Gli Scritti
La Pittura
Automobilismo
La comunità del mattino Nel quotidiano
Contatti
 
 
Visita il sito Elogio del Dissenso

Cerca tra i contenuti del sito:

 
 
 
 

Articoli mai pubblicati

 
 
Relativismo papale

Di fronte agli intricatissimi problemi bioetici del nostro tempo l'autorità ecclesiastica invita frequen-temente al rispetto della vita umana «dal concepimento fino alla sua conclusione naturale». Lo stra-no è che questa posizione, ripetuta come se fosse scontata, non è mai stata sostenuta dalla Chiesa durante la sua storia, e non lo è neppure oggi, da quanto si legge nelle sue dichiarazioni di principio. Basta consultare i documenti magisteriali, come ad esempio il Catechismo della Chiesa Cattolica (articoli 2266 e seguenti) o l'Enciclica Evangelium Vitae di Giovanni Paolo II, che al numero 57 re-cita: «Il comandamento non uccidere ha valore assoluto quando si riferisce alla persona innocen-te….. l'inviolabilità assoluta della vita umana innocente è una verità morale esplicitamente insegna-ta nella Sacra Scrittura, costantemente ritenuta nella Tradizione della Chiesa e unanimamente pro-posta dal suo Magistero».
Lasciando da parte talune considerazioni che coinvolgendo la sfera emotiva potrebbero compromet-tere una riflessione serena e pacata, appare inequivocabile che siamo nel campo delle interpretazioni di tipo relativistico, basate su valutazioni di merito. È spontaneo chiedersi: innocente rispetto a che cosa? Rispetto a leggi o a criteri morali di oggi o di ieri? Quanti nel passato sono stati uccisi per motivi che oggi non sono più considerati colpe, e tanto meno colpe gravi? Sovente qualcuno si chiede come mai il Magistero della Chiesa si mostra così intransigente su aborto e manipolazioni genetiche e non altrettanto sulla pena di morte, e la spiegazione sta nella relativizzazione del co-mandamento "non uccidere", riducendone la sfera d'applicazione mediante la parola "innocente" che, tuttavia, pone anche interrogativi paradossali. Infatti, secondo la dottrina tradizionale, uomini e donne non vengono al mondo innocenti, ma lo diventano solo dopo il battesimo. Al ché se ne do-vrebbe dedurre che embrioni, feti e cellule fecondate rientrerebbero tra i valori relativi.
Benedetto XVI tuona, con qualche ragione, contro il relativismo, ma relativizzare il non uccidere, consentendo che venga applicato alternativamente secondo necessità, non mina forse alla radice la credibilità della Chiesa? Di fatto, si potrebbe dire che tutti ne sono consapevoli, sia quelli che lo ri-conoscono esplicitamente (magari nel privato), sia quelli che soltanto lo intuiscono, e anche quelli che strillano forte accusando altri per evitare in tal modo di fermarsi a riflettere. Il supremo Magi-stero della Chiesa non ha il coraggio di togliere quella parola «innocente» dalle sue dichiarazioni di principio, e questo è relativismo papale. Potrebbe sembrare una cosa da poco, e invece, al contrario, togliere quella parola significherebbe riconoscere che nel passato la Chiesa si è frequentemente sba-gliata su argomenti d'importanza capitale. Significherebbe dire che non solo le mani dei suoi rap-presentanti ufficiali grondano sangue, ma anche quelle di ogni cristiano e cattolico praticante, nes-suno escluso, per la corresponsabilità che lega tutti gli appartenenti volontari a una qualsiasi forma associativa. Ma il solo pensarci turba gli animi e favorisce atteggiamenti difensivi a oltranza.
Molti temono che rievocare tali fatti incresciosi (per usare un eufemismo) possa nuocere all'imma-gine della Chiesa, ma la mia fede mi suggerisce che è invece vero il contrario. L'ambiguità rende particolarmente difficile il dialogo tra diversi. Se il Magistero papale avesse il coraggio di eliminare da quel contesto la parola «innocente», per dire inequivocabilmente che il comandamento non ucci-dere vale per tutti, assolutamente tutti, e assumesse atteggiamenti intransigenti nei confronti di chi continua ad applicare la pena di morte, sarebbe assai più fondata la speranza di trovare un cammino d'intesa con quanti credono nel valore della vita umana. L'uscita dalle ambiguità da un lato favori-rebbe l'aumento di fiducia dall'altro, e il rispetto per la vita umana potrebbe fare un passo avanti da parte di tutti. E forse taluni problemi drammatici legati al momento in cui la vita umana sta giun-gendo al suo compimento, potrebbero essere affrontati con spirito cristiano, senza più alimentare strumentalizzazioni e risse. Ma come poter trovare soluzioni per i problemi futuri se non si ha il co-raggio di chiudere definitivamente i conti con il passato?
Personalmente credo che il relativismo nei confronti della pena di morte svaluti ogni proclama sul rispetto della vita in ogni sua fase, e renda un pessimo servizio alla necessità di cercare e ritrovare valori condivisi. Certamente ci vorrebbe un grande atto di coraggio da parte dell'autorità per rinun-ciare una volta per tutte a difendere l'indifendibile, ma solo col riconoscere senza equivoci quale sia la realtà passata (che continua a condizionare il presente) si potrà rendere credibile la speranza che d'ora in poi vi saranno atteggiamenti diversi. Ammetterlo senza riserve, togliere per sempre dalle dichiarazioni di principio la parola innocente, affermare che il non uccidere ha valore assoluto per tutti, innocenti o colpevoli che siano, credo che sarebbe non solo coerente con l'insegnamento di Cristo, ma anche un'occasione per far riacquistare fiducia e credibilità al Magistero e alla Chiesa in-tera. Altrimenti noi cristiani cattolici praticanti, tutti, dai più piccoli a quelli che stanno ai vertici, faremmo meglio ad abbassare i toni e a smetterla di accusare gli altri di relativismo. Faremmo me-glio a non occuparci delle pagliuzze negli occhi altrui, finché non avremo il coraggio di togliere le travi dai nostri.

2009

Protocollo e celebrazione eucaristica

La risonanza mediatica ai viaggi e alle manifestazioni papali è sempre stata, per me, occasione privilegiata per riflettere sul senso della fede e delle cerimonie religiose. Il convegno svolto nei giorni scorsi a Valencia mi ha offerto numerosi spunti per riflettere soprattutto sul significato della celebrazione eucaristica. Il rifiuto del primier spagnolo Zapatero di assistere alla messa celebrata da Papa Benedetto XVI ha suscitato polemiche e commenti per lo più negativi, sia da parte cattolica che non cattolica. Si è detto e scritto che perfino Fidel Castro e Jaruzelsky non si erano sottratti dal parteciparvi, e quindi, secondo opinioni più o meno esplicite dall'uno e dall'altro dei commentatori, Zapatero poteva risparmiarsi questa decisione, interpretata come uno sgarbo al Papa. A me interessa di più chiedermi se sia o non sia stato uno sgarbo a Gesù Cristo.
Un sano spirito cattolico insegna e propone di andare a messa per incontrare Cristo nell'eucarestia. Chiaro che Cristo lo si può incontrare in molti altri modi, soprattutto nei fratelli che hanno bisogno di aiuto per affrontare le drammatiche difficoltà della vita quotidiana, ma la celebrazione eucaristica può essere un momento privilegiato per coinvolgere il proprio spirito personale nella realtà misteriosa, che è più grande di noi. Un evento che può stimolare ad assorbire meglio lo spirito di Gesù Cristo per diventare poi capaci di esprimerlo negli avvenimenti concreti della vita vissuta. I sacramenti sono occasioni offerte all'essere umano per aiutarlo a entrare in contatto con la realtà divina in cui crede. Se ci crede.
Personalmente non so e non posso sapere che cosa avviene, al di là del visibile, durante l'eucarestia. Ma mi basta quello che vedo per sentirmi stimolato a parteciparvi regolarmente. Non nego che quando celebra qualche prete illuminato, capace di esprimere parole significative, mi fa particolarmente piacere. Ma questo (ahimè) avviene raramente, e spesso mi capita di ascoltare omelie che sarebbe assai meglio non fossero pronunciate. E tuttavia anche in quei casi sono contento di partecipare alla messa. Perché?
Credo che nessuno sappia veramente che cosa avviene durante la celebrazione eucaristica, e proprio questo fatto mi appare significativo: un atto di fede straordinario. Quale altra realtà terrena mette insieme tante persone diversissime per livello culturale, censo, possibilità economiche, educazione, sentimenti, tutti fianco a fianco a fare qualcosa che nessuno di loro sa bene che cosa sia? Perfino, in molti casi, per celebrare immagini divine diversissime tra loro, perché se la fede è unica le proiezioni personali sono inevitabilmente plurime, e sovente distorte. Tanto vero che tra i cristiani convivono (incredibilmente?) guerrafondai e pacifisti, forcaioli e buonisti. La celebrazione però non serve per legare assieme i diversi modi di credere, ma è un particolare atto di fiducia e speranza nella realtà che ci sovrasta. Gesù l'ha istituita per chi vuole rivolgersi a lui. Fate questo in memoria di me non può aver senso per chi non guarda alla sua persona e al suo messaggio.
L'abito nuziale di cui parla il Vangelo (Mt 22,11-12) simboleggia uno stato d'animo libero da ipocrisie e doppiezze, tipico di chi partecipa al banchetto per coinvolgersi totalmente senza secondi fini. Mi domando se una partecipazione formale, per non recare sgarbo al celebrante, sia compatibile con tale ammonizione. Zapatero, come capo del governo spagnolo, ha incontrato il Papa quale capo di uno stato estero in visita al suo paese. Sarebbe stato grave se non avesse voluto incontrarlo. Ma partecipare o meno alla messa dovrebbe richiedere valutazioni d'altro tipo. Guai a voi i ipocriti, tuona Gesù numerose volte, facendo intendere che l'ipocrisia è l'atteggiamento peggiore, capace d'inquinare tutto il resto. Zapatero ha certamente i suoi difetti, può non piacere, può essere antipatico. Ma bisogna dargli atto di non essere ipocrita.
E proprio per questo, paradossalmente, ci ha trasmesso un messaggio profondamente cristiano.

2008

Moratorie e discussioni a tutto campo

Viva Ferrara! Da parte mia sono spessissimo in disaccordo con le sue opinioni, e questa sua provo-cazione sulla moratoria degli aborti la trovo speciosa (non capisco quale applicazione pratica po-trebbe avere), ma anche vergognosa per essere stata presentata in occasione della moratoria sulla pena di morte, che sarebbe invece dovuta essere occasione d'esultanza collettiva, se non altro come valore di principio. Disapprovo la provocazione ma sono contento che l'abbia fatta, perché solo quando i contrasti d'opinione vengono espressi c'è speranza di fare qualche passo avanti. Non per nulla credo importante continuare a tessere l'elogio del dissenso.
Ma ci sarebbero alcune cose da mettere a punto perché non ancora abbastanza chiare (incredibile?!). La prima è che nessuno considera l'aborto in sé una bella cosa (personalmente lo trovo orribile), ma dal momento che non c'è speranza di azzerarlo, ma neppure di poterlo ridurre a percentuali insigni-ficanti, qualcuno ha l'ardire di pensare che sia meglio regolamentarlo per legge. Torto o ragione che abbia, sembrerebbe una posizione rispettabile, se non ché i favorevoli alla legge vengono abitual-mente chiamati abortisti, come se fossero favorevoli all'aborto in se stesso. Per fare un parallelo, è noto che lo Stato Pontificio aveva regolamentato la prostituzione. Perché allora non dire che il Papa e la Curia erano prostituzionalisti, cioè favorevoli al meretricio?
Al di là di qualsiasi opinione, c'è una domanda che dovrebbe stare a cuore a tutti: Si può fare qual-cosa per ridurre concretamente il numero degli aborti? Ovviamente è necessario operare in più dire-zioni, ma a me interessa porne in evidenza una che conosco bene, anche per i 55 anni di felice ma-trimonio che ho sulle spalle. Ed è il curioso problema degli anticoncezionali (curioso per le stranez-ze che si porta dietro).
Da tempo diverse voci del Magistero si levano a sollecitare «il rispetto della vita umana dal conce-pimento in poi». Sembrerebbe un chiaro invito a fare innanzi tutto il possibile per evitare concepi-menti indesiderati. Ma il Magistero ribadisce il suo no agli anticoncezionali. Come a dire: non fate nulla, né dopo né prima. Possibile che non si renda conto di quanto tale posizione incida negativa-mente sulla sua credibilità? Oggi il problema degli anticoncezionali non è all'ordine del giorno semplicemente perché non è più avvertito come problema da nessuno, neppure dalle coppie cattoli-che osservanti, che nel complesso si comportano secondo la coscienza maturata personalmente, e non in base a direttive dall'alto. Ma la credibilità del Magistero è invece d'importanza capitale, se si vogliono creare rapporti costruttivi non solo con la società laica, ma anche all'interno del mondo cattolico, dove le divergenze d'opinione sono assai più marcate di quanto si voglia far credere.
Il problema degli anticoncezionali non riguarda soltanto l'aspetto privato del matrimonio, ma anche il ben più vasto contesto sanitario mondiale, sul quale i divieti ecclesiastici hanno pesante incidenza soprattutto sul versante politico. Ebbene, sul divieto di usare anticoncezionali tra i cattolici non c'è affatto unità di vedute. Anzi, sondaggi e statistiche insegnano che la maggioranza dei coniugi non è affatto d'accordo. Personalmente ho sempre cercato d'informarmi il più possibile, e posso dire che non ho mai conosciuto nessuna coppia di sposi con un matrimonio consolidato da almeno 20/25 an-ni (e per consolidato intendo che continui a esserci un amore pieno, compreso la normale attività sessuale) che non consideri moralmente lecito l'uso di anticoncezionali. La cosa appare particolar-mente significativa se si tiene conto che sono gli sposi i ministri del matrimonio, mentre nel Magi-stero attuale, fatto di soli celibi, il sacramento matrimoniale non è rappresentato. La Lumen Gentium dice che «l'universalità dei fedeli non può sbagliarsi nel credere, quando dai Vescovi fino agli ultimi fedeli laici mostra l'universale suo consenso in cose di fede e di morale». Su questo argomento, al-tro che universale consenso! La presenza di uno scisma sommerso appare evidente.
Qualsiasi persona sensibile e ragionevole sa che il primo dei modi per sperare di contenere e ridurre l'aborto sarebbe una sana educazione all'uso di anticoncezionali. Non so se Ferrara proporrebbe an-che una moratoria ai divieti ecclesiastici, ma mi domando: che cosa impedisce di riaprire una di-scussione a tutto campo, senza pregiudizi? È ben noto che all'interno dello stesso Magistero vi siano posizioni contrastanti fin dai tempi conciliari e postconciliari, quando Paolo VI, nel comporre l'Hu-manae Vitae, ha dato retta alla minoranza della commissione di alti prelati da lui costituita, e non alla maggioranza che voleva dichiararli leciti, preoccupandosi però di rendere pubblicamente noto che la sua enciclica non poteva né doveva essere considerata come un pronunciamento infallibile. Tra l'altro lo sbandierato diritto naturale, posto alla base dell'Humanae Vitae e rivendicato con forza in questi giorni dall'attuale Papa, appare sempre meno come baluardo invalicabile. Un esempio clamoroso fra i tanti: prendiamo i trapianti d'organo: che cosa c'è di più innaturale che inserire in un organismo unitario, caratterizzato per lo stesso DNA in ogni singola cellula, degli elementi essen-ziali con DNA diverso? Eppure si tratta ormai di un'abitudine, da nessuno giudicata  immorale.
Benissimo perciò qualsiasi discussione a tutto campo che possa aiutare a far diminuire il numero degli aborti. Ma, per favore, cominciamo a togliere i tabù dai problemi più semplici e risolvibili.

2007

Tra documenti e speranze

L'esigenza di un radicale mutamento d'impostazione, nelle strutture ecclesiastiche, si avverte sempre più forte a tutti i livelli. Sull'argomento, è di grande interesse un coraggioso documento scritto dal vescovo Luigi Moretti, responsabile della pastorale familiare del vicariato di Roma, che già nel titolo è molto significativo: La Parrocchia del Futuro: Una Famiglia di Famiglie.
Partendo dalla Familiaris Consortio, che descrive la comunità ecclesiale come «grande famiglia formata da famiglie cristiane» (pag. 6), il documento sottolinea che «la famiglia non è fatta per essere mononucleare: l'isolamento la uccide.... nessuna famiglia è un'isola.... La famiglia è costituzionalmente fatta per essere clan, gruppo di famiglie solidali» (7), e afferma che «tante situazioni in tante giovani famiglie precipitano proprio perché le coppie sono lasciate assolutamente sole a gestire quotidianamente situazioni pesantissime» (21) Poi indica «tra le nuove opportunità.... il superamento del clericalismo e la presa di coscienza del ruolo dei laici nella Chiesa non come individui ma come sposi» e «la costituzione di gruppi di famiglie solidali» (25).
Aggiunge, inoltre: «nella misura in cui quest'azione di coscientizzazione avrà successo, ciò cambierà il volto della comunità ecclesiale, la parrocchia innanzi tutto, facendone ciò che per essenza dovrebbe essere: una famiglia di famiglie» (7), con «la famiglia come centro della nuova evangelizzazione.... animatrice e costruttrice di comunità di famiglie» (11). «La chiave di volta.... consiste nel.... aiutare le famiglie ad aiutarsi reciprocamente» (7), perciò «i presbiteri e gli sposi.... divengano complementari» (11) considerando la «complementarità dei due sacramenti dell'ordine e del matrimonio» (12), «due sacramenti della maturità.... finalizzati alla costruzione e al servizio della comunità» (11). Insomma, «né gli sposi da soli né i sacerdoti da soli.... solo insieme questa costruzione può essere realizzata» (15).
Anche se è ben noto che le stesse parole vengono sovente intese in maniere differenti, e devono quindi essere messe alla prova nella loro applicazione pratica, mi pare fuori dubbio che il documento sia proiettato verso il futuro in modo innovativo spiegandone motivi e necessità: «se le cose continuassero in questo modo non c'è da stare molto allegri per il futuro, e le prospettive per le nostre parrocchie non sarebbero esaltanti.... ciò che uccide e toglie le forze.... non è il dover lavorare, ma il lavorare senza prospettive, senza un futuro che non sia la stanca e sempre più illanguidita conservazione dell'esistente» (17), «in Italia siamo al di sotto del 20% nella frequenza domenicale, sul 90% di battezzati, con alcuni luoghi, ad esempio della Toscana, dove la pratica scende anche al di sotto del 5%» (23). Costatando «il diffondersi di una nuova pratica religiosa fai-da-te» (23), il documento si chiede «dove si trova la ragione culturale profonda di questo impressionante fenomeno di scadimento dell'appartenenza religiosa istituzionale, a fronte di una crescita altrettanto massiva della domanda religiosa privata nella società postmoderna?» (25). Poi risponde: «la ragione essenziale si ha nel fenomeno tipico della modernità del dissolvimento della distinzione sociologica fra chierici (letteralmente coloro che hanno in sorte il potere perché hanno studiato) e laici (letteralmente gli appartenenti al popolo suddito e analfabeta).... Una delle fondamentali ragioni del dramma del non incontro tra domanda religiosa e offerta religiosa da parte delle religioni istituzionali è nel fatto che tutta l'impostazione dell'offerta religiosa tradizionale..... è fondata su una distinzione chierici–laici che nella società di oggi è stata completamente ribaltata.... occorre declericalizzare l'offerta religiosa. Ritagliarla cioè sulle reali esigenze delle persone e delle famiglie.... il futuro anche immediato sarà solo di quelle istituzioni che saranno capaci di aggiornare nel senso di una complementarità autentica tra fedeli e sacerdoti» con un «ruolo dei fedeli.... del tutto complementare ma non minore a quello dei sacerdoti» (27).
E prosegue: «non può esistere evangelizzazione affidata alle sole parole.... invece noi ancora pretendiamo che le famiglie ascoltino la nostra evangelizzazione fatta solo di parole, di catechesi verbale» (28). «Ora, nel terzo millennio, assistiamo al declino dei religiosi, soprattutto numerico..... e già sappiamo a chi cederanno il testimone dell'evangelizzazione: alle famiglie.... per la prima volta nella storia, infatti, sono esse, le famiglie, anche il soggetto principale dell'azione evangelizzatrice della Chiesa.» (29/30). Aggiungendo che «non è cambiamento culturale da poco, passare dall'idea della chiesa-istituzione clericale che fornisce certi servizi alle famiglie, all'idea che siano le famiglie cristiane stesse, organizzandosi, a fornirsi reciprocamente certi servizi» (45), esprime la convinzione che «se è tutta la mentalità ecclesiale, a cominciare dai vescovi e dai parroci, a spingere in questa direzione, può fare il miracolo» (46).
Insistendo sul fatto che «in ogni caso è indispensabile far entrare la formazione alla condivisione e alla comunione interfamiliare come una delle componenti fondamentali alla formazione cristiana al matrimonio. Educare le giovani famiglie non solo a essere insieme al loro interno, ma anche a stare insieme fra di loro, aiutandosi, sostenendosi, è dimensione fondamentale del matrimonio cristiano» (48), il documento conclude con le parole della Familiaris Consortio: «Bisogna che le famiglie del nostro tempo riprendano quota! Bisogna che seguano Cristo!» (53).
Innanzi tutto bisogna riconoscere al vescovo Moretti di essersi espresso con grande coraggio. Il documento, nella sua esposizione teorica, a noi sposi cristiani appare un'eccellente proiezione verso il futuro. Ma come impedire dubbi e perplessità sulle concrete possibilità di applicazione? Per giungere a «una complementarità autentica tra fedeli e sacerdoti» anche la teologia, soprattutto quella matrimoniale, dovrebbe essere riesaminata, ripensata, riformulata insieme, in un intreccio paritetico tra chi ha il carisma dell'ordine e chi, essendo ministro del matrimonio, può mettere alla prova concretamente, nella vita vissuta, «le ispirazioni, per saggiare se provengono veramente da Dio», come raccomanda di fare San Giovanni. Ma possiamo sperare che l'autorità ecclesiastica sia disponibile a rimettersi in discussione? Perché altrimenti, se si inviteranno le famiglie alla presa di coscienza del loro nuovo ruolo, intendendo però che sui punti di riferimento fondamentali la parola spetterà solo e soltanto ai chierici, come nel passato, allora l'utilità di qualsiasi documento sarà pari a zero.

2003

Segni di conversione?

Più ci penso e più mi convinco che l'unica speranza di un futuro migliore sia legata alla conversione dei buoni. Perché i cattivi lo sanno di dover prima o poi cambiare qualcosa di sé, ma i buoni sono convinti di dover restare così come sono, e questa è un'autentica tragedia. Gesù è stato spietato con i buoni: peccatori e prostitute vi passeranno avanti; verranno da oriente e da occidente per sedersi a mensa al vostro posto; se non vi convertirete morirete tutti schiacciati dal crollo delle torri. Sintomo caratteristico dei buoni è pensare che siano sempre gli altri a doversi convertire per primi (cosa che scopro talvolta calzante anche per me). Conseguenze automatiche di tale sindrome sono schieramenti e contrapposizioni, nelle quali la logica di parte finisce inevitabilmente per prevalere sulle capacità di valutazione degli aspetti sostanziali, mortificando anche talune aperture che meriterebbero più attenzione.
A tal proposito, ribadisco di aver trovato piuttosto interessante il recente documento del Vicariato: La Parrocchia del Futuro: «Una Famiglia di Famiglie», e tuttavia parlandone con amici e conoscenti mi sono sentito per lo più rispondere: il solito documento! Vero che parole e scritti sovente lasciano il tempo che trovano, ma intanto, mi domando, quali speranze restano se documenti come questo vengono accolti con un'alzata di spalle? Non sarebbe meglio valorizzarli, sottolinearne gli aspetti positivi, utilizzarli per tentare di favorire la crescita di nuove mentalità?
Qualsiasi autorità ha bisogno di essere aiutata e incoraggiata sulla via della conversione. Scriveva Tullo Goffi quasi un quarto di secolo fa: «il fedele ha il dovere di non assuefarsi a un'autorità ecclesiale situatasi nell'ambiguità: deve spronarla a convertirsi al Signore... con ossequio filiale e con amore caritativo deve impegnarsi a promuovere nell'assemblea ecclesiale la presenza di un'autorità quanto più corrispondente alla grandezza del Cristo. Simile compito è insito nello stato stesso di cristiano». Nessuna conversione nasce da accuse e schieramenti, ma da quelle istanze che lo Spirito Santo fa germogliare nel cuore e nell'intimo. Le contrapposizioni ottengono solo il risultato di ricacciarle indietro, per questo penso necessario coltivare uno stato d'animo di affettuoso dissenso, che sia capace di far crescere ogni piccolo segno di conversione.
È in quest'ottica che ho letto, con grande gioia, le parole del Cardinale Ratzinger, là dove dice: «abbiamo molto da imparare. Siamo troppo interessati a noi stessi, alle questioni strutturali, al celibato, all'ordinazione delle donne, ai concili pastorali, ai diritti di questi concili e dei sinodi. Lavoriamo sempre sui nostri problemi interni e non ci rendiamo conto che il mondo ha bisogno di risposte, non sa come vivere. L'incapacità del mondo di vivere in modo adeguato si manifesta nelle droghe, nel terrorismo, etc. Per questo il mondo ha sete di risposte, e noi rimaniamo coi nostri problemi. Sono convinto che, se usciamo a incontrare gli altri e presentiamo loro il Vangelo in un modo appropriato, anche i nostri problemi interni saranno relativizzati e risolti. Questo è un punto fondamentale: dobbiamo rendere il Vangelo accessibile al mondo secolarizzato di oggi».
Leggendole, subito mi è tornato alla mente un documento da lui firmato nel 1990, la Donum Veritatis, che dice tra l'altro: «là dove la comunione di fede è in causa vale il principio dell'unitas veritatis; là ove rimangono delle divergenze che non mettono in causa questa comunione, si salvaguarderà l'unitas caritatis», che tradotto in parole povere significa che la formulazione teorico/razionale della fede (nostri problemi interni) è prioritaria rispetto a quel che si sente nel cuore. E mi è sembrato che queste recenti parole intendano dire sostanzialmente il contrario, e cioè che se non c'è l'unitas caritatis (l'amore senza distinguo) null'altro può aver senso. Qualche tempo fa il Cardinale Ratzinger aveva più o meno chiesto di non prendersela con lui, perché per il suo ruolo talvolta "deve" assumere posizioni sgradevoli. Ora però, incoraggiati a essere meno «interessati a noi stessi» e a guardarci di più attorno per «incontrare gli altri», si potrà sperare che anche lui veda via via modificarsi i suoi "doveri", fino a subordinare interamente all'amore (caritas) la difesa delle varie definizioni razionali e dogmatiche.
Schieramenti e contrapposizioni hanno fatto il loro tempo, la speranza d'imparare a dialogare, di ritrovare fiducia, di potersi incontrare e capire, è strettamente legata alla capacità di esprimere il dissenso in forme affettuose, in modo che anche l'autorità si senta stimolata ad accoglierlo e valutarlo con altrettanto affetto. Utopia? Forse, ma la nostra fede non ci chiede di sperare contro ogni speranza?

2003

Santa famiglia come modello?

La crisi della famiglia è uno degli elementi negativi che caratterizzano la nostra epoca. A quale modello dobbiamo guardare, noi crisliani, per ritrovare una direzione di marcia costruttiva? La festa della Santa Famiglia potrebbe essere un’occasione, e infatti l’orazione della liturgia domenicale recita: «O Dio, nostro Padre, che nella Santa Famiglia ci hai dato un vero modello di vita, fa che nelle nostre famiglie fioriscano le stesse virtù e lo stesso amore... ». C’è da chiedersi se si tratta di un’indicazione realistica.
Dal punto di vista simbolico, una tale famiglia, scelta e modellata a priori dall’alto, può suscitare tenere emozioni e favorire atteggiamenti di profonda devozione. E tuttavia una famiglia formata da persone docili e fedeli interpreti di una storia già scritta, difficilmente può servire da concreto modello di vita. Chi di noi, infatti, potrebbe fare altrettanto? La vita che sperimentiamo nel nostro concreto quotidiano è ben lontana dalla consapevolezza di dover essere proprio strutturata in tal modo, per disegno divino.
Ma non solo. Consideriamo il figlio unico. Può costituire esempio di famiglia ideale? Sarà forse perché ho tre figli, i due più grandi a loro volta ne hanno tre ciascuno e il più giovane (per il momento) due soli, e inoltre nella mia famiglia d’origine eravamo tre fratelli, altrettanti in quella di mio padre, di mia madre, di mia moglie, fatto sta che da sempre mi pare che nella famiglia tipo sia bene che i figli superino, per numero, i genitori. E del resto, in altri contesti, la chiesa ha sempre proposto la famiglia numerosa. Quale modello indica, dunque, il figlio unico?
In verità il Vangelo parla più volte dei fratelli di Gesù, indicandone anche i nomi «Non è forse egli il figlio del carpentiere? Sua Madre non si chiama Maria e i suoi fratelli Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda? E le sue sorelle non sono tutte fra noi?». Gli esegeti tradizionalisti dicono che in tale contesto (come in altri del Vangelo) le parole fratelli e sorelle devono essere intese come parenti prossimi (ad esempio cugini), ma nei brano citato sembrerebbe chiaro il riferimento agli stessi genitori. La scelta, comunque, è stata quella di considerarli semplicemente parenti: che peccato! Personalmente, come itinerario divino, un modello di famiglia numerosa dove, tra l’altro, la dinamica si sviluppa anche attraverso disaccordi e contrasti (la madre e i fratelli uscirono per andare a prenderlo, poiché dicevano: è fuori di sé), lo sentirei assai più stimolante e vicino. Ma naturalmente bisognerebbe rinunciare alla verginità di Maria e a quanto costruitole attorno.
Per carità! Qualcuno potrebbe spaventarsi soltanto a sentirlo dire! Teniamoci perciò questa immagine tradizionale, per altri versi bella, tenera e positiva: il valore simbolico è importante e non si tocca. Ma non c’è niente di male, credo, a dire clic tuttavia non è indispensabile alla divinità di Cristo: forse che lo Spirito Santo non sarebbe stato capace di concepirlo, sostanzialmente, anche attraverso un normale atto d’amore umano dei suoi genitori? E non sarebbe stato più realisticamente vero uomo, oltre che vero Dio? E i suoi genitori, non più costretti a una strana astinenza dalla sessualità ma non dalla procreazione, non diventerebbero modello di famiglia normale, in tutto e per tutto? Una famiglia modello perché capace di generare e far vivere la pienezza divina nel suo seno?
Per noi cristiani comuni, immersi in rapporti coniugali intrisi di una problematica sessuale che crea continue difficoltà (ma che invita anche a superarsi per diventare una sola carne, per uscire dalla logica del tu e io, contrapposti, fino a fondersi nel divino noi) come sarebbe possibile prendere a modello un rapporto coniugale bellissimo, ma solo spirituale, comunque di tutt’altro tipo dal nostro? E tuttavia resta fondamentale, per costruire un matrimonio valido, qualche modello di riferimento, se si vuole imparare a governare la propria vita anziché lasciarla gestire dal caso.
I simboli hanno la loro efficacia e la loro grandezza, e guai a volerne fare a meno. Ma certo che una famiglia più legata alla dimensione umana, con i coniugi che costruiscono la loro armonia attraverso tutte le difficoltà quotidiane di un completo rapporto a due, ricco anche di sessualità, potrebbe indicare assai più concretamente un modello ideale di vita cristiana. Purtroppo, invece, possiamo solo immaginarlo con la fantasia.

2003

A proposito di nuovi martiri

E' appena uscito, per le edizioni San Paolo, il libro di Luigi Accattoli dal titolo: Nuovi martiri, 393 storie cristiane nell'Italia di oggi. Un elenco di personaggi e fatti impressionanti, che suscitano alternativamente ammirazione, orrore, rabbia, commozione, ma soprattutto stupore. Le persone ricordate vanno da personaggi famosissimi a umili sconosciuti, tutti uniti nella stessa dignità, che nasce dal comune dono della vita a beneficio altrui.
Già alcuni anni fa lo stesso autore aveva pubblicato, con la SEI, un altro libro intitolato: Cerco fatti di vangelo. Due titoli emblematici. Qualsiasi persona sensibile ai drammi della prepotenza umana, e quindi capace di lasciarsi conquistare dal coraggio di coloro che invece di opporre violenza a violenza offrono semplicemente la loro vita e il loro perdono, sente emergere un forte senso di gratitudine per chi, come Accattoli, s'impegna tenacemente a scoprire, comunicare, mantenere vive simili testimonianze. La nostra società ne ha tanto bisogno.
Detto questo, ribadendo quindi un apprezzamento senza riserve, vorrei però aggiungere che, per un aspetto particolare, il libro mi ha messo in crisi. Premetto che non intendo fare critiche né proporre quesiti retorici di alcun tipo, ma semplicemente porre un problema a più sfaccettature che, sinceramente, non saprei come si potrebbe risolvere.
Nell'elenco di tali nuovi martiri è incluso Paolo Borsellino, ma non Giovanni Falcone. Il motivo è chiaro: il primo era esplicitamente cristiano, il secondo no. E tuttavia quello che mi mette in crisi, suscitandomi numerosi interrogativi, è il fatto che i due, nell'immaginario collettivo italiano, sono indissolubilmente legati, e riconosciuti entrambi come martiri della giustizia. Che pensare?
C'è un interrogativo al quale mi piacerebbe saper rispondere. Se, dal punto di vista civile, si attribuisce valore equivalente al sacrificio di quei due, è giustificato mutare valutazione quando si entra nell'ottica cristiana? Ha senso ricordare l'uno come martire e l'altro no? O avrebbe senso, concretamente, dire che l'uno è un martire cristiano e l'altro soltanto della società civile? Se penso a quei due, mi piace immaginarmeli a braccetto, e non potrei assolutamente dire, onestamente, di sentirmi più fratello dell'uno che dell'altro. Questo fatto mi crea una sgradevole crisi d'identità.
Inoltre, è noto il pensiero di Borsellino sul suo amico e collega, che viene anche riportato ampiamente nel libro: Giovanni Falcone lavorava con perfetta coscienza che la forza del male, la mafia, lo avrebbe un giorno ucciso.... Perché non è fuggito, perché ha accettato questa tremenda situazione, perché non si è turbato, perché è sempre stato pronto a rispondere a chiunque della speranza che era in lui? Per amore! Se egli è morto nella carne, ma è vivo nello spirito, come la fede ci insegna, le nostre coscienze, se non si sono svegliate, debbono svegliarsi! La speranza è stata vivificata dal suo sacrificio.... Mi domando: ma le stesse parole, identiche nella forma e nel contenuto, non sono forse calzanti anche per Paolo Borsellino? E allora? Dove sta, in concreto, la differenza fra i due?
Di fronte a simili dilemmi il problema del cristianesimo implicito riaffiora in tutta la sua complessità. E' fin troppo noto, infatti, che taluni sedicenti cristiani espliciti contraddicono vergognosamente nei fatti lo spirito di Cristo. Così come vi sono persone che non parlano di Cristo ma donano la loro vita agli altri, facendo proprio, di fatto, il nucleo essenziale del suo messaggio. Mi verrebbe da chiedere: esiste forse una giustizia cristiana e una giustizia di altro tipo? E, nel caso, sarebbero uguali o diverse fra loro? Oppure, quando Gesù dice: nel mio nome, dobbiamo pensare che intenda dire: in nome della giustizia tout court? Se è vero che dai frutti si vede la bontà dell'albero, ciò non significa forse che nel cristianesimo i gesti valgono più delle parole? D'altra parte, è anche vero che sarebbe scorretto attribuire unilateralmente a persone come Falcone la qualifica di cristiano, sia pure implicito. Un bel dilemma, insomma.
Con questo, lungi da me l'intenzione di voler svalutare o annacquare l'identità cristiana. Ma mi sembra altrettanto importante sottolineare che i fatti di vangelo possono essere compiuti anche senza parlare di Gesù Cristo. Quanto a coloro che donano la vita per gli altri, forse si potrebbero definire martiri di quella fede comune a tutti gli uomini di buona volontà, indipendentemente da quel che dicono di credere o non credere.
All'amico Accattoli, ringraziandolo ancora per il magnifico lavoro, vorrei suggerire, in una prossima edizione, di aggiungere un'appendice con nomi di martiri che non sono dichiaratamente cristiani. Da parte mia, sono convinto che a Gesù Cristo non dispiacerebbe affatto.

1999

Celebrare la Pasqua: bombardamenti aerei e liturgici

In questi giorni di guerra cruenta e clamorosa, le liturgie pasquali potrebbero avere un ruolo particolarmente significativo. Quale via migliore per tentare d’intravedere qualche spiraglio di luce, se non ricordare e celebrare chi ha preferito subire personalmente violenza, anziché riversarla sugli altri? Che significato avrebbe Cristo risorto, se non salvezza dalle contraddizioni d’ogni logica di schieramento e conflitto? Questo il messaggio di speranza e di pace: un magnifico auspicio. Ma non tutto quadra: “La Pasqua del Signore! In quella notte io passerò per il paese d’Egitto e colpirò ogni primogenito, uomo o bestia. Così farò giustizia, io sono il Signore! Non vi sarà per voi flagello di sterminio quando colpirò l’Egitto”. Che strano, mi dico, credevo che il Dio di Gesù non fosse un potente schierato da una parte contro l’altra, pronto a schiacciare i nemici. Qualche studioso, ricordo, mi ha spiegato che i libri storici vanno interpretati, ma nella liturgia l’esegesi non conta. “Questo giorno sarà per voi un memoriale; lo celebrerete come festa del Signore: di generazione in generazione, lo celebrerete come un rito perenne”. Celebrare significa approvare e confermare solennemente. E anche compiacersene.
Ma c’è di peggio: i Lamenti del Signore. “Io per te ho flagellato l’Egitto e i primogeniti suoi, e tu mi hai consegnato per esser flagellato; … per te ho colpito il re dei Cananei, e tu hai colpito il mio capo con la canna”. Perché mai dovrebbe lamentarsi di tali conseguenze? Non è lui che ha detto: “Quelli che mettono mano alla spada periranno di spada”? E la sua regola d’oro: “fate agli altri quel che volete facciano a voi” non significa forse che usare violenza conduce inevitabilmente a subire violenza? Se i lamenti del Signore fossero veramente tali non resterebbe che rispondergli con un amaro sorriso beffardo. In questo caso non si tratta di racconti biblici, che potrebbero per lo meno avere un senso storico, ma di elaborazioni ad hoc, fatte e ripetute per esprimere quel che la nostra religiosità gli attribuisce, senza rendersi conto che mettere in bocca a Cristo il contrario del suo messaggio significa continuare a crocifiggerlo, perfino nelle celebrazioni del Venerdì Santo.
Le liturgie continuano: “Il Signore li travolse così in mezzo al mare. Le acque ritornarono e sommersero i carri e i cavalieri di tutto l’esercito del faraone ….. non ne scampò neppure uno. …. Israele vide gli Egiziani morti sulla riva del mare, vide la mano potente con la quale il Signore aveva agito contro l’Egitto e il popolo temette il Signore e credette in lui”. Quando si celebra una sottomissione ottenuta attraverso morti, paure, violenze, perché mai meravigliarsi se qualcuno sponsorizza poi la strategia delle bombe?
Di fronte all’autentica apocalisse di questi giorni (non per noi, sia ben chiaro, che psicologicamente siamo capaci di soffrire moltissimo, continuando però a stare al caldo con la pancia piena) la chiesa ufficiale sembra adoperarsi per una soluzione non violenta, ma quanto appare credibile? Continuano a essere moltissimi i cattolici guerrafondai, che si ritengono giustificati da secoli e secoli di morale e politica ecclesiastica impegnate a colpire il diavolo, i cattivi, i dissenzienti, i nemici, i diversi. Che cultura ha prodotto una chiesa che si è sovente schierata dalla parte di regimi violenti (ad esempio Franco, Videla, Pinochet) affiancandosi di fatto alle loro crudeltà? Quanto alla giustificazione di dover combattere avversari autori di violenze ancora peggiori (ammesso che fosse vero) qualche senso potrebbe avere, nell’ottica di Cristo? Con tutte le migliori intenzioni (probabilmente presenti) l’uso di continuare a proporre l’immagine di un Dio schierato con qualcuno contro qualcun altro suona inevitabilmente come invito a fare altrettanto, e la storia lo dimostra abbondantemente. Perché dunque stupirsi se l’occidente, da bravo figlio della civiltà cristiana, sente il dovere primario di punire il cattivo Milosevic, senza preoccuparsi troppo che le vittime (tutte persone anonime) finiscano gettate in un autentico inferno? Quasi nessuno, all’inizio, l’aveva capito (o l’aveva detto) e ora pressoché tutti, compresi i numerosissimi cristiani nutriti di cultura violenta e guerrafondaia (perfino attraverso le liturgie) si stracciano le vesti (si fa per dire) e tentano di lavarsi la coscienza versando contributi alle ONG.
Sarebbe ora di uscire una volta per tutte dalle tradizioni di violenza e di morte. Se non cominciamo dalla liturgia, che dovrebbe indicare simbolicamente un cammino capace di renderci migliori, come possiamo sperare di cambiar mentalità? Come tollerare ancora che si sentano autorizzati a proclamarsi cristiani sia gli autentici amanti della pace, sia coloro che vorrebbero coniugare Cristo con le armi?
C’è da chiedersi quanto sia tuttora presente, nella cultura cattolica, l’immagine di un Dio violento, che giustifica le violenze contro i “cattivi”. A porvi attenzione, le bestemmie del venerdì santo appaiono sconvolgenti. Ma ancor più sconvolgente è vedere che molti, religiosi e laici, non se ne accorgono, non ci fanno caso, non lo capiscono. E quei pochi che lo capiscono non si ribellano. Questo Papa, che sente il peso degli errori commessi e vorrebbe promuove un’autentica cultura di pace, potrebbe ottenere il suo scopo soltanto con il coraggio di riconoscere che in passato la chiesa si è sbagliata, e resterà prigioniera dei suoi errori finché non lo ammetterà esplicitamente, anche attraverso la purificazione del linguaggio teologico e rituale. Ma bisognerebbe credere in un’immagine divina totalmente libera da tentazioni violente di qualsiasi tipo, e quella che traspare talvolta dalle parole di alte personalità ecclesiastiche non lascia molte speranze.
I giornali hanno paragonato la tragedia dei profughi nel Kossovo a un esodo biblico. Magari lo fosse! Là era il movimento d’un popolo verso terre nuove e vita nuova, in un cammino di libertà e speranza. Qui invece..… Da parte mia, confesso di non riuscire a capire che cosa si potrebbe fare di concretamente positivo. Come idea, mi piacerebbe far parte di una folla sterminata di persone che entrano disarmate in Kossovo, disposte a farsi uccidere pur di mettere fine a qualsiasi forma di violenza. Ma forse lo dico soltanto perché so di non correre alcun rischio di doverlo fare. Per lo meno, però, mi piacerebbe partecipare a liturgie pasquali capaci di rammentarci senza ambiguità che lo Spirito di Cristo non ci esorta a colpire i nostri nemici, ma ci ricolma di serenità e di gioia ogni volta che abbiamo il coraggio di porgere l’altra guancia e perdonare. Soltanto celebrando l’utopia i messaggi di pace della chiesa (che probabilmente continuerebbero a essere poco ascoltati) ridurrebbero almeno gli spazi alla violenza, ricordando che non si può essere in alcun modo cristiani e guerrafondai.
Mi domando se è ancora possibile sperare contro ogni speranza.

1999

Vera o falsa che sia
quale valore ha la Sindone?

La Sindone è autentica, la Sindone è falsa: c’è chi si straccia le vesti su tale dilemma, e chi si mostra beffardo definendola un “cencio superstizioso”. Qualcuno disapprova che il Cardinale di Torino abbia dichiarato (qualche tempo fa) di non averla mai creduta una reliquia, mentre altri si rammaricano dell’ impenetrabile silenzio della Chiesa ufficiale, che non si decide a chiarire se è “una reliquia da venerare, o di un reperto criminale, truffaldino, simoniaco da esorcizzare”, come ha scritto in questi giorni un quotidiano cattolico.
Quando una decina d’anni or sono, con la prova del carbonio 14, gli scienziati avevano concluso che si trattava di un tessuto del XIII o XIV secolo, pareva che il quesito fosse risolto per sempre. Invece oggi, in occasione della nuova ostensione, speranze e scetticismi hanno ricominciato a farsi protagonisti. Confesso di non riuscire a capire: personalmente credo che il dilemma abbia grande interesse per la scienza, ma sul versante fede, mi domando, che cosa camba concretamente nell’un caso o nell’altro?
La fede in Gesù Cristo ha precisi riferimenti alla sua persona e agli eventi storici che la riguardano, e qualsiasi aspetto o elemento che ne derivi vale sempre in riferimento alla sua vita vissuta. Queste considerazioni non entrano in merito alla correttezza dei singoli atteggiamenti personali nei confronti della Sindone, ma si propongono soltanto di sottolineare che anch’essa, vera o falsa che sia, rimanda a quell'evento.
Il dilemma invita a interrogarsi sulla differenza tra reliquia e icona. Dei due termini, il primo sta a indicare i resti (di persone o oggetti), mentre il secondo indica un'immagine. Ma se per tutti è ben chiaro che qualsiasi icona non ha valore in se stessa, pur quando suscita fortissime emozioni per il suo rimando al vissuto che rappresenta, qualcuno tende invece ad assegnare alla reliquia un valore oggettivo in se stessa, indipendentemente dal suo riferimento. Ma tale atteggiamento è corretto e giustificabile? In altre parole, un frammento d’osso appartenuto a un santo è forse, in se stesso, più spirituale di qualsiasi altro frammento d’osso? E una scheggia di legno della croce di Cristo è forse intrinsecamente più spirituale di qualsiasi altro pezzetto di legno?
La reliquia può avere indubbiamente valore di sacramento, cioè di segno visibile che rimanda a una realtà invisibile (almeno al presente), e come tale può essere venerata. E tuttavia sarebbe corretto farlo soltanto se si ha chiara coscienza che il suo ruolo è quello di richiamarsi alla persona o all’evento storico dei quali è resto. Altrimenti si cadrebbe in una concezione magica della fede. Ma non può forse avere la stessa funzione anche l'icona? Non può essere anch’essa sacramento di Cristo, della Madonna, dei santi, di qualche evento della fede? E non sono forse venerate icone di vario tipo, in molti santuari, senza tuttavia cadere nell’iconolatria se resta ben chiaro che non hanno valore in se stesse, ma sono semplicemente rimandi, più o meno diretti, alla storia di Cristo? E quante volte un’icona, o un qualsiasi altro stimolo di fede, si rivela strumento efficientissimo per far vivere o rivivere momenti d’estasi?
André Frossard, nel racconto straordinariamente suggestivo della sua conversione, dice di essere stato folgorato entrando in una banale chiesa anonima, che descrive non particolarmente esaltante, aggiungendo che l’interno non è più stimolante dell’esterno. Sappiamo che altri, invece, sono rimasti indifferenti e scettici non solo davanti alle più preziose reliquie, ma perfino di fronte a Gesù in persona. E non solo nei diversi momenti storici del suo proporsi, ma perfino di fronte al crocifisso.
Se Grazia di Dio è incontro con Cristo (nelle più svariate forme), se sacramento è segno efficace per riconoscerlo, allora qualunque elemento può essere valido, basta che il cuore dell’uomo si lasci toccare. Naturalmente taluni segni particolarmente “toccanti”, come la Sindone, possono aiutare a sciogliere la “durezza del cuore”, ma non possono certo agire forzando la volontà, altrimenti si tratterebbe, appunto, di magia. E farne oggetto di culto sconfinerebbe nell’idolatria.
Insomma, di fronte a un qualsiasi oggetto di culto, il pensiero e la sensibilità si focalizzano sull’oggetto oppure su Gesù Cristo? Ma se ogni elemento di fede è un rimando alla sua storia vissuta e al messaggio che ha lanciato, sia le reliquie che le icone assumono, di fatto, lo stesso valore, perché offrono la stessa possibilità di entrare in contatto con lui a quei fedeli che lo desiderano. Perciò, dal punto di vista della fede, che una reliquia sia vera o falsa è assolutamente secondario, perché di fatto ha sempre valore di icona, e in entrambi i casi può essere stimolante per alcuni e lasciare scettici o indifferenti altri. Nel caso della Sindone, che sia stata l’autentico sudario di Gesù, oppure di un qualsiasi altro uomo sottoposto a una passione analoga, o che sia piuttosto un capolavoro di contraffazione, nella sostanza non cambia nulla, perché resta comunque un validissimo strumento per penetrare nelle menti e nei cuori di chi si lascia coinvolgere, e richiamare lo sconvolgente racconto dei Vangeli. Qualunque cosa sia in se stessa, per chi guarda con gli occhi della fede la Sindone è comunque sacramento di Cristo martirizzato, morto, sepolto e risuscitato, e nessuna prova al carbonio o checchessia potrà modificarne il significato e l’importanza, perché nessun responso potrà modificare l’immagine che rappresenta.
Con tale spirito, può essere valido e positivo, per alcuni, considerarla un patrimonio prezioso, e tutti possono continuare tranquillamente a rapportarvisi secondo la propria sensibilità, indipendentemente da qualsiasi riscontro scientifico. Che se poi, invece, si credesse di doverla venerare se vera o esorcizzare se falsa, allora sarebbe il caso d’interrogarsi sulla propria fede.

1998

La verità di Cristo e “le verità” ecclesiastiche

Il 21 maggio scorso il Papa ha fatto l’ipotesi, inedita e clamorosa, che Gesù risorto sia apparso, prima di tutti, a Maria (cfr Oss Rom del 22/5/97). Impegnato da tempo ad attribuire alle donne taluni ruoli e non altri, ha voluto, probabilmente, valorizzare il ruolo della madre, ma dal punto di vista della fede vissuta una simile ipotesi, vera o falsa che sia, non cambia proprio nulla. Perciò, non troverei motivo per entrare in merito al contenuto del discorso, mentre mi sembra di grande interesse riflettere sul tipo di ragionamento utilizzato, che può aiutare a capire come mai nei nostri “articoli di fede” ci siano tante ambiguità, contraddizioni, sovrastrutture. Tale tipo di ragionamento è basato su quella che si potrebbe definire la logica dei desideri (mi fa piacere che una tesi sia vera, perciò sono portato a trovare convincente ogni elemento a sostegno). Se nel caso presente il contenuto della tesi è d’importanza secondaria, non così il metodo, che è stato sovente utilizzato in altre occasioni per affrontare e trarre deduzioni su argomenti determinanti.
Dice infatti il Papa: «I Vangeli riportano diverse apparizioni del Risorto, ma non l’incontro di Gesù con sua Madre. Questo silenzio non deve portare a concludere che dopo la Resurrezione Cristo non sia apparso a Maria; ci invita invece a ricercare i motivi di una tale scelta da parte degli evangelisti». La prima affermazione è un fatto indiscutibile: i Vangeli non ne parlano. La seconda è una considerazione ovvia: il silenzio non è dimostrazione che un evento non esiste. La terza però (ricercare i motivi di una tale scelta) si presenta già come invito a svalutare, se non rifiutare, l’ipotesi più probabile: che gli evangelisti non ne abbiano parlato semplicemente perché il fatto non è avvenuto.
A mano a mano che il discorso del Papa prosegue, l’interesse aumenta. «La Vergine..... come potrebbe essere stata esclusa dal numero di coloro che hanno incontrato il suo divin Figlio risuscitato dai morti? E’ anzi legittimo pensare che verosimilmente la Madre sia stata la prima persona a cui Gesù risorto è apparso». Un quesito che sottintende un auspicio (come potrebbe essere stata esclusa?) rende legittima e verosimile l’ipotesi desiderata. E avanti di questo passo, le cose che i vangeli tacciono diventano indizi positivi: «L’assenza di Maria dal gruppo delle donne che all’alba si reca al sepolcro, non potrebbe forse costituire un indizio del fatto che Ella aveva già incontrato Gesù?» E più oltre: «A..... Maria Maddalena..... il Risorto affida il messaggio da trasmettere agli Apostoli. Anche questo elemento consente forse di pensare a Gesù che si mostra prima a sua Madre». Ci sarebbe da chiedersi quale valenza attribuire ai ripetuti forse, ma le conclusioni sembrano portare oltre. «La Vergine Santissima è probabilmente stata testimone privilegiata anche della risurrezione di Cristo» e «Accogliendo Gesù risorto, Maria è inoltre segno ed anticipazione dell’umanità». Da forse a probabile fino ad una affermazione: è segno.
Se l’ipotesi provenisse da qualche ricercatore di suggestioni, potrebbe essere interessante, come tante altre. Ma se lo dice il Papa dallo stesso pulpito che usa per affrontare i problemi drammatici dell’umanità, o per approfondire elementi essenziali della fede, c’è da chiedersi quanto ci guadagna o ci rimette la sua credibilità. E insieme alla sua, quella di tutti noi cattolici.
Affermando che Cristo è vero Dio e vero uomo, il Concilio di Calcedonia ha condannato il monofisismo, ma la cultura ecclesiastica ne è rimasta impregnata. Lasciar prevalere il vero Dio sul vero uomo, però, significa dar spazio ad immagini preconfezionate: Dio non può che avere taluni attributi (onnipotenza, onniscienza, ecc.) perciò Gesù non può che averli anche lui. E talune caratteristiche divine che non hanno nulla a che fare con la rivelazione, ma sono semplici proiezioni psicologiche, vengono ricuperate e inserite di prepotenza tra le “verità di fede”, ponendo in secondo piano proprio gli aspetti più originali del messaggio. Le conseguenze sono fin troppo note: divisioni, emarginazioni, prevaricazioni, fino a scomuniche, violenze e perfino uccisioni e torture, provocate o approvate o tollerate in nome della “verità” e della “fede”. E non solo nei tempi passati. Così l’amore applicato concretamente nel rapporto con i fratelli (amici e nemici, buoni e cattivi), unico frutto in grado di misurare la verità di Cristo, viene posposto alle “verità” basate sulla logica umana, che privilegiano sempre la teoria sul vissuto.
Il recente discorso del Papa la dice lunga su tale mentalità ecclesiastica. Poco tempo fa, mercoledì 4 dicembre, aveva affermato che «Il compito educativo di Maria, rivolto a un figlio così singolare, ........ esigeva un orientamento sempre positivo, con l’esclusione di interventi correttivi nei confronti di lui» (cfr Oss. Rom. del 5/12/96). Anche in questo caso: vero Dio ma non vero bambino, contribuendo a far di Gesù un modello incommensurabile, e di conseguenza a rendere astratto il punto chiave del suo messaggio: fate come me, quello che ho fatto io lo potete fare anche voi. Ma chi può crederci sul serio, se lui era insuperabilmente diverso da noi!?
Per concludere, quali conseguenze possono avere simili discorsi? Si ipotizza ciò che la propria mentalità desidera credere, e si finisce per affermarlo. E così, successivamente, l’ipotesi-affermazione resta acquisita come patrimonio della tradizione, influenzando pesantemente le riflessioni successive, fino a rendere il messaggio sempre più complesso e, talvolta, lontano da quello essenziale di Cristo.
Vien da chiedersi: quante «verità di fede», nel corso dei secoli, si sono formate in tal modo?

1997

Vademecum, coscienze personali e speranza

Il recente Vademecum per i confessori su alcuni temi di morale coniugale ripropone, sostanzialmente, cose dette e ridette più volte. C’è però un punto particolare sul quale vale la pena di soffermarsi, perché potrebbe aprire nuove prospettive.
Al capitolo 3 punto 8 il documento dice: «è preferibile lasciare i penitenti in buona fede in caso di errore dovuto ad ignoranza soggettivamente invincibile, quando si preveda che il penitente, pur orientato a vivere nell’ambito della vita di fede, non modificherebbe la propria condotta, anzi passerebbe a peccare formalmente». Buona fede, errore, ignoranza invincibile, insomma problemi che riguardano la coscienza. Prima di andare oltre, quindi, è interessante ricordare quanto ha detto in proposito Papa Giovanni Paolo II: «La coscienza è norma prossima all’agire, e come tale va seguita perfino nel caso di errore dovuto a ignoranza invincibile....... Come tutte le cose umane, anche la coscienza può.... andare incontro a illusioni o errori..... La coscienza ha bisogno di essere coltivata ed educata ed il cammino privilegiato della sua formazione.... è il confronto con la rivelazione biblica della legge morale, autorevolmente interpretata.... dal magistero della chiesa». (cfr Oss.Rom. 8/9 novembre 1993). Una coscienza che possa dirsi tale, quindi, sa di non avere un’assoluta autonomia, di poter cadere nell’illusione e nell’errore; di dover essere coltivata ed educata soprattutto nel confronto (attento e sincero) con l’autorità ecclesiastica. Ma una volta fatto correttamente tutto questo, ciascuno deve seguire la propria coscienza anche quando sbaglia. In teologia morale, errore dovuto a ignoranza invincibile, significa avere convinzioni diverse da quanto dice la norma magisteriale, pur osservando la dovuta diligenza morale, avendo utilizzato correttamente mezzi e strumenti a disposizione, e quindi invincibile perché non dovuto a ignoranza. In altre parole, una sincera e profonda convinzione, maturata nello studio e nel confronto, che suggerisce comportamenti diversi da quelli ufficialmente indicati.
Nel caso specifico del Vademecum (3.8), l’errore dovuto a ignoranza invincibile sarebbe la convinzione personale che nel proprio matrimonio l’uso di contraccettivi non è un male, o ha comunque valenza positiva. In tal caso non ci sarebbe, ovviamente, senso del peccato, e quindi neppure percezione di doversi (per questo) confessare. Di fronte a simili situazioni, dice l’articolo del Vademecum, è preferibile lasciare le persone nella loro convinzione, e quindi non negar loro l’assoluzione, che li porterebbe, altrimenti, a peccare formalmente.
Riassumendo con parole più semplici, il Vademecum dice al confessore: quando ti trovi davanti una persona che mostra di avere una coscienza priva di malizie e superficialità, e ciò non ostante crede lecito usare i contraccettivi, ricordagli le norme del Magistero (punto 5), esortalo a non essere troppo sicuro di sé e ad approfondire il problema (seguito del punto 8), ma non negargli per tal motivo l’assoluzione.
Insomma, è come dire al “penitente” di seguire la propria coscienza; e al confessore, di non colpevolizzare, discriminare o emarginare chi sceglie di restare fedele alla coscienza, anche se si comporta in modo difforme dall’indicazione dell’autorità.
Forse non c’è niente di nuovo, perché questo atteggiamento si ritrova perfettamente in linea con le interpretazioni che erano state date all’Humanae Vitae fin dall’inizio, e tuttavia l’insistenza e l’accentuazione drammatica data al problema degli anticoncezionali da questo pontificato, aveva finito per creare un clima d’imbarazzo attorno a quegli sposi che, pur essendo attivamente impegnati nella vita di fede, in materia di anticoncezionali fanno scelte diverse dalla norma. Ora questo documento riconosce di fatto piena comunione ecclesiale anche a chi, in coscienza, non si trova d’accordo con talune affermazioni del Magistero. Si badi bene, non un disaccordo per superficialità o motivi di comodo, ma una posizione diversa nel contesto di una vita di fede, basata su atteggiamenti corretti nella ricerca, nel confronto con i documenti magisteriali, nell’uso dei mezzi a disposizione e delle naturali capacità psicofisiche.
La cosa potrebbe rivelarsi molto importante per la vita della comunità ecclesiale. Il Vademecum sottolinea le testimonianze positive dei coniugi che hanno costruito un buon matrimonio usando i cosiddetti metodi “naturali”(2.6), ma non dice nulla sulle numerosissime testimonianze positive di quelli che hanno anch’essi costruito solide famiglie, pur scegliendo in piena coscienza altre forme di controllo delle nascite. E tutti sanno che sono una percentuale altissima, fra i matrimoni riusciti. Anzi, probabilmente la stragrande maggioranza. Se dai frutti si vede la bontà dell’albero.....
Il Vademecum ribadisce l’intrinseca malizia della contraccezione (2.4). Si può dissentire, ma resta la posizione del Magistero, il quale però, al punto citato (3.8), propone un rispetto delle coscienze che potrebbe aprire nuove prospettive nei rapporti tra autorità e fedeli. Sarà utopia? Forse, ma chi ci impedisce di sperare?

1997

Verso il terzo millennio: con quale mentalità?

Il vescovo Olandese Muskens afferma che, di fronte alla necessità, rubare (l’indispensabile) non è peccato. Politici e benpensanti reagiscono indignati, indicandolo come un sovversivo. Il direttore della Caritas, don Elvio Damoli, in un’intervista su Famiglia Cristiana del 16/10/96, dice tra l’altro: “non è concepibile che dalle nostre celebrazioni eucaristiche escano fedeli che.... nella vita quotidiana..... abbiano comportamenti che sono in stridente contraddizione con il comandamento dell’amore del prossimo” e afferma che gli insegnamenti della morale cattolica, relativi alla carità, vanno decisamente rivisti. Sono solo due dei numerosi interventi che da qualche tempo chiedono semplicemente il coraggio di rimettere in discussione taluni aspetti cristallizzati, e ormai perdenti, della realtà cattolica. Si può essere più o meno d’accordo, ma il problema resta e interpella ogni coscienza. La Chiesa si prepara a celebrare un grande giubileo per festeggiare i 2000 anni dell’era cristiana, ma con quale mentalità affronta il futuro?
Qualche mese fa il cardinale Bernardin, arcivescovo di Chicago, ha presentato un documento nel quale dice: «è largamente riconosciuto che la Chiesa cattolica.... è entrata in una fase pericolosa.... un sentimento di sospetto e acrimonia aleggia su molti di quelli che partecipano alla vita della Chiesa, e a volte sembra infiltrarsi anche fra le fila dei vescovi.... la discussione sincera è inibita.... per il modo in cui questa lotta sta ora procedendo, potrebbe essere l’intera chiesa a perdere.... se non esaminiamo la nostra situazione con occhi puri, menti aperte e cuori mutati, nel giro di pochi decenni una vitale eredità cattolica potrebbe essere dissipata». Altri autorevoli ecclesiastici hanno preso subito le distanze, riproponendo le solite barricate difensive: è ancora molto comune l’opinione che essere buon cristiano significa soprattutto non turbare l’ordine costituito, e chi lo turba potrà anche avere delle ragioni, ma si pone comunque dalla parte sbagliata (in altre parole, è cattivo).
Le resistenze al “nuovo” sono tipiche di qualsiasi potere costituito, ma oggi è urgente cambiare mentalità, perché il mondo sta cambiando a velocità impressionante, ponendo interrogativi sempre più inquietanti. Il giorno di Pentecoste, quando preghiamo lo Spirito Santo di rinnovare la terra, siamo veramente sinceri? La tentazione di cristallizzare il passato è presente da sempre nella Chiesa, ed è facile immaginare i 2000 anni trascorsi come fondamento di una tradizione che pesa ormai in maniera insuperabile. Forse giova ricordare che un tempo i cristiani credevano che la creazione fosse avvenuta soltanto qualche migliaio di anni fa, mentre ora sanno che di anni ne sono passati miliardi. Che pensare allora del futuro? Forse, per dirla in termini biblici, venti secoli della nostra era conteranno come un granello di polvere, come il pulviscolo sulla bilancia.
Questo il punto chiave: il Cristo di ieri non vale forse in funzione di quello di domani? Ma se andiamo avanti di questo passo, «troverà ancora la fede sulla terra»? In un contesto mondiale così instabile ed esplosivo, dove il cristianesimo ufficiale rischia di restare sempre più prigioniero della privilegiata oasi occidentale, la Chiesa preferirà attestarsi sulla difensiva, lasciandosi trascinare controvoglia dagli eventi, oppure si farà  forza traente per convertire le coscienze a un nuovo senso di fraternità, che vada oltre gli schieramenti di qualsiasi tipo, razza, latitudine, ambiente sociale?
I profeti del nostro tempo vengono più facilmente zittiti che ascoltati: come mai? Il Credo, simbolo fondamentale della nostra fede, dice che lo Spirito Santo «.... ha parlato per mezzo dei profeti». Quel verbo al passato! Non appare per lo meno strano? Credo che nessuno abbia inteso o intenda dire che lo Spirito ha smesso di parlare, ma certamente una tale formulazione indica e favorisce una mentalità rivolta all’indietro più che proiettata al futuro. Forse qualcuno si spaventerà a immaginare ipotesi di rinnovamento di antiche formule tanto importanti e significative, eppure oggi non ci scandalizziamo affatto che a suo tempo il simbolo Apostolico sia stato sostituito dall’attuale Niceno-Costantinopolitano, né interpretiamo il fatto come contestazione o scortesia nei confronti degli Apostoli. Era semplicemente una risposta alle esigenze dell’epoca. Oggi, ancor più di allora, la necessità di una maggiore adesione tra fede proclamata e vissuta richiede radicali cambi di mentalità. Nessuno che crede nel futuro privilegerebbe verbi al passato.
Il punto chiave sul quale siamo chiamati a riflettere è il rapporto tra “io” e gli altri, tra “noi” (famiglia, concittadini, europei) e gli altri. Se viene visto come antitesi, gli schieramenti e i conflitti saranno insuperabili. Di fronte a problemi o tragedie altrui, quanto forte è la tentazione di continuare a dire: sono straziato, ma non mi riguardano (non posso farci niente, appartengono a un altro mondo, se ne stiano a casa loro, hanno tutta la mia solidarietà purché non pretendano di turbare i nostri equilibri).
«.... voi siete tutti fratelli .... non chiamate nessuno padre sulla terra..... e non fatevi chiamare maestri... ». Cercare e rimettersi a un padre carismatico è infatti uno scarico di coscienza, che porta inevitabilmente a schieramenti e conflitti, e svaluta il senso stesso della parola “fratelli”. Eppure, come risposta a questo ammonimento, chiamiamo “padre” i nostri preti. Quanto al “maestri”, vi sono documenti ufficiali che dicono, ad esempio: «il Sommo Pontefice è costituito da Cristo pastore e maestro» e anche «per disposizione di Cristo, gli Apostoli affidarono ai loro successori, i Vescovi, il proprio ufficio di Maestri» (cfr Doc. di Base §13 e 104). Che strano: Cristo non aveva detto il contrario? Forse, come pensano alcuni, si tratta soltanto di linguaggio dal semplice valore formale. Ma allora che ci sarebbe di male a rimetterlo in discussione? Che se poi, invece, dietro tali parole, si nascondesse una mentalità basata su governanti e sudditi, non resterebbe che chiedersi: Cristo dove sei?
Talvolta mi domando che cosa mai penseranno di noi i nostri pronipoti fra mille o più anni, e mi viene il sospetto che per entrare da cristiani nel terzo millennio e sperare attivamente in un futuro migliore, dovremo proprio convertirci.

1996

Una cultura di morte

Che il nostro tempo sia pervaso da una cultura di morte, non ci vuol molto a riconoscerlo: genocidi, torture, stupri, traffico d'armi, uccisioni legalizzate, sacche di miseria, intere popolazioni condannate a morire di fame, sono all'ordine del giorno non meno dell'aborto. La recente enciclica del Papa, che ha per sottotitolo il valore e l'inviolabilità della vita umana, pone il problema a trecentosessanta gradi, e oggi che le recenti dichiarazioni del Presidente della Corte Costituzionale hanno rilanciato il dibattito sull'aborto e sulla legge 194, mi pare importante che ciascuno contribuisca con le proprie riflessioni.
L'aborto è una cosa orribile, e da parte mia sono convinto che su questa opinione ci troveremmo pressoché tutti d'accordo, se non ci fossero forzature e strumentalizzazioni politiche. Nel dibattito, ad esempio, si tende comunemente a definire abortisti o antiabortisti i favorevoli o i contrari alla regolamentazione per legge, e questa è un'evidente e squallida forzatura. Comunque sia, con le cose orribili di questo mondo dobbiamo farci i conti tutti i giorni, per tentare almeno di limitarne i danni,  e se le statistiche dicono che dall'entrata in vigore della 194 gli aborti sono diminuiti del 40 per cento, dovremmo rallegrarci tutti. Una legge dello stato non è un'affermazione di principio, e vale per i suoi risultati concreti. Come provocazione, semplicemente per riflettere, mi viene da ricordare Schindler, che si è sporcato le mani con i nazisti facendosi anche corresponsabile, però di vite ne ha salvate concretamente parecchie.
La regolamentazione per legge non può essere confusa con approvazione morale. Ad esempio, è noto che nello Stato Pontificio erano state legalmente istituite le case chiuse, ma si potrebbe ragionevolmente sostenere che in tal modo la chiesa ha inteso approvare la prostituzione? Su questo argomento sorgono spontanee altre considerazioni: case chiuse significa contraccezione volontaria come fatto abituale, ma allora come può oggi il Magistero affermare che la Chiesa l'ha sempre considerata, per citare le parole del Papa, "così profondamente illecita da non potere mai, per nessuna ragione, essere giustificata"? (cfr Oss. Rom. 7/9/83). Tra l'altro, case chiuse significa, inevitabilmente, anche aborto, che è stato sempre praticato abbondantemente nell'ambiente delle prostitute. Che conclusioni trarne?
Nell'enciclica si parla poco di contraccezione, e solo per negare che possa essere strumento di contenimento dell'aborto, ribadendone la condanna. Al paragrafo 13 viene affermato che "i disvalori insiti nella mentalità contraccettiva..... sono tali da rendere più forte proprio questa tentazione (dell'aborto), di fronte all'eventuale concepimento di una vita non desiderata" perché "affondano le radici in una mentalità edonistica e deresponsabilizzante" che considera "l'aborto come unica risposta risolutiva di fronte a una contraccezione fallita" (EV 13). Il ragionamento non sembra tener conto di due cose: l'una, che proprio per tali mentalità le contraccezioni non fallite sono pur sempre aborti evitati, l'altra, che qualsiasi valutazione morale sui contraccettivi non può avere, ovviamente, alcuna incidenza su chi è disposto a usare l'aborto come metodo per non procreare. Analogamente Paolo VI, nell'Humanae Vitae, aveva con grande candore scritto che dichiarare leciti i contraccettivi avrebbe aperto una "via larga..... all'infedeltà coniugale e all'abbassamento generale della moralità", avanzando curiosamente l'ipotesi che qualcuno orientato all'adulterio potesse decidere di rinunciarvi per non infrangere il molto meno grave divieto di usare anticoncezionali.
Nell'Evangelium Vitae il Papa spiega che "contraccezione ed aborto, dal punto di vista morale, sono mali specificamente diversi" ma poi aggiunge che sono "come frutti di una medesima pianta" (EV 13). Ma  l'uso della contraccezione, mi domando, non è comunque positivo per quegli aborti che riesce a evitare, tanti o pochi che siano? Mi viene il sospetto che questa scelta di trattare insieme due realtà così diverse fra loro, per valore morale, abbia finito soltanto per svalutare la gravità dell'aborto. Un'occasione perduta, insomma, per ritrovarsi a lavorare tutti insieme in modo da poterlo ridurre concretamente il più possibile.

1996




[Scritti][Pittura][Automobilismo][Comunità][Quotidiano][Contatti]


© 2009 /2024 tutti i diritti riservati.