agosto/settembre 1989
Ho fatto il pieno
Dimmi come ti relazioni e ti dirò chi sei: mi sono reso conto, recentemente, che m’interessa di più il rapporto che la persona in sé. E mi sono accorto che, da sempre, coltivare rapporti con gli altri m’interessa più che coltivare me stesso (col risultato di scoprirmi via via cambiato nella misura in cui cambiano i rapporti con mia moglie, i miei figli, i miei amici). Per questo m’interessa tanto la comunità, perché crea rapporti sui quali è possibile lavorare per trasformarsi insieme.
Il rapporto per eccellenza è quello coniugale, dove l’intimità può condurre oltre i confini individuali, purché si eliminino barriere e atteggiamenti difensivi e a patto che gli sposi siano convinti che ne vale la pena, lo vogliano con assoluta determinazione, e non si arrestino di fronte agli ostacoli. Molti considerano negativa una tale impostazione coniugale, e raccomandano a ciascuno dei due di conservare precisi spazi di privacy. Al contrario io credo nella possibilità di percorrere le vie dell’insondabile, di trascendere le dimensioni del “normale”, di superare i limiti dell "io e te" per scoprire il “noi”. Anzi, credo che per questo obiettivo valga la pena di rinunciare all'individualismo di base. A pensarci bene, il contrario di solitudine è intimità, quindi se all’estremo delle scelte umane c’è l’anacoreta che utilizza la solitudine radicale come un mezzo d’ascesi, all’altro estremo c’è il rapporto coniugale che rende possibile utilizzare l’intimità per raggiungere risultati analoghi, sia pure in altre forme (anche se la maggior parte degli sposi non sono consapevoli di avere per le mani tale straordinaria opportunità).
Da sempre mi occupo di rapporti coniugali: il mio, sul quale ho lavorato intensamente nel corso degli anni con risultati, oggi, che vanno molto al di là delle più rosee speranze, ma anche di parecchi altri coniugi con i quali mi trovo più o meno coinvolto. Che la situazione matrimoniale odierna sia fallimentare è ben noto, e altrettanto che oltre ai fallimenti clamorosi e visibili esistano frustrazioni e solitudini fallimentari mascherate dietro molti apparenti equilibri di facciata. Secondo le mie esperienze, la maggior parte dei matrimoni che “vanno bene” o che sono a livello “accettabile” basano il loro equilibrio su qualche forma di compromesso, sovente implicito: ci si rispetta, lasciando vivere accanto due solitudini. Tuttavia tra le mie conoscenze piuttosto approfonditee c’erano alcuni rapporti che apparivano come esempi di successo coniugale e modelli da riproporre (mi riferisco in particolare a matrimoni che duravano da oltre quindici anni, cioè sufficientemente consolidati). Ebbene, recentemente mi sono crollati tutti (salvo quelli delle coppie comunitarie).
Ne provo una grande tristezza, eppure, riflettendo anche su altri tipi di disaccordo con i quali mi capita spesso di entrare in contatto (come ad esempio quelli tra genitori e figli), e non ultime le difficoltà emerse quest’anno nella nostra comunità, anziché scoraggiarmi sento di poter dire che ho fatto il pieno di voglia d’andare d’accordo. Ma intendiamoci bene: non voglia di non lititgare, scansando problemi e difficoltà per restare a livello di rapporti superficiali, ma voglia di lavorare in profondità, costi quel che costi, per realizzare rapporti intimi e brillanti.
Facile e difficile
Una recente lettera alla comunità apparsa in bacheca sembra scritta apposta per alimentare questa voglia: «...sono felice… in questi giorni con mio marito siamo stati bene insieme... facciamo fatica a credere in un tale miracolo coniugale... abbiamo sperimentato cosa significa essere una coppia e una famiglia felice... è soprattutto lo stupore che ci accompagna in questi giorni: lo stupore che grandi cose ha fatto in noi l’unipotente... abbiamo avuto anche momenti di scontro e discussione... ma anziché dividerci sono stati motivo di maggior intesa… questa felicità coniugale ve la voglio regalare per il nostro anniversario...».
Un tale risultato, che ha del miracoloso data la situazione di pesantissima crisi coniugale al quale erano giunti, dipenderà dal caso o dall’averci lavorato sopra con tenacia e perseveranza, continuando a sperare contro ogni speranza? Io credo nel valore di certe impostazioni e di certi metodi, che mostrano abbondanti e succosi frutti. L’essenziale però è cominciare a lavorare in anticipo, finché le cose vanno bene, e non aspettare che i disaccordi degenerino, perché se non si è preparati per costruttivamente nelle difficoltà, di fronte al disaccordo sarà facile assumere atteggiamenti negativi che ampliano il conflitto rendendolo devastante. Per questo motivo credo valga la pena di studiare, indagare, scoprire, inventare l’accordeonica, cioè la scienza dell’andare d’accordo, rinunciando ad abbandonarsi a criteri casuali e incontrollati. Una volta poi studiato il problema e scelta la direzione di marcia, non solo sarà più facile superare contrasti e difficoltà, ma si potrà anche utilizzare il momento del disaccordo come termometro per verificare la validità del cammino.
Per quanto riguarda la mia parte, ho scelto e costruito la Comunità del Mattino per allargare e offrire a chi lo desidera i metodi che avevo sperimentato a lungo e con successo nella mia vita coniugale. Credo nell’importanza di lavorare senza sosta, senza mezzi termini e senza riserve di alcun tipo per imparare ad andare d’accordo, per costruire la propria felicità, per aiutare altri, se vogliono, a costruire la loro. Tuttavia la nostra esperienza comunitaria, così variopinta, dimostra anche quanto sia difficile andare d’accordo, se permangono riserve e ambiguità. Abbiamo scelto e confermato tutti insieme, con particolare attenzione e dopo abbondanti riscontri, dei comuni punti di riferimento ai quali rapportarci, ma di fronte ai disaccordi ci siamo accorti che possono essere letti da ciascuno a suo modo. Recentemente, su un punto di riferimento primario e irrinunciabile come il confronto, ci siamo trovati in difficoltà. Come mai?
Interesse al confronto
E’ un discorso vecchio, fatto e rifatto, ma è forse passato d’attualità? Da parte mia, non mi stanco di pensarci, e provo ora a esprimere lo stato d’animo con cui mi pongo di fronte al confronto, elemento fondamentale dell’accordeonica. Premessa irrinunciabile è la fiducia nell’altro, cioè la fiducia che non mi vuole imbrogliare né mi vuol far del male, e inoltre che ha dei valori da esprimere. Se manca questa fiducia, infatti, il rapporto comunitario si riduce a qualcosa di artificioso e vano, mentre quando la fiducia è scarsa non ci si confronta: si litiga. Questo perché il confronto non ha senso se è visto come una battaglia dalla quale uscire vincitori o vinti, mentre funziona positivamente quando viene affrontato con gioia e speranza, nella fiducia che porti comunque dei benefici. Da un confronto comunitario corretto si esce sempre entrambi arricchiti, e quindi entrambi vincitori.
Fatte queste premesse, provo a esprimere il mio stato d’animo di fronte al confronto. Se entro in contrasto con un fratello non sono contento, ovviamente, e tuttavia, quando accade, sento che lì si sta manifestando un evento importante, che sta emergendo qualcosa di nuovo: qualcosa che istintivamente mi sembra assurdo (come posso trovarmi in contrasto con un fratello di cui mi fido?). Ma è proprio questo assurdo che m’interroga e mi stimola ad andare fino in fondo. Perciò, anche se non amo il contrasto, amo affrontarlo e confrontarmi, non per dimostrare chi ha ragione o torto, ma perché sono convinto che sia possibile capirsi anche nel disaccordo.
Mi domando infatti: che cosa potrebbe aiutarmi di più di un confronto approfondito con chi merita fiducia e ha opinioni diverse dalle mie? Che cosa potrebbe essermi più utile dell’analizzare un disaccordo che, soprattutto, mi stupisce? Confrontarmi è per me una necessità vitale, perciò mi faccio avanti per primo, e cerco l’altro, e insisto, perché sento di non poter stare senza confrontarmi con lui. E gli chiedo di fare altrettanto, di farsi avanti, d’incalzarmi, d’insistere, di non lasciarmi in pace, dì non facilitarmi la mediocrità. So che le sue critiche e le sue accuse, anche se sgradevoli, non sono gratuite, e potrebbero essere calzanti. E gli sarò tanto più grato quanto più mi costringerà a confrontarmici a fondo.
Ci deve essere qualche modo di capirsi, ci deve essere qualche punto comune: cercare il confronto, e andare a fondo, e ritornarci sopra, e sviscerarlo, diventa per me un obiettivo che mi entusiasma, mi piace, mi riempie di gioia e d’allegria. Ed è tale la speranza, malgrado le difficoltà, di potersi capire che finisco per non desiderare niente più del fastidioso confronto. E allora l’affronto volentieri, mentre le difficoltà, anziché scoraggiarmi, diventano stimolanti. E se il contrasto sarà pesante e difficile, se bisognerà tornarci sopra più volte, se si rivelerà lungo e faticoso e irritante, e mi appesantirà, sotto questo aspetto non mi farà certamente piacere, e tuttavia l’amerò e lo cercherò ancor più, perché le molte difficoltà dimostrano semplicemente che ce n’è tanto bisogno, che c'è ancora molto da lavorare per diventar capaci di creare rapporti comunitari validi e autentici. E non mi sottrarrò, alla fatica, e continuerò a cercarlo e a volerlo, perché se ho scelto questi metodi è proprio perché sono davvero convinto che servono a realizzare succosi frutti.
Farsi dire
L’esplicito, e in particolare il confronto che ne è la componente essenziale, si realizza tanto più facilmente quanto più c’è la voglia di “farsi dire”. Infatti, se è fondamentale esprimersi francamente, con chiarezza e precisione, e anche in modo sereno e benevolo, ciò si fa possibile solo quando di fronte c’è qualcuno che desidera e gradisce “farsi dire”, qualunque sia il contenuto. Altrimenti resistenze, irritazioni, contestazioni e atteggiamenti difensivi immediatamente spingeranno chi sta comunicando a esagerare e a calcare i toni, oppure a trattenersi, svalutare, lasciar perdere, e comunque a deformare in qualche modo il messaggio.
Per farsi dire bisogna porsi davanti al confronto con atteggiamento aperto, e porre domande innocenti, disposti ad accogliere e a fare i conti con risposte inattese, e non pronti a ribellarsi se non sono quelle volute. Per avere un rapporto coinvolto è essenziale conoscere bene il pensiero dell'interlocutore, perciò bisogna metterlo a suo agio, mostrargli chiaramente che quanto dice è gradito perfino quando è sgradevole, stimolarlo a insistere, a calcare la mano, a non aver paura di esprimersi eventualmente in modo pesante, se lo ritiene necessario. E inoltre guardarsi bene dall’assumere atteggiamenti di riprovazione, e tanto meno d’indignazione, ma mostrarsi comunque grati di essere informati. In altre parole, per riuscire a "farsi dire" fino in fondo e senza riserve, bisogna aiutare l’altro ad affondare il coltello, anziché cercare d’impedirglielo o d’indurlo a mitigare il colpo. E per essere certi di aver capito bene gli aspetti spiacevoli della comunicazione, bisogna chiedergli conferma, il che equivale a invitarlo a rivoltare il coltello nella piaga.
Con questo non intendo affatto negare che sia importante educarsi a comunicare in modo benevolo e gentile: per essere espliciti non è affatto obbligatorio gettar si in faccia brutalmente ciò che si pensa. Tuttavia tolleranza, elasticità, benevolenza, sono positive a patto che non siano alibi per nascondere ambiguità e ipocrisie, a patto che non mascherino contrarietà e irritazioni, a patto di avere come obiettivo la trasparenza e il coraggio, a patto che la comunicazione sia totale, non tanto nei dettagli ma nel senso d'insieme.
Si possono affrontare contrasti e disacccordi in modo più morbido o più drastico, ma scansarli, svalutarli, lasciarli cadere nel dimenticatoio, è comunque uno sbaglio che prima o poi si pagherà caro. Anzi, scansare le difficoltà equivale a rendere il rapporto o conflittuale o superficiale, perché i problemi accantonati ritorneranno ingigantiti a creare altre tensioni; oppure, se saranno lasciati decantare, finiranno per rendere sempre più distaccato il rapporto, fino a creare ostacoli insormontabili sulla via del coinvolgimento.
Osar sapere
Per realizzare soddisfacentemente un tipo di rapporto basato sull’esplicito è indispensabile essere profondamente convinti e motivati a farlo, altrimenti le difficoltà aumenteranno creando sempre nuovi ostacoli. Ma esistono delle resistenze psicologiche: ci si vergogna di far sapere di sé, e si ha paura che, una volta riconosciuti e ammessi i propri difetti o le proprie debolezze, l’altro ne approfitti. Il timore, nei rapporti normali, può anche essere giustificato, perché sarebbe assurdo applicare un criterio basato sull’esplicito nel comune contesto sociale, basato prevalentemente sull’ipocrisia e sul tentativo di prevalere l’uno sull’altro. L’esplicito, per funzionare a dovere, ha bisogno di un accordo preliminare ben definito, con piena consapevolezza di quali ne siano i significati e i limiti di applicazione. Solo allora sarà capace di rimuovere gli ostacoli sulla via del coinvolgimento applicato. Senza una tale scelta a priori vi possono essere difficoltà non solo nel portare avanti il confronto, ma anche nell’avviarlo. La naturale tendenza psicologica a scansare difficoltà e problemi può spingere a rifiutarlo, però se c’è accordo a priori nella piena convinzione che i risultati saranno positivi, allora non sarà difficile superare le difficoltà iniziali e convincersi della necessità di un confronto comunque. Potrebbe sembrare l’invito a un confronto forzato, ma sarebbe tale se non fosse voluto, cercato, desiderato e amato da entrambe le parti. Se invece è una scelta condivisa da entrambi allora non si tratta di costringere l’altro, ma d’incontrarsi nel confronto comunque senza forzature, secondo la scelta di non lasciarsi in pace, ma di costruire insieme la pace comune.
Vale la pena di ripetere che per applicare con serenità e costrutto questi metodi è indispensabile sentire che le comunicazioni sono amiche preziose anche quando sono tutt’altro che gradevoli, perché soltanto conoscendo le opinioni altrui si può intervenire per contestarle o approvarle, confermarle o trasformarle, anziché subirle passivamente come quando non si conoscono. E’ difficile “osar sapere”, è difficile vincere il desiderio psicologico del quieto vivere, è diffide capire fino in fondo che ignorare la realtà non porta ad altro che a peggiorarla. Solo quando vi sono motivazioni sufficienti, solo quando è consolidata la convinzione che la via dell’esplicito sia decisamente positiva, allora diventa facile lavorarci sopra, trovare metodi e punti di riferimento comuni, imparare insieme a dire e a farsi dire.
E solo allora, pur restando vivo il desiderio d’imparare a comunicare sempre meglio, non ci si formalizzerà più sui modi, non si perderà più tempo a riprovare, contestare, biasimare le forme d’espressione scelte dagli altri, belle o brutte che siano, perché apparirà finalmente fondamentale, innanzi tutto, che la comunicazione e il confronto avvengano comunque. Solo allora non ci saranno più dubbi che nulla di quanto si dice o si sente può mai essere considerato negativo, anche se può (e deve, quando è il caso) essere criticato, contestato, disapprovato. Ma il fatto che venga espresso (ferma restando la fiducia che non c’è alcuna intenzione di nuocersi l’un l’altro) apparirà senz’altro positivo. E l’incoraggiamento a esprimersi, insieme al ringraziamento per averlo fatto, sarà senza riserve, indipendentemente dai contenuti e dai modi.
Il termometro per misurare quanto siamo realmente convinti del valore dell’esplicito, e quanta voglia c’è di “farsi dire”, lo troviamo osservando le reazioni del nostro stato d’animo. Se risentimento, suscettibilità, indignazione prevalgono sullo stupore, allora l’esplicito non è sufficientemente gradito (e in tal caso sarebbe tanto meglio riconoscerlo esplicitamente). In altre parole, la voglia di farsi dire si misura sul superamento radicale della suscettibilità e della paura di perdere.
Anche le sciocchezze, anche il positivo
Sovente, al momento di comunicare certe riflessioni, ci si accorge che la loro importanza è discutibile, e può capitare di si vergognarsi un po’ di averle pensate. E allora si può essere tentati di scegliere la facile via di lasciarle cadere nel dimenticatoio. Ma anche quando si tratta di autentiche sciocchezze, il fatto di averle pensate non è una sciocchezza, e decidere unilateralmente quale importanza attribuirgli è pur sempre un atto individualistico. Perché non vi siano reticenze nella comunicazione, anche in questo caso è indispensabile aver voglia di farsi dire. Quante volte si avverte che l’altro direbbe qualcosa se fosse incoraggiato a farlo. E quante volte si è invece ben contenti se l’argomento cade, liquidato da un frettoloso: non ha importanza. Ma è proprio vero? Perciò è opportuno invitare l’altro a comunicare comunque, a non vergognarsi, ad aver fiducia nella valutazione comune, pronti a ridere insieme delle sciocchezze, ma attenti anche a non sottovalutarne la portata.
C’è poi un altro versante sul quale si rischia di limitare l’esplicito: quello di considerare inutile sottolineare il positivo. Invece, come nell’educazione dei bambini approvarli per quanto fanno di buono è assai più efficace che rimproverarli per il negativo, così in qualsiasi rapporto nulla rende più facile affrontare costruttivamente le divergenze dell’identificare insieme ciò che viene approvato da entrambi. Sottolineare il positivo, riconoscere che esiste, che è capito e apprezzato, è la premessa migliore per porsi con fiducia di fronte alle differenze personali, in modo da non guardarle più con diffidenza e ostilità (come se provenissero da un nemico) ma come fonte di stupore (come mai ci sono tali divergenze con una persona che cammina insieme a me?).
Accordeonica e comunità
È tanto più facile evitare i conflitti quanto più il rapporto è superficiale e non compromettente, e quindi ci si può distaccare facilmente (ma è andare d’accordo?). Per questo il rapporto coniugale è il più difficile, perché non offre possibilità di distacco se non a costo d'un qualche fallimento. Ma è anche il rapporto che consente di sviluppare, sul piano del coinvolgimento, una ricchezza di risultati altrimenti impossibile. A nove anni dalla nascita della Comunità del Mattino continuo a credere che un rapporto comunitario basato sul coinvolgimento applicato offra la possibilità di sviluppare, in modo meno intimo ma con più persone, e quindi in dimensione più allargata, un tipo di rapporto analogo a quello coniugale. Un tipo di legame che rende moralmente responsabili l’uno dell’altro (ricordati che sei responsabile di quelli che hai addomesticato, diceva la volpe al piccolo principe). Ma si tratta di una proposta ardita che suscita facilmente diffidenze e sospetti, col rischio, se accolta o capita a metà, di far scambiare per rapporti coinvolti quelli che non lo sono sufficientemente.
D’altronde, tanto più il rapporto comunitario è ampio, tanto più è destinato a restare superficiale, cioè meno intimo e coinvolto. E qui si ripropone un quesito di sempre: comunità allargata o ristretta? Lavorare a largo raggio su rapporti più formali e distaccati, oppure lavorare in profondità solo con chi si coinvolge a fondo? Meglio un risultato modesto con molti o brillante con pochi?
Una scelta esclusivistica per una delle due direzioni credo sarebbe riduttiva, se non negativa. Quindi anche qui mi sento di dire et... et..., ma come fare per metterlo in pratica senza che finisca per essere svalutativo per l’una o per l’altra alternativa (o per entrambe)? Gira e rigira, da qualunque parte affronto il problema da qualche tempo mi ritrovo sempre a trarne le stesse deduzioni. Credo profondamente nella possibilità di offrire una proposta aperta a tutti, che da un lato possa venir coltivata e sviluppata insieme tra coloro che rispondono positivamente, e dall’altro lato capace non solo di mantenere rapporti costruttivi e benevoli verso chi percorre altre strade, ma anche di continuare costantemente a proporsi sempre aperta a eventuali ripensamenti, oltre che a nuove adesioni.
Quindi una comunità a largo raggio, ma che renda possibile al suo interno sviluppare anche coinvolgimenti più stretti. Questa la direzione di marcia verso la quale confermo di volermi muovere. Quanto agli sviluppi, si vedrà. Le nubi che si stanno addensando sul cielo della nostra comunità dimostrano che il futuro è assai incerto. Ma la speranza non si trattiene dal mostrarsi viva.