L'INQUIETA FELICITÀ DI UN CRISTIANO
presentazione di Marco Guzzi
PAOLINE - pagg. 168 - € 12,00
...... anche in un mondo inquieto come il nostro si può essere felici.
(ma che fatica!)
Dalla quarta di copertina
Un libro testimonianza di esperienze vissute e viventi, che passano attraverso l’elogio del matrimonio fino a suggerire come prepararsi serenamente al giorno in cui la vita finirà per compiersi.
Pur coinvolto nei tragici eventi del nostro tempo, il testo propone la spiritualità del bello, della gioia, dell’allegria, perché la felicità ha bisogno di testimoni e ambasciatori per riuscire a coinvolgere altri nella costruzione di un mondo migliore. Ma non mancano le inquietudini. Di fronte alla frase evangelica: «Chi può capire capisca», l'autore si domanda: rientrerò fra quelli che possono capire? San Francesco ed io siamo entrambi cristiani, eppure così diversi!
Una ricerca scritta in forma di autointerrogazione ma rivolta a tutti coloro che s'interrogano sul senso della fede e sul proprio stato di coscienza. Ne scaturisce un sorprendente panorama sull’inquieta felicità di un cristiano che si confronta con i suoi limiti.
Dalla prefazione di Marco Guzzi
In questo suo ultimo libro Antonio Thellung ci confessa di essere un uomo felice, un marito, un padre, un nonno, un bisnonno anzi, felice. E si interroga sulla natura di questa felicità, e sul suo rapporto con la propria fede cristiana…. La sua confessione però non ha nulla di cupo o di pesante, lo stile è al contrario leggero, spigliato, spontaneo, e fluido. Tocca anche gli argomenti più impegnativi con una briosa leggerezza a volte ironica, ma sempre piena di comprensione e di compassione per i limiti e le debolezze dell’essere umano. C’è qualcosa di anglosassone in questo genovese che ama l’understatement, e che dopo sessanta anni di fede intensamente vissuta continua a sentirsi “più o meno cristiano”. Il suo racconto autobiografico, proprio per questa sincerità acuta e ilare al contempo, si arricchisce continuamente di preziose indicazioni di rotta e di sottili intuizioni psicologiche sull’arte del vivere…. Ma il suo spirito critico ed esigente lo incalza di continuo e gli domanda: sarà veramente cristiana questa tua tensione alla felicità?....
Comunicazione intima ai miei affezionati lettori
A mano a mano che sto diventando vecchio sento sempre più il bisogno di fare i conti con me stesso. Che ne ho fatto della mia vita? Fino a che punto ho utilizzato o sotterrato i miei talenti? Interrogativi che dovrebbero interessare tutti, o almeno tutti coloro che non rinunciano a pensare. Un po' come dire a chi ha provato interesse per qualcuno dei miei scritti: ecco che cosa c'è dietro. Credo sia doveroso, per chi sceglie di esprimersi in pubblico, mostrare con sufficiente chiarezza quel che vive nel proprio animo, perché in teoria non è che i fatti assumano significati diversi a seconda di chi li esprime, ma nelle cose intime, che sono quelle sentite, è difficile capirsi se non si conosce lo stato d'animo dal quale nascono.
Una ricerca di spiritualità sul senso della mia fede personale, ma rivolta a tutti. La prima parte è una riflessione, con abbondanti riferimenti evangelici, sui limiti e i confini dell'essere concretamente cristiani. La seconda affronta alcune ambiguità psicologiche per imparare a identificare dei punti di riferimento capaci di facilitare la crescita della coscienza. Nella terza parte, quella più importante e originale, confesso il mio stupore di fronte alla scoperta della mia vocazione alla felicità, che tuttavia non è tranquilla spensieratezza, ma uno stato d'animo intriso d'inquietudine per le tante tragedie quotidiane che mi stimola a prendere per mano l'angoscia nel tentativo di costruire insieme un cammino verso la speranza.
Dopo aver dedicato tutta la vita a interrogarmi sulla fede, e a cercare di formarmi una coscienza, anziché dare per scontato di averne una già sufficientemente matura, mi rendo conto di potermi dire solo approssimativamente (più o meno) cristiano. Comunque sia, in questo nostro tempo così inquieto che ha l'abitudine di prendere quotidianamente a schiaffi la speranza, credo importante comunicare esperienze positive e ricercare punti di riferimento che aiutino a scegliere la direzione di marcia, di fronte alle diramazioni che si incontrano durante il cammino.
Alcuni estratti dal testo
In quest'epoca che si caratterizza, tra l'altro, per i sempre più abbondanti fallimenti coniugali, può sembrare provocatorio fare l'elogio del matrimonio, ma non potrei sottrarmene: personalmente mi ci trovo benissimo, perché mi sento inondato di benefici che non si potrebbero immaginare, se non facendone esperienza diretta. Con mia moglie siamo così diversi che è stato necessario un lungo cammino, non privo di conflitti, per trovare armonia. Però abbiamo imparato a litigare tenendoci per mano, e alla fine ci siamo riusciti. I nostri combattimenti a singolar tenzone sono durati quasi trent'anni, ma poi c'è stata una svolta, e ora sono altrettanti che ce la godiamo. Stiamo bene insieme, con un senso di complicità che inserisce nelle nostre giornate una continua alternanza di commozione e divertimento. Quella fiducia che due sposi decidono di concedersi l'un l'altro fin dall'inizio, ma che in realtà è soltanto un auspicio da sottoporre a severe verifiche negli anni, per noi si è ormai trasformata in una tranquilla serenità che avviluppa il nostro stato d'animo, anche quando le preoccupazioni ci assalgono. È il tempo dedicato al confronto, al contrasto, al coinvolgimento reciproco, all'immersione in un meraviglioso spirito di complicità, che ci ha schiuso le porte dell'intimità più profonda, che ci ha trasformati dall'io e te al noi due assieme.…..
Ricordo l'esperienza stimolante dell'amore giovane, ricco di timori, di speranze, d'incertezze. Ci sarà un futuro? Come andrà a finire? Mi potrò fidare? Quanto mi farà soffrire? Interrogativi struggenti, sovente inconsci, che rimescolano lo stato d'animo all'interno di un'atmosfera splendidamente drammatica. Bellissimo ogni nuovo amore, non c'è che dire, ma mi pare importante sottolineare che può essere ancor più affascinante quello stagionato. Per fare un esempio un po' burlesco, consideriamo la differenza tra formaggio fresco e parmigiano: non avrebbe senso dire che l'uno è migliore dell'altro, perché sono semplicemente due cose diverse. Solo che il formaggio fresco lo si può gustare da subito, appena fatto, mentre è impossibile conoscere il sapore del parmigiano se non si attende con pazienza che trascorra tutto il tempo necessario alla stagionatura. Chi non lo ha mai gustato non ne sente la mancanza. Ma chi lo conosce…….
Mi soffermo a insistere sul valore del matrimonio perché da molti è oggi visto con diffidenza, se non con avversione. Perciò mi sembra importante testimoniare che può rivelarsi invece un'esperienza magnifica e creativa, se coltivata e consolidata a dovere. Per me è stato una straordinaria palestra che mi ha insegnato l'arte di andare d'accordo. All'apparenza costringe a ridimensionare la propria identità personale, ma in realtà è vero il contrario: consente di sviluppare talune potenzialità che altrimenti rimarrebbero sprecate. Ad esempio, dopo una certa età moltissime persone soffrono di una drammatica solitudine, e questo capita anche a taluni che vivono insieme ad altri, ma senza riuscire a superare le barriere individualistiche. Percepire invece di essersi gettati alle spalle incomprensioni, incomunicabilità, diffidenze, sospetti, fino a sentir riempito per sempre il contenitore della propria solitudine esistenziale, è una grazia di Dio che si può capire solo provandola…….
Dalla meravigliosa esperienza coniugale sono scaturiti interessantissimi legami familiari con figli e nipoti di tutte le età, che mi contestano spessissimo, soprattutto perché mi considerano un gran rompiscatole, creando così rapporti sufficientemente conflittuali da escludere rischiose dipendenze. Ma offrendomi anche momenti pieni di confidenza, fiducia e affetto. E dato che i due piccoli bisnipoti stanno cominciando a mostrare il loro carattere, immagino che ben presto si faranno protagonisti anche loro di contestazioni e tenerezze.
Sono talmente struggenti e impegnativi questi rapporti con bisnipoti e nipoti, e sovente anche con i figli e taluni altri amici particolari, da alimentare la speranza nel cuore. Ma è quando siamo noi due soli, la mia sposa ed io, che l'estasi coniugale si scatena. La nostra preghiera esistenziale, che ormai può dirsi permanente, è il gusto di sostare accanto, nella stessa casa, nella stessa stanza, seduti sul divano davanti alla televisione (non importa se accesa o spenta) con le teste che riposano l'una contro l'altra; oppure sdraiati sul letto la mattina, pelle contro pelle; o la sera fin quando il sonno, dopo averci carezzato a lungo tra lievi sopori e parziali risvegli, ci suggerisce di scambiarci la buonanotte.
Certe volte la sofferenza per le tragedie umane ci tiene compagnia a lungo, mentre ci tratteniamo in silenzio; altre volte invece, quando la condivisione tra noi si fa così coinvolta e commossa da inumidirci gli occhi, scatta spontaneo qualcosa che ci spinge a prenderci in giro e a ridere di noi, talvolta fino alle lacrime. Ci sentiamo felici di aver scoperto e coltivato l'illuminazione estatica nel banale quotidiano, praticando un senso di contemplazione permanente sia nel fare che nel non fare……
Comunque sia, il volto di Gesù Cristo viene a me quotidianamente attraverso quello della mia sposa. Si tratta di un canale privilegiato che si manifesta non soltanto nelle nostre comunicazioni dirette, ma anche quando di fronte a un panorama, uno spettacolo, una lettura condivisa, un'opera d'arte ci scambiamo sguardi e pensieri. L'intensità del coinvolgimento non cambia, sia che l'argomento riguardi il tramonto, o bambini sofferenti, o la sia pur tenue speranza di un mondo migliore, o lo scoraggiamento per tante tragiche meschinità. Condividere a fondo gli stati d'animo offre opportunità straordinarie. Quante volte, di fronte a un capolavoro, ci siamo sorpresi a dirci: è così meraviglioso perché siamo qui a contemplarlo insieme. Altrimenti sarebbe soltanto bello…..
da ADISTA n. 66
del 13 giugno 2009
Intervista ad Antonio Thellung
Perché questo titolo?
Il messaggio evangelico offre un orientamento di vita permanente, che libera dal casuale e consente di salvarsi da una vita senza senso. Per questo il cristiano si trova legato indissolubilmente alla speranza, e quindi a quello stato d’animo che si chiama felicità. “Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena”: non sono parole casuali.
D’altra parte, però, ci sono tante persone disperate, respinte a mare con i loro barconi, o imprigionate nei campi profughi del Darfur o del Pakistan o del dovesia. E non solo, ma c’è anche lo squallore della politica quotidiana, o del gossip televisivo, o dell’intrallazzo generalizzato, che creano una tale mistura di sconforto, indignazione, rabbia, e tristezza da rendere lo stato d’animo inquieto, fino al punto da intrecciarsi talvolta con angoscia.
Ma felicità e angoscia non si escludono a vicenda?
Teoricamente sì, e anch’io una volta credevo così, ma poi mi sono accorto che la realtà è più complessa. Il paradosso è che la felicità, quella vera, è anche molto dolorosa, perché per godersi pienamente quel che è bello occorre togliere ogni protezione alla sensibilità, esponendola così anche ad acute sofferenze per tutto il negativo che non si può ignorare, e neppure accantonare. Credo che chiunque avverta nel proprio cuore la gioia per gli autentici valori positivi, non può che provare contemporaneamente angoscianti sofferenze per le tragedie e le crudeltà che giorno dopo giorno si ripropongono con perseveranza ostinata. In altre parole, per chi prende sul serio Gesù Cristo la felicità e l’angoscia risultano intrecciate assieme, perché sono entrambe irrinunciabili. Non resta quindi che inventarsi qualcosa per imparare a farle convivere, in un cammino talvolta difficile e faticoso, ma che mi sembra l’unica via creativa possibile. Ovviamente, se per felicità s’intende spensieratezza, il discorso non sta in piedi. Ma se s’intende la coscienza di contribuire a portare un sorriso nei drammi dell’esistenza, allora si può imparare a coltivare questa strana convivenza.
Ma non c’è il rischio di cadere nell’ipocrisia, affidando da un lato la sofferenza a un sentimentalismo giustificativo per potersi godere dall’altro il proprio benessere?
Il rischio c’è, non si può negarlo. Si potrebbe dire un cammino sul filo del rasoio. Per non caderci è indispensabile costruire dei rapporti di vita che garantiscano benefici (verificabili) a chi è nel bisogno. “Ama e fa’ quello che vuoi”, diceva Sant’Agostino, che non si riferiva a un sentimento teorico e astratto, ma a gesti d’amore applicato, come faceva Gesù. Occuparsi degli altri, concretamente, confrontandosi sui risultati, garantisce dall’ipocrisia.
Non temo di credere che, almeno in molti casi, sia possibile coniugare insieme felicità e salvezza.
Altrove però tu dici che essere felice è un dovere da compiere.
È vero, anzi mi dico, interrogando me stesso, che dovrei fare? Alienarmi in qualche forma di sofferenza perché altri soffrono? Chi ci guadagnerebbe? A che cosa aspirerebbero coloro che soffrono, se non a benefici e rapporti umani simili a quelli che la sorte, o se si preferisce la grazia di Dio, ha riservato a me? E io che vivo questa realtà dovrei gettarla via perché altri hanno un destino differente? Testimoniare che si può essere felice è un dovere, per chi può farlo.
Negli anni in cui ero giovane, la speranza nel domani era patrimonio comune, mentre oggi il futuro assume contorni minacciosi, e mi domando perfino se continuare a sperare in un mondo migliore non equivalga a inseguire pericolose utopie. Ma come rassegnarsi al pensiero che non c’è niente da fare? Prendo per mano l’angoscia e me la porto dietro, ma non rinuncio alla mia vocazione, che si chiama, appunto, inquieta felicità.
Sul tuo sito c’è scritto: di professione sposo, padre, nonno, bisnonno. Ma è una professione?
Cesare Pavese ha scritto Il mestiere di vivere. Io ho scelto semplicemente una specializzazione, indicando a quali tipi di rapporti vitali mi sono dedicato professionalmente. Intendo dire che di attività lavorative o d’altro tipo ne ho svolte talmente tante che qualcuna non la ricordo neppure più. Ma oggi posso dire che il rapporto coniugale, comprese le derivazioni familiari, è l’unico che mi ha impegnato da sempre a tempo pieno. Tutto il resto l’ho fatto, e continuo a farlo, da semplice dilettante. Credo che la testimonianza di un marito, padre, nonno e bisnonno felice possa se non altro dimostrare che la felicità è possibile.
Ti rendi conto delle stranezze che dici, in questo nostro tempo caratterizzato tra l’altro da una pesante crisi del matrimonio?
Quando, durante incontri o conferenze, descrivo il matrimonio come autentica grazia di Dio, mi accorgo di suscitare perplessità. Non pochi pensano si tratti di esagerazioni, e non mi meraviglio, perché stenterei io stesso a crederci, se non ne vivessi quotidianamente la conferma. Ma proprio perché da molti oggi è visto con diffidenza, se non con avversione, mi sembra importante testimoniare che il matrimonio può invece rivelarsi un’esperienza magnifica e creativa, se coltivata e consolidata a dovere. Per me è stato una straordinaria palestra che mi ha insegnato l’arte di andare d’accordo. Oggi, con la mia sposa, stiamo soprattutto bene insieme, con un sens o di complicità che inserisce nelle nostre giornate una continua alternanza di commozione e divertimento.
Nel tuo libro insisti a lungo nel chiederti che cosa significa essere cristiano, ma non è ingenuo dopo duemila anni di risposte di tutti i generi?
Lo sarebbe, se ci fossero risposte esaurienti. Ma io non ne ho trovate, e neppure le mie sono risposte, ma semplici questioni aperte. Per esempio, San Francesco e io siamo entrambi cristiani, ma con differenze talmente clamorose da suscitare abbondanti interrogativi. Il vangelo insiste più volte nel dire che Gesù parlava alle folle e ai discepoli, e io mi domando a quale categoria appartengo, personalmente. Posso dirmi un discepolo, o sono semplicemente uno della folla? È stato affrontando con decisione tali domande che ho scoperto molti limiti nel mio modo di essere, ma anche la mia vocazione alla felicità.
.... un libro da regalare a chi coltiva speranza.
Scrive Luigi Accattoli sul suo blog
24 settembre 2009
“Non ho più futuro, e del resto mi sembra di aver accumulato sufficienti elementi per aspirare a compiere la mia vita. Come sono contento! Non vorrei assolutamente tornare indietro, e neppure essere più giovane, con tutto l’affanno che comporta. Bellissimo, si intende, ma per una volta! Mi godo la mia vecchiaia mentre percorro l’ultimo tratto: il presente che ancora mi è dato di vivere lo sento come un surplus, e tanto più considerando che la stragrande maggioranza delle persone che ho conosciuto, anonime o famose che fossero, sono morte più giovani di me. Il pensiero della morte non mi angoscia, tanto che nel nostro duale ne parliamo sovente, con allegra commozione o austera ironia, ipotizzando talvolta di poter scegliere l’ordine di arrivo, anche se non riesco mai a capire se amerei di più curare la mia dolce sposa o esserne curato. Comunque sia, anche lei è d’accordo che ci piacerebbe andarcene insieme”. E’ il bell’incipit del capitolo “Frequentare il mistero”, nel volumetto di Antonio Thellung L’INQUIETA FELICITA’ DI UN CRISTIANO appena pubblicato dalle Paoline [pp.161, 12 euro]. Consiglio il visitatore provocato da queste parole a fare una più viva conoscenza di Antonio con un giro nel sito www.antoniothellung.it o dando una scorsa ai post che qui da me già l’hanno ospitato: 28 e 30 maggio 2007, 27 giugno 2007. Nella pagina PREFAZIONI E CAPITOLI elencata sotto la mia foto si può leggere la prefazione a un suo libretto sull’accompagnamento dei malati terminali che scrissi nel 1998.
Seguono numerosi commenti. Per leggerli: vai al blog di Luigi Acattoli
Da KOINONIA, periodico mensile di Pistoia, ottobre 2009
Leggendo “L’inquieta felicità di un cristiano”
di A.Thellung
Quest’estate ho letto un libro, “L’inquieta felicità di un cristiano” di Antonio Thellung, che mi è stato regalato: già il titolo l’ho trovato stuzzicante e mi ha incuriosito. Me lo sono portato in vacanza e, nonostante il poco tempo a disposizione, visto che mi trovavo in un posto per me nuovo e tutto da scoprire, l’ho “divorato” in pochi giorni. Uno dei motivi per cui questa lettura mi ha appassionato è sicuramente il modo di concepire la spiritualità che l’autore ci propone: egli la vede (come afferma anche M.Guzzi nella prefazione) come un’arte che si apprende continuamente e ci consente di rendere gioiosa e piena la nostra esistenza, liberata finalmente da quella religiosità della sofferenza, del contorcimento interiore, dell’avvilimento dell’umano, che per tanto tempo ha prevalso e, a volte, continua a riaffacciarsi ancora oggi. L’autore dichiara che “lasciar prevalere l’aspetto della sofferenza finisce per far credere che la religione sia utile e necessaria quando le cose vanno male e, assai meno quando vanno bene. E invece è soprattutto la spiritualità del bello, della gioia, dell’allegria a farsi indispensabile per coinvolgere altri nella costruzione di un mondo migliore”. Thellung inizia la sua riflessione constatando di essere un uomo felice, come marito, padre, nonno, ricercatore.., e si chiede se questo suo stato è compatibile con il considerarsi cristiano e in quale rapporto sta la sua felicità con la sua fede. L’operazione che l’autore ci aiuta a fare è di creare un ponte abbattendo quella separazione esistente fra la”volontà di Dio” da una parte e la “felicità umana” dall’altra, superando quell’impostazione (tipica di un cristianesimo sospettoso nei confronti di ciò che è bello, piacevole...) che vede la volontà di Dio come qualcosa che può non avere niente a che fare o addirittura essere in conflitto con le aspirazioni più profonde dell’essere umano, e quindi con la sua felicità.
Ciò non vuol dire che ognuno si debba sentire autorizzato a raggiungere selvaggiamente la propria felicità, calpestando gli altri, ma semplicemente comprendere che la volontà di Dio è che l’uomo sia felice, ogni uomo. Da qui scaturisce poi l’impegno di ciascuno ad alleviare la sofferenza umana, in modo che coloro che si incontrano con noi nella vita, si sentano più felici di essere nati.
Se la fede è un atteggiamento che non solo non mortifica, ma esalta e trasfigura tutto ciò che di bello c’è nella natura, aiutandoci ad essere felici, è possibile allora aggiungere un indicatore nuovo a quelli già esistenti, per stabilire se uno è un vero cristiano: come suggerisce d. Armando Matteo, un segno di fede non è l’essere tristi e depressi, ma l’essere felici e benedire la vita, nonostante tutto. In fondo, molti sono i passi in cui Gesù ci invita a seguire questa vocazione alla felicità: “Questo vi ho detto, perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena” (Gv.15,11); “Siate felici nel Signore sempre, ve lo ripeto ancora siate felicì” (Fil 4,4)
Dopo aver stabilito, quindi, che l’essere felici non è incompatibile con l’essere discepoli di Cristo, l’autore inizia ad interrogarsi e, da bravo cristiano inquieto, si chiede se lui può considerarsi un vero discepolo di Cristo, o solo un simpatizzante, uno cioè che “tenta di seguire il Maestro, ma che in realtà non vuole decidersi completàmente per Lui”. Ci sarebbero, quindi dei cristiani a tempo pieno (discepoli) e cristiani part time (simpatizzanti), anche se poi i confini sono sfumati e sicuramente la Chiesa ha bisogno di tutto questo materiale umano, non solo di discepoli, che poi non sempre sono i migliori, basti pensare a Giuda. Appurato che si può essere cristiani in molti modi diversi, l’autore cerca di cogliere un valore di tondo che lega ogni differenza, e a questo proposito scrive: “Per entrare in rapporto con Cristo, basta avere simpatia e fiducia in lui. Anzi, credo sia possibile, perfino senza aver mai sentito parlare di Gesù, basta coltivare di fatto quegli stessi valori che il Vangelo esprime. Anche una semplice tendenza, mi verrebbe da credere, anche un orientamento possono essere sufficienti”.
Concludendo, mi viene di pensare che, forse, se coloro che si dichiarano non credenti vedessero i volti dei cristiani meno contriti, più sereni e gioiosi, sarebbero interessati a porsi di nuovo la domanda sulla possibilità di credere in un Dio non più in conflitto con la felicità dell’uomo, un Dio minaccioso, ma un Dio che ci accompagna aspirando alla nostra stessa felicità. Si tratta di ribaltare in modo parallelo le immagini che ci siamo fatti (grazie anche a tanta predicazione ecclesiastica) sia di Dio che del vero cristiano, solo ridisegnando così i loro volti contribuiremo a ridare senso al credere in Dio, che per molti, ancora oggi, risulta come qualcosa di insopportabile,
Rossana Ninci
Luisa Adelaide Galletti mi scrive:
«Il suo libro "L'inquieta felicità di un cristiano" - che ho letto recentemente -è stato per me un valido aiuto per capire l'atteggiamento giusto per affrontare alcune piccole cose (che tanto piccole poi non sono, se partiamo dal concetto dell'unità dell'individuo, cara a Martin Buber) del quotidiano, che spesso, erroneamente, sfuggono alla nostra attenzione.....
Libri come i suoi dovrebbero essere tenuti sul comodino accanto alla Bibbia, perchè essendo la testimonianza viva, diretta di un cristiano vero ed autentico sono più efficaci delle omelie di tanti sacerdoti prolissi, che nelle omelie prpongono modelli astratti cui le persone, spesso afflitte da problemi di vita quotidiana, stentano non solo a riconoscersi., ma a prendere esempi.....»
La mia amica Elena mi scrive:
ho terminato da pochi giorni la lettura del tuo libro. Anzi l'ho letteralmente divorato, come è mia abitudine, per poi rileggermelo con calma.
Le mie impressioni sono più che positive. Pur avendo trovato un po' ripetitive le domande e riflessioni iniziali, si legge volentieri e in modo scorrevole.
In questo libro, come in nessun altro, mi sembra che tu ti sia messo a nudo con una sincerità disarmante. Ci trovo l'Antonio più profondo, più intimo.
Ho apprezzato molto la divisione tra simpatizzanti e discepoli. Inutile dire che io mi metto tra i simpatizzanti part-time. Mi piacerebbe essere una discepola full-time, ma, ahimè, credo di non aver ancora messo mano, davvero, all'aratro. Trovo però molto utili queste tue riflessioni, perchè sono uno stimolo, un pungolo. Dopo averti incontrato faccio sempre più fatica a crogiolarmi nei miei comodi, nell'indecisione (che rimangono, comunque), perchè la coscienza ha dei sussulti e mi interroga. E ti ringrazio per questo.
Le pagine in cui parli del tuo matrimonio e del tuo rapporto con Giulia sono veramente un sollievo. Soprattutto quando le cose non vanno benissimo, come è successo a noi recentissimamente, ti danno una prospettiva più ampia. Mi sono vergognata delle mie meschinità e ho fatto un passo indietro. La nostra intesa ne ha tratto beneficio.
Infine devo dire che quando hai descritto come grazia di Dio i fallimenti che hai incontrato sulla tua strada ho capito una volta di più che sei un dono del Cielo. Io fatico ancora ad accettare gli sbagli e le cose che non vanno, anche se credo fermamente che si impari di più e si possa migliorare più da un errore che da un successo. Lo penso, ma non riesco ancora a "sentirlo" col cuore...
E' una pagina di umiltà che credo faccia bene a chiunque. A me, in particolare, forse perché è capitata nel momento giusto...
Lo scrittore Enrico Macioci mi scrive:
ho appena finito di leggere L'INQUIETA FELICITA' DI UN CRISTIANO e l'ho trovato un libro di rara lucidità, onestà con sé stessi e chiarezza di coscienza, pur nell'umana tenebra cui nessuno sfugge.
Debbo dire che hai avuto una vita straordinaria, ma il tuo merito è quello d'aver tentato sempre e fino in fondo di succhiarne il senso; altri al posto tuo avrebbero magari cercato di fare altrettanto (non molti, comunque), ma l'avrebbero fatto meno inquieti per parafrasarti, meno tendenzialmente consapevoli.
Alcuni concetti che esprimi - il discepolato o il part-time, la felicità come vocazione, la figura di Gesù come oltraggiosa e quasi offensiva - sono davvero originali e creativi; e un po' tutta la tua parabola denota una creatività (per restare all'intensivo di Guzzi) eccezionale e tenacemente perseguita, proprio con una sorta di artigianato dell'essere, interpretando la vita come un artista la propria opera; sei ontologicamente artista, Antonio; è questo forse il tuo talento più grande e bello.
Infine lo stile: asciutto, limpido, serrato, logico ma non arido, consequenziale rispetto ai ragionamenti, ricco ma non compiaciuto; lo stile di uno scrittore.
Mi complimento dunque con te e con la tua vita, e ti ringrazio per avermi voluto fare un po' di spazio in questa tua magnifica avventura.
per ordinarlo