rappresenti un problema esistenziale d'interesse primario. Tutto questo ho cercato di esprimere nel mio racconto, che non è quindi soltanto descrizione di un amore, ma è descrizione di un amore felice in un ambiente drammatico, accompagnato da uno stato d’animo che talvolta sembrerebbe renderlo impossibile.
Se poi ci sono riuscito e con quale efficacia, il giudizio ai lettori.

interviene Giulia

Tengo a dire, brevemente, che il nostro matrimonio è migliorato, anzi ha avuto un salto di qualità, quando io mi sono convertita, e poi dopo qualche anno, si è convertito anche Antonio. Perché in qualche modo abbiamo sempre camminato sulla stessa strada e nella stessa direzione, ma in modo talvolta confuso e contraddittorio. Dopo le nostre conversioni tutto è diventato più esplicito, più chiaro. In seguito abbiamo avuto tante altre piccole conversioni, e chissà quante altre ne avremo ancora. Fatto sta che il desiderio di camminare nella stessa direzione, talvolta a fatica, altre volte magari discutendo o litigando, si è via via rafforzato.

riprende Antonio

Il termine conversione è un po' generico, perciò vorrei precisare meglio che non intendiamo riferirci al credere o non credere in qualche cosa, in senso teorico razionale, ma aver percepito la necessità irrinunciabile dell'altro e degli altri. Quando ci siamo ritrovati insieme a capire che da soli non ci sono prospettive, non c'è salvezza, allora tutto è cambiato. In questo senso, di grande conforto è stata per me la scoperta del pensiero di un grande filosofo spagnolo, Ortega y Gasset, che più o meno diceva: io sono io più la mia circostanza, cioè non sono solo l'individuo racchiuso dai limiti del mio fisico, ma la mia realtà comprende tutto quello che mi sta attorno. Perché è la vita di relazione ad arricchire la persona, è l'insieme delle relazioni a formare le caratteristiche strutturali di ciascuna persona. E questo vale per ognuno: ad esempio, il complesso relazionale che si sta realizzando in questo incontro fa parte della circostanza di ciascuno di noi, solo che emerge in modi parzialmente diversi, sintonizzandosi variamente attraverso ogni persona presente.
Quando ho capito questo, ho capito che dovevo smetterla di cercare i miei benefici individuali, per preoccuparmi di più della circostanza, e quale circostanza più densa, più intima, più profonda del proprio coniuge? Potrei dire, in fondo, che è partendo da lì che poi ho capito, via via, che più allargo l'orizzonte della mia circostanza e più divento ecumenico, e più capisco gli altri. E allora, se ci penso bene, mi rendo conto meglio che siamo tutti figli di Dio, che tutti sono mie sorelle e miei fratelli, membri della stessa famiglia. E portando i confini della mia circostanza al mondo intero, qualsiasi voglia di far conquiste a spese degli altri svanisce del tutto. E se con i diversi resteranno i problemi che potranno crearmi fastidi e disagi, li saprò guardare senza mai dimenticare che sono anch'essi fratelli e sorelle, con la coscienza che se rompessi il filo che mi lega a loro, romperei anche il filo che ci lega tutti al genitore comune. Romperei, insomma, il mio rapporto con il mio genitore, farei del male a me stesso, danneggerei il mio rapporto familiare.
Questo stesso problema noi lo abbiamo chiaramente percepito e vissuto nel nostro rapporto coniugale. In un certo senso, prima mi muovevo pensando, un po' inconsciamente: questa è mia moglie, ho dei diritti su di lei, mi offre dei vantaggi, ma non deve crearmi problemi. Una visione individualistica, insomma. Tutto è cambiato quando ho capito che l'importante è avere accanto una persona felice. A questo punto la promozione dell'altro diventa facile.

Domanda:

Oggi che le crisi di matrimonio sono così abbondanti fa piacere sentire testimonianze positive. E tuttavia la crisi sembrerebbe inarrestabile. Hai qualche opinione particolare in proposito?

Secondo me è questione di educazione sociale, e il dramma in particolare deriva dal fatto che i giovani non hanno più voglia di faticare. Hanno avuto la mangiatoia bassa, come si suol dire, hanno avuto tutto facilmente e senza fatica, e chi ha tutto quel che desidera è ovvio che non abbia voglia di faticare. Per esempio, conosco una coppia di giovani che sono fidanzati da parecchi anni, ma quando chiedo loro quando si sposeranno mi rispondono che non ci pensano neppure (non siamo mica scemi, dicono). Questi due vivono ciascuno a casa propria, ma spessissimo lui va a dormire da lei o lei da lui. Talvolta poi se ne vanno in giro un po’ di giorni di qua e di la’, vanno a fare le vacanze insieme, e se certe volte sono un po’ in freddo, possono tranquillamente dormire ciascuno a casa propria senza traumi. Per di più le rispettive madri sono ottime cuoce, li riempiono di manicaretti, fanno il bucato e tengono pulita la casa. In tale contesto, non sarebbe da scemi sposarsi?
Ai nostri tempi, invece, quando con Giulia eravamo fidanzati, se avevamo voglia di stare insieme potevamo al massimo appartarci in automobile in qualche viuzza secondaria, con tutti i rischi e i limiti del caso. Ed eravamo fortunati perché avevo una piccola automobile, cosa nient'affatto comune, a quell'epoca. Chi di noi, della nostra generazione, aveva la possibilità di avere un angolo di casa a disposizione per la propria intimità? Quindi era logico sentire l'esigenza di metter su casa, ed era altrettanto chiaro che per poter sviluppare un rapporto di coppia a tutto campo bisognava faticare, molto, e questo costringeva a vagliare la propria determinazione. Ma se c’è possibilità di godersi taluni benefici della vita coniugale senza pagarne il prezzo, è chiaro che crescerà la voglia di provare senza compromettersi troppo. Al massimo, se non è possibile o non si gradisce avere le spalle coperte dalle rispettive famiglie, sarà facile dirsi: proviamo a convivere e vediamo come va, se poi la cosa non va lasceremo perdere. Con tali premesse, però, è difficile avere un futuro, perché problemi e difficoltà ne nascono continuamente, e se non c'è fin dall'inizio la ferma determinazione ad affrontarli insieme e combattere quanto necessario, allora ben presto l'orizzonte sarà invaso dalla voglia di lasciar perdere. Lo stesso vale per quanti si sposano soltanto perché si usa così, con il tacito sottinteso che, alla peggio, oggi c'è il divorzio.
Si sta sempre più perdendo il senso autentico e profondo del matrimonio, che è scelta di una persona per camminare insieme, nel bello e nel brutto di ogni giorno. Io scelgo te, perché voglio vivere e costruire insieme a te. E se poi qualcosa non va, combatteremo insieme per superarla. E se poi ne salterà fuori un’altra, combatteremo per superare quell’altra. E se viene fuori un problema grosso, combatteremo insieme per superare il problema grosso, ma senza mettere in dubbio che è questa la nostra direzione di marcia, senza smettere di tenerci per mano. Il risultato non è mai garantito, ma solo in tal modo si hanno probabilità di riuscita: soltanto se si è profondamente determinati. Credo che oggi manchi questa determinazione, credo che oggi i giovani abbiano assorbito una cultura del disimpegno, e questo è il dramma peggiore.
Per dirla in altre parole, credo che la maggior parte delle persone che si sposano in chiesa non sanno quello che fanno, e neanche hanno interesse a saperlo. Si usa così, e si comportano come automi. Credo che bisognerebbe ripensare a questa problematica, e provocatoriamente mi piace ricordare che chiunque è disponibile a faticare a lungo per imparare un mestiere. Per fare l’avvocato o il medico o il falegname bisogna studiare ed esercitarsi anni ed anni: esami, tirocinio, concorsi. Chiunque dice a se stesso: se voglio imparare un mestiere devo pagare questo prezzo. Ma tutti danno per scontato che per il mestiere di marito e di moglie non c'è da imparare un bel nulla. E se qualcuno prova a dire qualcosa, è facile si senta più o meno rispondere: non impicciarti, a queste cose ci devo pensare da me. Poi si sfasciano i matrimoni.
Io sono per la libertà di coscienza, e anche d'incoscienza, ma certe volte mi verrebbe da augurarmi che i matrimoni vengano celebrati soltanto dopo quattro anni di preparazione universitaria, con tanto di esami e laurea. E se fossi l’autorità ecclesiastica, comincerei a dire: non sposatevi, se non capite quello che fate. Basta con l'opinione moralistica che convivere senza sposarsi equivalga a fare qualcosa di male. È molto peggio sposarsi superficialmente lasciando prosperare ambiguità, ed è ancor peggio, da parte della Chiesa, avallare simili non–matrimoni.

Domanda:

Che cosa ne pensi della posizione dei divorziati nella Chiesa, in particolare riguardo l'eucarestia?

Questa domanda si lega alla precedente. Intanto la maggior parte dei divorzi hanno la loro radice nelle ambiguità presenti al momento del matrimonio. O meglio, se non c'è vero matrimonio neppure un divorzio è vero divorzio. Personalmente, comunque, nella Chiesa è ovvio che dovrebbe esserci un atteggiamento d'accoglienza, anziché di emarginazione, e credo che negare ai divorziati l'eucarestia non sia in armonia con l'insegnamento di Cristo. Stamattina ho già detto che, secondo me, legare insieme penitenza ed eucaristia, confessione e comunione, quasi se dovessero andare di pari passo, credo sia stato un errore che ha portato a conseguenze negative. Un errore legato all'idea di Chiesa gendarme. Come può essere l’autorità a decidere chi può fare la comunione e chi non la può fare?
Penso che il magistero dovrebbe preoccuparsi particolarmente di sottolineare che l'incontro con Cristo è qualche cosa da vivere sul serio, è qualche cosa che fa gettare la maschera: non si può incontrare Cristo e poi farsi gli affari propri, sarebbe pericoloso, perché equivarrebbe a entrare nell’ambiguità, a diventare ipocrita, a minare il proprio equilibrio. Se vuoi incontrare Cristo devi avere il coraggio di seguirlo. Poi forse non ci riuscirai, ma l'intenzione dev'essere quella, altrimenti che senso avrebbe fare la comunione? Questo dovrebbe dire il magistero, esortare a non fare la comunione a cuor leggero, ma poi lasciare alla coscienza la scelta tra farla e non farla. Essere o meno in Grazia di Dio è un altro argomento che va trattato in modo indipendente. In sostanza il magistero dovrebbe dire: io amministro e offro l’eucarestia, non faccio il gendarme.
Questo, secondo me, dovrebbe valere anche nei confronti dei divorziati. Saprà lo Spirito Santo che cosa c'è nel cuore di ciascuno. Come pedagogia, l’importante è stimolare a chiedersi perché mai voler fare eucarestia. Certo sarebbe negativo se vi fosse qualche motivo di sfida alle istituzioni, ma solo la coscienza è in grado di sapere se c'è sincerità di cuore.
Sul problema dei divorziati esistono numerosi libri, in particolare il teologo Giovanni Cereti si dedica da anni all'argomento, che ha sviscerato a fondo, e sostiene che nella Chiesa primitiva, dopo un periodo di penitenza e purificazione, i divorziati risposati venivano riammessi all'eucarestia. Mi risulta però che sia stato decisamente bacchettato dall'autorità, che gli ha consigliato di non insistere troppo su tale discorso.

PER TERMINARE

Antonio

Per terminare, vorrei leggere qualche verso da: “Il Profeta” di Gibran, la dove parla della religione:

Chi mai può separare la sua fede dai suoi atti, e il suo credo dal suo lavoro?
Chi può disporre delle sue ore dicendo: questa è per Dio e questa è per me?
Questa alla mia anima e questa al mio corpo?
La vita quotidiana è il vostro tempio e la vostra religione,
ogni volta che vi entrate portate voi stessi.
E se volete conoscere Dio non siate solvitori d’enigmi, piuttosto guardatevi intorno,
e lo vedrete giocare con i vostri bambini.
E guardate lo spazio, lo vedrete camminare sulla nube,
tendere le braccia nel bagliore del lampo, e scendere con la pioggia.
Lo vedrete sorridere nei fiori, e sulle cime degli alberi sciogliere carezze.

Questa credo sia la religione che conta, una religiosità che anticipa la possibile Chiesa del futuro. Grazie.

Giulia

Anch'io vorrei ringraziarvi tutti per questa bella giornata passata insieme, e a proposito del brano di Gibran vorrei aggiungere che prima, quando vedevo il bambino qui presente che correva qua e là, pensavo proprio a questi versi, che amo moltissimo. Trovo che esprimono un clima familiare che è particolarmente in sintonia con l'argomento di questo incontro. Questi bambini sono la cosa più bella del mondo, la nostra speranza, il nostro futuro. Grazie per averci fatto vivere insieme a voi un'esperienza significativa.

Alberto

E noi ringraziamo Antonio e Giulia. Penso che tanti quesiti, tante domande siano rimaste inespresse, siano rimaste nel cassetto. Le rimandiamo al prossimo incontro.




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