Com'è nato il progetto
Mio fratello Eugenio era stato operato per un tumore al cervello da circa dieci anni quando l'inevitabile recidiva giunse a togliergli l'autonomia. Aveva bisogno di assistenza continua e la moglie non se la sentiva di farsene carico, così aveva deciso di ricoverarlo in una struttura a lunga degenza. D'accordo con i miei famigliari e i comunitari l'abbiamo preso in casa nostra, dove è rimasto altri tre mesi prima che la sua vita si compisse definitivamente. È stata, per tutti, un'esperienza molto toccante, con momenti di grande tenerezza per le particolari attenzioni che gli rivolgevano i bambini. Lo stesso anno, qualche mese dopo, abbiamo assistito anche la mamma di Emanuela, che ha cessato il suo calvario nei giorni di Natale. Dimessa dall'ospedale, era stata assistita a casa dall'oncologo dottor Giovanni Creton, che abbiamo avuto occasione di conoscere bene in quei giorni. Ci disse che stava organizzando un'équipe d'assistenza domiciliare patrocinata da una fondazione inglese, e stava cercando degli assistenti volontari. Elio e io, entrambi segnati dalle esperienze fatte, ci siamo resi subito disponibili. Così è nata l'Associazione Ryder Italia, con le prime riunioni tenute in un box di via Poerio da Giovanni, medico, Annette e Viola, infermiere, oltre a noi due, assistenti volontari. Successivamente anche altri comunitari hanno preso attivamente parte ad assistenze, come Marco, Giulia, Isabella, Filippo, Daniela, Mariella, Egidio.
Il cuore delle esperienze fatte le ho raccontate nel mio libro: ACCANTO AL MALATO…. sino alla fine, che contiene 23 testimonianze di assistenze domiciliari. Ne avevo scritto anche altre sette, che però l'editore mi ha chiesto di togliere perché temeva che il libro risultasse troppo pesante. Aggiungo che da parte mia avevo anche scelto un titolo diverso: In confidenza con sorella morte che a me, ancora oggi, continua a sembrarmi più valido, ma l'editore si è rifiutato di nominare la morte nel titolo. Mah!
Riporto qui di seguito i racconti esclusi dal libro pubblicato, ricordando che in gran parte ho vissuto personalmente gli avvenimenti raccontati, mentre alcune volte i fatti riportati sono accaduti ad altri assistenti volontari, che ho però seguito personalmente, pur se indirettamente. Lorenzo è il nome generico che indica l'assistente volontario presente al momento.
Filippo
Figlio di un noto uomo politico particolarmente impegnato e combattivo nell’immediato dopoguerra, oltre a essere di fiero aspetto, era anche impulsivo, sanguigno, sempre in prima linea. Ma a 75 anni, provato da una neoplasia polmonare con metastasi cerebrali, era, come si suol dire, un po’ fuori di testa. Per questo motivo avevano chiesto l’assistenza di un volontario, perché la notte precedente aveva fatto disperare la moglie, e si rendeva necessaria la presenza di qualcuno pratico di tali situazioni.
Lorenzo, quella prima sera, lo trovò seduto su una seggiola che cercava di mettersi le scarpe, mentre la moglie ripeteva, con aria rassegnata, che pur non reggendosi in piedi era così capoccione da credere di star bene, e voleva andare chissà dove. Il malato dapprima sembrava non averlo neppure visto, ma ad un certo punto si rivolse a lui come se si conoscessero da tempo, dicendogli: «meno male che sei arrivato, così non ho più bisogno di uscire». Poco dopo si lasciò convincere che era ora di mettersi a letto, e una volta terminata l’impresa la moglie ne approfittò per dare subito la buonanotte e andarsene finalmente a dormire. Poco dopo, disteso nel suo letto, Adriano cominciò a vaneggiare. Chiese a Lorenzo se voleva il caffè, e indicandogli un punto della stanza completamente vuoto, aggiunse: «ecco mamma che ce lo sta portando, lo prendi con lo zucchero?».
Di addormentarsi pareva non pensarci neppure, e i due passarono parecchio tempo a conversare. Spesso riaffioravano vaneggiamenti di vario tipo: vedeva delle cose inesistenti e aveva vere e proprie allucinazioni, che tuttavia non gli provocavano angoscia, anzi, pareva lo lasciassero assolutamente tranquillo. «Tu come hai risolto il problema dei pesciolini?» chiese all’improvviso, e Lorenzo si rese conto che vedeva il pavimento come una vasca piena di pesci rossi. Pensando, per esperienza, che in tali casi sia più conveniente assecondare il discorso anziché contraddirlo, o per dir meglio, sia opportuno suggerire soluzioni, come se la visione fosse vera, gli rispose che li lasciava nuotare, aggiungendo «sono così carini!». Ad Adriano l’idea non dispiacque, e passò ad altri argomenti, finché arrivò il momento delle formiche: la parete di faccia ne era piena, diceva. Quelle non si potevano lasciare lì, perciò Lorenzo si alzò tranquillizzandolo: «non ti preoccupare, le tolgo subito» e passò ripetutamente su e giù la mano sul muro, cominciando però immediatamente a parlare d’altro: bastava infatti cambiare argomento perché l’attenzione si spostasse altrove, e le visioni sparissero. Fino alla volta successiva, naturalmente. Più tardi Adriano si decise a prender sonno, ma la notte fu abbastanza movimentata, perché diverse volte avrebbe voluto alzarsi, e non era facile trattenerlo. Ad un tratto chiese chi aveva incendiato il materasso, perché vedeva del fumo uscire dalla parte dei piedi. Il suo interlocutore se la cavò rispondendogli che aveva acceso lui una sigaretta, riuscendo anche per quella volta a tranquillizzarlo. Andarono avanti a singhiozzo fino alle sei, quando vedendo la luce che era cominciata a filtrare non fu più possibile impedirgli di alzarsi. A Lorenzo non restò che aiutarlo a vestirsi, lavarsi, farsi la barba.
Entrati poi nello studio, seduti ai due lati della scrivania, Adriano comincò a spiegare al compagno del momento il suo progetto politico. Era ora di fondare un nuovo movimento, gli diceva con il tono dell’ovvio, e lo trattava come se tra loro quel discorso fosse cominciato da tempo. Carta e penna, e giù appunti di vario genere: quali tipi di collaboratori cercare, come doveva essere la sede, di che cosa avrebbe dovuto occuparsi il suo alter ego, che cosa invece riservava per sé. Ne parlava con grande lucidità: se fosse entrato qualche estraneo avrebbe probabilmente pensato che facevano sul serio.
Nei giorni successivi Lorenzo tornò altre due volte a far nottata accanto a lui, trovando minime differenze di programma negli avvenimenti, sia reali che fantastici. Nel frattempo era arrivata la figlia, che viveva negli Stati Uniti insieme al marito, medico, il quale però aveva rinunciato alla sua professione per occuparsi di moda. E ci teneva a far sapere a tutti che era fiero di quella sua scelta.
Fu la notte seguente che Adriano, improvvisamente, decise di partirsene per sempre. Quando la moglie telefonò a Lorenzo, la mattina presto, gli disse che la figlia e il genero avevano già provveduto a vestirlo, ma richiese la sua presenza dicendo: «lui sarebbe contento che tu fossi qui, in fondo sei stato il suo ultimo amico».
Mario
L’accoglienza fu originale e inattesa: «lei è quello che mi deve consolare?» gli disse Mario appena entrò nella sua camera. Lorenzo si sentiva a disagio, sapeva che era molto depresso, e proprio per questo l’avevano incaricato d’intervenire. Ma non si attendeva espressioni scettiche e sarcastiche. «Non devo fare proprio niente» gli rispose con un sorriso «semplicemente mi metto a sua disposizione». Il malato cambiò tono, lo ringraziò e aggiunse, mesto ma molto lucido, che ormai c’era solo da aspettare, perché aveva capito che la sua fine era prossima. Un tumore alla prostata con metastasi ossee l’aveva ridotto in cattive condizioni, e perfino l’aspetto fisico appariva piuttosto disfatto.
Era un bel po’ giù di corda e non lo nascondeva, anche se preferiva fare dell’ironia piuttosto che disperarsi, come si addice al genuino spirito romanesco. A poco a poco prese a raccontargli di sé: aveva una trattoria casareccia che gestiva con la moglie e i figli, era fiero del suo mestiere, e ovviamente si rammaricava di non potergli far gustare le sue specialità. Anche nei giorni successivi la conversazione scivolava sempre sullo stesso argomento, e quando descriveva qualche piatto finiva col dirgli: «quando starò meglio te lo farò gustare». Ma poi diventava triste, concludendo che ormai non sarebbe più guarito.
Un giorno disse alla moglie che doveva assolutamente fargli assaggiare l’abbacchio a scottadito come lo cucinavano loro, e fece promettere a Lorenzo che una sera sarebbe andato a mangiare nella loro trattoria. Ma il giorno dopo gli eventi precipitarono, e nel tardo pomeriggio il suo cuore cessò di battere. Mentre lo lavava e lo vestiva Lorenzo percepì dai suoi tessuti una strana sensazione, come se la loro consistenza fosse particolarmente fragile. La mattina dopo, prestissimo, una telefonata del fratello, molto preoccupato, lo informò che trasudava liquidi da tutte le parti e mandava un fortissimo cattivo odore. Tornò da loro, che nel frattempo avevano anche chiamato l’impresa funebre. Stranamente il corpo era già in avanzato stato di decomposizione, perciò fu messo subito dentro la cassa, anche se il coperchio poteva soltanto esservi appoggiato sopra, dato che non è consentito sigillarlo prima delle ventiquattrore. Nel pomeriggio tardi, quando finalmente fu possibile chiuderla ermeticamente, l’aspetto del cadavere era ormai indescrivibile, e nessuno dei medici ha saputo spiegarsi il perché di tale rapida decomposizione.
In quell’occasione, Lorenzo si accorse di provare uno strano stupore: gli sembrava che sorella morte, presa dalla fretta, avesse cominciato troppo presto il suo lavoro, quasi non si fosse accorta che il tempo non era ancora compiuto.
Elisabetta
Dal balcone accanto una vicina si accorse che stava tentando faticosamente di scavalcare con una gamba la ringhiera del balcone, nel tentativo di buttarsi di sotto. Si mise a gridare e a supplicarla di non farlo, finché la vide lasciarsi scivolare lentamente fino a sedersi per terra.
Cinquant’anni compiuti da poco, un tumore alla ovaie che si era riprodotto dopo l’intervento, numerose metastasi cutanee, soprattutto nella zona addominale, che producevano piaghe purulente e dolorose: ormai, con gravi difficoltà ad alzarsi dal letto, aveva ben chiara la sensazione di stare precipitando verso la fine. Eppure non erano i suoi guai di salute che l’avevano spinta a quel gesto. Non temeva per se, ma per suo figlio ventenne, che sarebbe rimasto solo a fare i conti col padre: i due erano, purtroppo, in conflitto permanente, con esasperazioni che giungevano talvolta ai limiti del cruento.
A quel punto, scioccato dal tentativo di suicidio, era stato il marito a chiedere aiuto, e Lorenzo, preavvertito, aveva avuto con lui una lunghissima conversazione telefonica. Fin dall’inizio del colloquio si era accorto che dall’altra parte del filo c’era una persona molto scettica sulla possibilità di risolvere il problema (la conflittualità col figlio), e tuttavia intenzionata a fare qualcosa, se non altro per tranquillizzare l’ammalata e dimostrarle d’essere disponibile a provarci. Aveva preso poi a parlare del figlio, sforzandosi di usare toni moderati, ma lasciando trasparire soprattutto una grande irritazione: è addormentato, non s’impegna, manca di volontà, è abulico, scoraggiante, senza spina dorsale! Si rendeva perfettamente conto della necessità di trovare un accettabile modus vivendi, quando non ci sarebbe stata più la mamma a fare da cuscinetto, ma certamente non se ne mostrava entusiasta. Via via che si svolgeva quella telefonata fiume, Lorenzo non si era trattenuto dal notare, con interesse, che a fianco di qualsiasi ragionamento, talvolta anche molto sensato, improvvisamente quell’uomo sentiva il bisogno di tornare con rabbia sui difetti del figlio.
L’aveva chiamato Massimo, e la scelta di quel nome la diceva lunga. Evidentemente si era costruito nella mente un proprio modello, sul quale riporre grandi aspettative. Avrebbe voluto pretendere sempre il massimo da lui, e ne era rimasto invece amaramente deluso. Ripeteva che non era cattivo, anzi, era un bravo ragazzo, ma lo diceva per poter aggiungere qualche “però” seguito da nuove serie d’insulti. Tutti i suoi sogni li aveva riposti in lui, s’era immaginato che sarebbe diventato chissà chi, raccontava che quand’era piccolo lo prendeva in braccio e gli diceva: «tu sarai la consolazione di papà, e io ti darò tutto quello che vuoi per aiutarti a esserlo». Ora diceva invece di non poterne più, di sentirsi rifiutato soltanto per i suoi tentativi di stimolarlo a svegliarsi.
Durante la conversazione alternava momenti di rabbia a riflessioni ragionevoli, ammetteva che ogni ragazzo ha diritto a essere se stesso, secondo le proprie caratteristiche naturali, e riconosceva che nei confronti del figlio forse le sue erano autentiche “pretese”, ma le giustificava sostenendo l’efficacia educativa dei metodi autoritari.
Ora si diceva disponibile a fare la sua parte per tentare d’instaurare nuovi rapporti, ma continuava anche a dire che credeva poco probabile il benché minimo successo. Lorenzo, malgrado il suo naturale ottimismo, si accorse di temere che le speranze fossero davvero poche, soprattutto sentendo l’altro raccontare di aver talvolta detto e ripetuto al figlio che in certi casi, guardandolo, si sentiva prudere le mani. Anzi, di fronte alla sua stupefatta richiesta di conferma, si era sentito candidamente aggiungere che gli aveva anche detto di «provar voglia di vedere il sangue». (apro una breve parentesi per dire che a raccontarla mi sembrano espressioni inverosimili, eppure assicuro che è tutto rigorosamente vero).
Lorenzo si ritrovò a pensare che non avrebbe mai creduto possibili tali espressioni da parte di un genitore, se non le avesse ascoltate con le sue orecchie. Ciò che gli appariva strano, oltre tutto, era sapere che il suo interlocutore faceva parte del personale dirigente d’una azienda prestigiosa, e mostrava di avere una buona cultura. Insomma, una persona socialmente valida, molto attiva e di grandi capacità. Altrettanto strano, poi, era il fatto che, facendolo ragionare a freddo sui suoi comportamenti, mostrava di rendersi conto che non erano costruttivi. Ma sull’argomento figlio reagiva come se entrasse in una zona d’ombra, tale da fargli perdere il self-control. Era evidente che nel suo intimo affermava: “il figlio è mio e me lo gestisco come voglio!”, e il fatto di non essere riuscito a farlo l’aveva profondamente deluso e irritato, come se qualcuno l’avesse defraudato di un suo diritto.
Lorenzo conobbe Elisabetta, una signora simpatica ma chiaramente ansiosa e preoccupata. Per rompere il ghiaccio cominciò a farle domande sulla sua malattia, e lei gli raccontò tutto l’andamento fino a concludere, con estrema naturalezza, di aver ormai varcato il punto di non ritorno. Ne parlava con tono distaccato e fatalista, come se fosse qualcosa che non la riguardava personalmente, finché prese a dire che altri erano i suoi veri problemi. Quando si accorse che Lorenzo ne era a conoscenza, si mise a piangere e gli raccontò quel che già sapeva. Alla fine spiegò il suo goffo tentativo di suicidio con il timore angosciante che il figlio facesse qualche colpo di testa.
Con Massimo gli fu più difficile entrare in confidenza. Non rifiutava il dialogo, ma sembrava chiuso come un riccio. Temeva i rapporti e lo faceva vedere: era talmente abituato a difendersi da fare ormai fatica a superare i bastioni. All’inizio parlava in modo frazionato, a monosillabi, e ci vollero più incontri per sciogliere un po’ della sua diffidenza. Ma a poco a poco si accorse che Lorenzo non era un nemico, e così venne alla luce la sua anima solitaria. Ragazzo tranquillo, dal carattere sensibile e riservato, non si poteva dire un genio ma neppure uno stupido, e avrebbe potuto fare la sua parte, se avesse avuto la possibilità di gestirsi secondo le sue possibilità. Invece era sempre stato sovrastato dal dinamismo di un genitore che l’avrebbe voluto come lui. Stranamente, però, non ce l’aveva col padre, non lo considerava un nemico, ma dal suo modo di esprimersi pareva che pensasse, un po’ fatalisticamente, che aveva ragione ad avercela con lui, dati i suoi limiti. Insomma, pur essendo stato strapazzato in molti modi, lo ammirava soprattutto per il suo forte carattere, e provava un senso di colpa per averlo deluso. Ora si mostrava veramente impaurito a restare solo con lui, senza più la mamma a far da cuscinetto, ma si vedeva altrettanto chiaramente che avrebbe pagato qualsiasi prezzo pur di migliorare il rapporto, e s’intuiva che sarebbe stato disponibile a dimenticare il passato, se ci fosse stata la possibilità di un futuro diverso.
Un giorno Lorenzo, mentre cercava di far capire al padre l’opportunità di cambiare atteggiamento, cosa particolarmente difficile perché in teoria ne era già ben convinto (purché però Massimo eccetera eccetera, diceva), si lasciò dapprima trascinare in un’accanita discussione, finché poi perse la pazienza e, alzando la voce, finì per strapazzarlo, insultandolo anche, gridandogli che era uno stupido, perché quello era l’unico figlio che aveva, che continuando a comportarsi a quel modo non faceva altro che darsi la zappa suoi piedi. E proseguì dicendogli che pur ammettendo che fossero difetti quelli che gli attribuiva, Massimo aveva anche dei pregi, e se li avesse valorizzati anziché rovinarli, avrebbe potuto costruire con lui un rapporto almeno accettabile. E alla fine si era talmente caricato da ripetergli più volte che era proprio uno stupido, perché rimaneva ancorato all’assurda immagine di uno stereotipo di figlio che non esisteva, se non nella sua fantasia.
Stranamente, di fronte a tale sfuriata, anziché ribellarsi rabbiosamente quell’uomo si mostrò quasi contento, reagendo in senso positivo. Evidentemente aveva bisogno di scontrarsi con qualche carattere forte che lo contrastasse, per uscire dagli stereotipi. Prese un atteggiamento diverso, e finalmente si mostrò disponibile a tentare di ricostruire. Messo a confronto con Massimo, si comportò realmente in modo equilibrato, chiese scusa di certe sue intemperanze, si mostrò affettuoso, disse che gli voleva bene e che desiderava impostare un nuovo rapporto. E il figlio, che non chiedeva di meglio, si sentì rinfrancato, ed ebbe perfino il coraggio di fargli qualche rimprovero. Ma ben presto prevalse l’emozione, e l’incontro si chiuse con abbondanti gesti affettuosi.
Il nuovo clima resse felicemente nei giorni successivi, che non furono molti perché Elisabetta, ritrovato uno stato d’animo di grande serenità, finì ben presto il suo itinerario terreno. Se poi il ritrovato rapporto abbia retto nel tempo, bisognerebbe chiederlo alla speranza: nessuno dell’équipe ne ha più avuto notizie.
Martino
Aveva passato gli ottanta e stava male da tempo, non tanto per la decadenza fisica, ma per problemi psicologici e religiosi: si sentiva in colpa per certe sue imprese del passato, ed era continuamente assalito dagli scrupoli. Non era assistito dall’équipe, ma Lorenzo era una amico di famiglia.
Non poteva certo essere definito un malato facile, si sentiva angosciato, e lo manifestava creando disagio attorno a sé. La moglie e il figlio sovente lo maltrattavano dicendogli di smetterla, perché erano stufi dei suoi lamenti. Con Lorenzo si era sempre comportato in modo dignitoso, senza mai entrare in merito ai suoi problemi più intimi, finché non prese a peggiorare decisamente. Allora cominciò a raccontargli, ma sempre in modo molto generico, alcune sue marachelle di gioventù: storie di donne e nulla più, ma diceva di essersi infiltrato più volte in menages altrui, contribuendo anche a sfasciare dei matrimoni. Temeva il castigo divino: «mi perdonerà?» diceva. La prima volta Lorenzo gli chiese di rimando: «tu perdoneresti tuo figlio?». Ma sembrava inutile tranquillizzarlo: si era confessato infinite volte e aveva sempre ricevuto l’assoluzione, salvo poi, regolarmente, farsi venire gli scrupoli nel timore di non essersi spiegato bene, col risultato di volersi riconfessare. Una volta un prete lo aveva letteralmente cacciato dal confessionale, ma neppure quell’episodio era servito a farlo smettere: i suoi scrupoli non lo lasciavano in pace. Più volte Lorenzo gli aveva sentito dire: «lo so di dare fastidio, di essere un lagnoso insopportabile, ma non lo faccio apposta». E aggiungeva: «mi sgridano sempre, mi sgridano sempre, ma non lo faccio apposta. Diglielo, ti prego, che non mi sgridino più». Faceva veramente una gran pena.
Quando si manifestò la prima volta una neoplasia alla vescica fu operato, come si usa dire, a cielo aperto, mentre in seguito subì numerosi altri interventi in endoscopia. La sua salute proseguì con fasi alterne per qualche anno, poi, quando ormai stava veramente male, il chirurgo propose di rioperarlo, e alle perplessità dei familiari disse che altrimenti avrebbe rischiato il blocco renale. Lo aprì e lo richiuse per dire che non c’era più nulla da fare, facendosi poi pagare profumatamente. Sulle previsioni, pronosticò che a scadenza brevissima sarebbe andato in blocco renale o intestinale, aggiungendo che c’era da augurarsi quello renale, perché l’altro lo avrebbe fatto soffrire assi di più. Si trovava ricoverato in una delle più prestigiose cliniche, eppure ebbero il coraggio di insistere con il figlio perché lo riportasse a casa. E data la sua resistenza, gli dissero esplicitamente di non gradire che i pazienti morissero lì da loro, e gli proposero perfino qualche facilitazione purché se ne andassero subito. «Tanto qui non gli facciamo più niente» aggiunsero. Roba da non credere.
Intanto Martino mostrava d’aver forti dolori, la moglie chiese all’infermiera di dargli un sedativo, ma lei rispose che era passato troppo poco tempo dall’ultimo, e quindi c’era pericolo d’intossicazione. Intervenne allora Lorenzo per farle notare quanto fossero assurde tali preoccupazioni, visto che era ormai questione di ore, ma l’infermiera rispose che senza l’autorizzazione medica non gli avrebbe dato nulla, aggiungendo che il chirurgo stava in sala operatoria e non poteva essere disturbato. A quel punto Lorenzo alzò la cornetta del telefono dicendo che avrebbe chiamato il 113: la minaccia fece effetto, l’infermiera cominciò a darsi da fare, e poco dopo un forte calmante cominciò a ridurgli sensibilmente i dolori.
Morì quella notte, finalmente tranquillo. Il suo volto si distese dolcemente in un lieve sorriso, come a sottolineare che un giorno qualsiasi angoscia può essere vinta.
Maria
Quando nel 1989 Maria entrò in assistenza, nella Bulgaria c’era ancora il regime comunista. Era scappata da là sei anni prima e, giunta a Roma in treno, aveva conosciuto Guido, un facchino della stazione Termini. Fra i due esplose ben presto un vero e proprio colpo di fulmine, tanto che lui aveva lasciato la moglie e i suoi tre bambini per andare a vivere con lei. Insieme avevano anche concepito un nuovo figlio, che ora aveva quasi cinque anni. Poco dopo, purtroppo, lei aveva cominciato a star male, e con un carcinoma all’utero e metastasi diffuse era ormai giunta al termine del suo cammino. La suocera aveva sempre manifestato un senso di rifiuto nei suoi confronti, perché la considerava colpevole di aver rovinato il matrimonio del figlio, e non voleva assolutamente credere che stesse male, perché pensava che si trattasse di una messa in scena per farsi perdonare.
Fin dai primi interventi dell’équipe Maria era entrata in uno stato di assopimento, sedata dai farmaci. Sembrava quasi in coma, però di tanto in tanto si svegliava, ringraziava, e si riaddormentava. Guido era molto preoccupato, soprattutto perché si chiedeva chi avrebbe preso cura del bambino, visto che con sua madre i rapporti erano gravemente inquinati. E dato che a lui non voleva credere, aveva pregato Lorenzo di avvisarla di quel che stava accadendo. Questi le aveva telefonato facendole capire che Maria era realmente grave, anzi, stava proprio andandosene. Dopo qualche momento di sconcerto la madre si era precipitata lì, a casa, e di fronte alla realtà era scoppiata a piangere, aveva chiesto perdono al figlio per non aver creduto che fosse ammalata, e rendendosi totalmente disponibile non si era più mossa, da quel momento in poi, dal capezzale di Maria.
Una sorella dell’ammalata, anch’essa fuggita dal suo paese, viveva in Germania, dove le fu spedito un telegramma per avvisarla degli avvenimenti. Nel frattempo anche il padre, piuttosto anziano, l’aveva raggiunta (in Germania) e fu proprio lui ad aprirlo. Impreparato com’era, per l’emozione fu colto da infarto e ricoverato in ospedale, impedendo alla sorella di potersi muovere. Erano anche stati avvisati, attraverso l’ambasciata, i suoi due fratelli rimasti in Bulgaria, ma per le difficoltà di avere il visto sul passaporto non sarebbero potuti arrivare prima di qualche giorno.
Il tempo a disposizione, invece, stava scorrendo velocissimo, e una sera Maria riprese brevemente conoscenza per l’ultima volta: chiamò Guido, la madre, il figlio per salutarli, ringraziò Lorenzo, e poi si riaddormentò tranquillamente. Non passò un’ora che era tutto compiuto. I suoi fratelli arrivarono soltanto due giorni dopo, a funerale concluso.
Alessandro
Era stata richiesta una presenza notturna per eventuali necessità d’emergenza, e una volta entrato in quella casa Lorenzo si rese subito conto di una situazione familiare tutt’altro che tranquilla. Dalle informazioni preliminari sapeva che Alessandro, il malato, aveva poco meno di trent’anni, e stava ormai in fase terminale, stroncato da un epitelioma trascurato a lungo e accompagnato ormai da numerose metastasi.
Quando giunse, quella prima sera, fu ricevuto dalla madre, una cinquantenne per la verità piuttosto sfiorita, ma non senza aver conservato evidenti velleità femminili. Lo accolse in modo piuttosto brusco, e indicando un lettino che aveva preparato in ingresso gli disse: «lei si fermi qui: se avrò bisogno la chiamerò». Un po’ sorpreso, Lorenzo le chiese di vedere il malato, se non altro per conoscerlo, ma si sentì replicare che a gestire il figlio intendeva pensarci lei: l’assistente volontario doveva soltanto restare a disposizione. Parlava con tono sgradevole, dall’alto in basso come se considerasse gli altri dei semplici sudditi, tanto che il marito, affacciatosi da una porta, continuava a guardare il nuovo arrivato con l’aria di chiedergli scusa. Dato che il principio ispiratore dell’équipe è di far quel che si può per aiutare gli altri nella loro concreta situazione, Lorenzo non replicò, ponendosi a disposizione degli eventi.
Dopo la buonanotte, la donna sparì dietro la porta a vetri che introduceva nel salotto, trasformato per l’occasione in camera dell’ammalato. Qualche ora dopo da quella porta si sentivano provenire lamenti e frasi concitate, ed Guido si pose in ascolto con pazienza, finché gli parve che si accumulassero difficoltà crescenti. Allora, dopo aver più volte bussato senza ricevere risposta, si decise ad aprire la porta e ad entrare. La prima cosa che vide furono due abbondanti natiche bianche, appena coperte da un paio di mutandine: la madre stava inchinata sul divano dove dormiva l’ammalato interamente nudo, salvo un pannolone. Per nulla imbarazzata dal suo abbigliamento, la donna disse con aria indispettita: «non vuol farsi cambiare», ma l’altro replicò con voce un po’ strozzata: «m’hai fatto maleeee!». La madre allora, ancor più stizzita, si coricò sulla sua brandina dicendogli: «e allora fattelo cambiare da lui, se vuoi». E si voltò dall’altra parte.
Lorenzo tornò per qualche notte, alternandosi anche con altri volontari, ma la donna chiedeva sempre a tutti di fermarsi in ingresso, salvo non opporsi, nel corso della notte, ad eventuali interventi. Sovente cercava di far mangiare qualcosa ad Alessandro, e attraverso la porta socchiusa si potevano ascoltare esortazioni e lamenti. Una volta che insisteva per dargli uno yogurt, si era sentito chiaramente il figlio, con la sua voce cavernosa, che diceva indispettito: «ancooora!», lamentandosi poi ad ogni cucchiaino, finché la madre gli aveva detto: «ecco, questo è l’ultimo». «Meno maaale» era stata l’esclamazione a quel punto, ma subito dopo lei aveva aggiunto: «ce n’è ancora un altro» e lui «nooooo!». Solo la drammaticità del momento impediva di mettersi a ridere.
Questa originale assistenza durò una decina di giorni, finché una mattina Lorenzo, insieme a tutti gli altri, fu licenziato altrettanto bruscamente di come era stato accolto. «Non venite più, ho deciso di organizzarmi in modo diverso» gli disse la madre senza aggiungere altre spiegazioni. Era apparsa più volte scocciata, e forse anche gelosa, dato che il figlio mostrava di gradire assai poco le sue attenzioni, e assai più quelle degli altri.
Marta
Marta era ricca di qualità, e bastava conoscerla per accorgersene: vivace e volitiva, spigliata e simpatica, aveva le idee chiare. A quarantotto anni, con un tumore alle ovaie e metastasi al fegato, mostrava di essere ben cosciente che la sua vita stava volgendo rapidamente al termine (pur se talvolta parlava come se sperasse ancora di guarire). Lorenzo si accorse subito che lo stava aspettando: aveva chiesto aiuto per un problema particolare e sapeva che lui era lì per questo.
Disastroso era l’ambiente familiare: Carlo, il marito, era alcolista, e a volte diventava violento fino ad alzare le mani sui figli, soprattutto ora che non poteva più farlo con la moglie. In casa c’era un clima di tensione e di paura, che sommandosi al dramma della malattia rendeva la situazione insopportabile. Quattro i figli: Paola venticinquenne, Chiara e Attilio, due gemelli diciottenni, e Rosalia di dieci, che però viveva da qualche tempo con la zia per salvaguardarla dal pesante clima di casa.
Era stata una donna attiva, Marta, molto impegnata in passato con la Caritas, e su tale argomento Lorenzo cominciò a farle delle domande, tanto per rompere il ghiaccio. Lei prese a raccontare un sacco di cose, finché emerse che proprio in tale contesto aveva conosciuto Carlo, un giovane psicofragile: se n’era innamorata e l’aveva sposato. Via via, dopo aver accennato a diversi momenti della loro vita, arrivò a raccontargli che il marito, commesso di una banca addetto alla cassaforte, alcuni anni prima era stato protagonista di un episodio molto spiacevole. A seguito di un ammanco era stato accusato e tenuto in carcere per oltre un anno, prima di essere completamente scagionato e riabilitato. Ma in quell’anno aveva preso a bere smodatamente, e non si era più ripreso. Ora, di fatto, veniva considerato inaffidabile: sul posto di lavoro pare gli lasciassero fare quel che voleva, purché non disturbasse, e prima di rincasare, si attardava volentieri nel giro dei bar, tornando ubriaco. A questo punto il problema era come fare a contenerlo perché non facesse altri danni. Marta, che aveva sempre svolto lei quel compito, non ne aveva più le forze, né fisiche né psicologiche. Quanto ai figli, si erano più volte impegnati e coinvolti con lui per cercare di farlo uscire dal tunnel, ma ora che la mamma stava male volevano per lo meno evitare che le sue intemperanze interferissero negativamente. La richiesta d’aiuto che facevano, in sostanza, era di cercare di ficcargli in testa che doveva starsene buono ed emarginato, lasciando in pace gli altri. Avevano anche raccomandato, ad Lorenzo, di non fargli neppure supporre che era a conoscenza delle sue vicende giudiziarie: «se sapesse che te ne abbiamo parlato, rifiuterebbe anche solo d’incontrarti».
Lo attese quella sera stessa, e quando giunse si sentì sussurrare dalla figlia che non era ubriaco. Un momento favorevole, perciò, e dopo avergli lasciato sistemare le cose sue, Lorenzo gli si avvicinò dicendo che avrebbe voluto parlargli. Carlo lo fece entrare in salotto, chiuse la porta, lo invitò a sedersi accanto al tLorenzo, e restò in attesa, con la testa incassata fra le spalle e gli occhi che si muovevano qua e là. «Volevo dirle che sua moglie sta molto male» cominciò Lorenzo. L’altro lo guardò quasi con stupore, poi disse: «lo so, è tanto tempo ormai che sta male». Allora proseguì: «il fatto è che le malattie peggiorano: ormai non ne avrà più per molto». Questo, evidentemente, non se l’aspettava. Lo guardò fisso, per un po’ in silenzio, poi gli chiese: «sta morendo?». «Non proprio» fu la risposta «però bisogna prepararsi, perché siamo vicini».
In teoria lo sapeva già, ma in realtà non voleva crederlo. E mentre si guardavano in silenzio, Lorenzo si chiedeva, con qualche apprensione, quali pensieri stessero passando per quella mente. «Che posso farci io» sentì che diceva sconsolato «sono completamente emarginato, mi trattano come un ragazzino capriccioso, non fanno altro che sgridarmi. Hanno ragione, hanno ragione, non dico di no, perché sono un ubriacone. Ma che posso fare d’altro?». Lorenzo provava una gran pena: per tentare di confortarlo si mise a balbettare qualcosa di generico, cercando anche di rendersi conto quale fosse la sua disponibilità d’animo, quando l’altro lo interruppe drastico: «lasciamo perdere le chiacchiere: io che devo fare?».
Cercò, allora, di fargli capire che la cosa più importante era aiutare Marta a vivere nel modo più sereno possibile quel poco tempo che le restava, e inoltre che i suoi figli erano pur sempre suoi, e una volta mancata la madre avrebbe avuto bisogno di migliorare i rapporti con loro. Per molto tempo quell’uomo disanimato tacque, poi, quando cominciò a parlare, spalancò d’un colpo le cateratte. I suoi ricordi venivano giù mischiati insieme, ma precisi. Trovarsi arrestato senza neppure sapere perché, le accuse che non capiva, le reticenze di alcuni superiori che temevano, forse, di compromettere qualcun altro, il crollo di fiducia nei confronti dei colleghi, la sensazione di essere stato abbandonato da tutti: un’allucinante odissea. C’era forse da meravigliarsi se non aveva resistito alle tentazioni dell’alcool? Quando, alla fine, erano arrivate le scuse assieme alla totale riabilitazione, il suo stato psicofisico era ormai compromesso irrimediabilmente. Ad un certo punto del racconto, Lorenzo aveva posato una mano sul suo braccio, per comunicargli solidarietà, e lui l’aveva stretta per un momento con una delle sue. Ma poi l’aveva scansata piuttosto bruscamente, come a sottolineare di non voler essere compianto.
Che dire, se non fargli percepire una sofferta partecipazione al suo dramma? Ma alle poche parole espresse per solidarietà alle tremende sofferenze che era stato costretto a subire, lui rispose inaspettatamente: «questo è niente, nella mia vita ho vissuto momenti ben più tragici». Stupito com’era, Lorenzo non riusciva a immaginare che altro avrebbe potuto raccontare, e mentre lo osservava, lo sentì dire con voce accorata: «quando avevo due anni mia mamma si è siucidata davanti a me, tagliandosi la gola». A questo punto anche Lorenzo si sentì smarrito: non sapeva che fare, gli veniva da piangere, allungò di nuovo una mano, e questa volta Carlo la prese e la tenne stretta fra le sue, mentre spiegava che di quella tragedia ricordava soprattutto il rosso della pozza di sangue, nel quale si era rivoltato per due ore, gridando, piangendo, carezzando la mamma, o anche tacendo spaventato, finché era finalmente giunto qualche parente.
Poco dopo la fine del racconto aveva cambiato atteggiamento, e dopo aver offerto al suo interlocutore un cioccolatino, si mise a descrivergli i dettagli dei numerosi bassorilievi in legno, appesi alle pareti, che lui stesso aveva intagliato tempo addietro. Erano, in verità, molto bene eseguiti, e si entusiarmava parlandone. Alla fine promise solennemente di rinunciare all’alcool: «lo so che sono stato io ad emarginarmi per poter continuare a bere, ma ora basta, mi potete credere».
Malgrado lo scetticismo dei familiari (l’ha promesso tante volte!) nei giorni successivi cominciò a tenere un atteggiamento responsabile, tanto da lasciar sperare che facesse sul serio. Lorenzo aveva raccomandato a tutti di coinvolgerlo di più, responsabilizzandolo, perché il sentirsi trattato come un bambino cattivo aveva evidentemente contribuito a rendere sempre più drammatico il suo abrutimento.
Marta si stupì molto quando seppe che gli aveva raccontato le sue disgrazie, soprattutto il suicidio della madre, argomento che aveva sempre rifiutato di affrontare con chicchessia. Interpretò il fatto come buon auspicio, mentre il marito continuava a tenere un comportamento positivo, quasi a volerne dare conferma. Quel nuovo clima, così disteso, dava a tutti un senso quasi d’incredulità. Carlo si mostrava molto affettuoso con la moglie, che ripeteva commossa: «da quanti anni i nostri rapporti non erano più così!» e tentava di ringraziare Lorenzo come se avessi fatto chissà che, mentre aveva semplicemente ascoltato: il resto era stata una conseguenza automatica. I figli, poi, erano proprio contenti: «speriamo che regga» dicevano, ma ormai sapevano che sarebbe dipeso anche da loro, dal modo di trattarlo. Intanto il tempo passava, Lorenzo era diventato intimo di tutti, ed era per lui un piacere andarli a trovare. Carlo gli parlava per ore dei suoi interessi d’un tempo, che poi erano svaniti, travolti dagli eventi. Aveva soprattutto un’eccellente manualità, e manifestava l’intenzione di riprendere a lavorare il legno.
Man mano che sentiva affievolirsi le forze, Marta si accorgeva sempre più che i suoi ultimi giorni scorrevano spietati, ma non si mostrava turbata. Non voleva cure palliative soltanto per non soffrire: se non servono a guarire o a fermare il male, non m’interessano, diceva. Il suo orizzonte era invece riempito dalla speranza nella ripresa del marito. «Continuasse così» diceva «me ne andrei proprio contenta». Era una donna di gran fede, ma con caratteristiche particolari. Raccontava del suo impegno per aiutare chi ne aveva bisogno, ma diceva anche di essere molto arrabbiata con Dio, perché lasciava che al mondo ci fossero tante tragedie. «Chissà se me la perdonerà» disse un giorno, e ad Lorenzo venne naturale rispondergli: «un padre è sempre contento quando i suoi figli sono arrabbiati con lui, soprattutto se è per stimolarlo a diventare migliore». Lei rise, aggiungendo: «speriamo».
Pochi giorni prima della fine si era reso necessario rinnovarle la tessera sanitaria, che era scaduta. Servivano due fotografie, ma lei rifiutò di lasciarsele fare in quelle condizioni: da qualche giorno avevano dovuto metterle un sondino naso-gastrico, e voleva aspettare il momento in cui glielo avrebbero tolto, per sostituirlo. Tutti assentirono, ma lei aggiunse ancora: «e prima dovete far venire la parrucchiera, perché con questi capelli non mi lascio fotografare».
L’ultimo giorno, quand’era già in coma, ad un certo punto la sorella le prese una mano cominciando a tagliarle le unghie. «Che senso ha?» le disse Lorenzo «non è meglio lasciarla in pace?». «Le unghie lunghe non le piacciono» rispose la sorella, mostrandosi subito dopo stupita di sentirsi replicare: «non avrà più tempo di accorgersene». Restò a lungo in silenzio prima di decidersi a smettere. Neppure un’ora dopo Marta cessò di respirare. Forse, finalmente, aveva cominciato a litigare col padreterno guardandolo in faccia.
Da qualche contatto avuto negli anni successivi con i familiari, risulta che Carlo non sia mai più stato violento, e abbia invece conservato un accettabile equilibrio. Il lungo e difficile cammino di ricostruzione continua ad accompagnarsi alla speranza.
Lucio
Una neoplasia mascellare, con recidiva locale dopo l’asportazione, aveva finito per deformargli il lato sinistro del volto al punto da renderlo simile a un massiccio montuoso, selvaggio e pieno di crateri. Non entrò mai in assistenza, ma Guido si recò da lui per una supervisione, insieme a un medico dell’équipe.
Manager teatrale, si poteva facilmente intuire il suo passato denso di successi dalle numerose fotografie appese alle pareti della sua villa, elegante e ben arredata, immersa in un piccolo ma rigoglioso parco. Abitavano con lui un figlio, la nuora e il loro bimbo che faceva la prima elementare. Era un uomo lucidissimo e angosciato, e ai tentativi di capire i motivi della sua disperazione rispose, con il tono dell’ovvio: «ma non la vedete la mia faccia? come potrei prendere ancora in braccio il mio nipotino?». Confessò di aver tentato più volte il suicidio, e mostrò i polsi segnati da diversi graffi: «mi sono massacrato con una lametta» disse «ma di sangue ne è uscito pochissimo. Si vede che non son neppure capace a morire!».
Giunse in quel momento il nipote, che era appena uscito da scuola, e gli portò a vedere un disegno, raccontandogli un sacco di cose, a dimostrazione dei loro buoni rapporti. Per la verità, il bambino sembrava assai poco disturbato dalla sgradevole faccia del nonno, ma evidentemente il malato era incapace di accorgersene, perché si valutava attraverso i propri occhi. Alla proposta di un programma minimo di sostegno, ringraziò educatamente ma rifiutò l’assistenza, aggiungendo che non voleva più essere curato, che preferiva star solo, che chiedeva a tutti di lasciarlo in pace nella sua disperazione. Lorenzo si offrì comunque di andarlo a trovare, anche solo per stare un po' insieme in silenzio, e lui rispose con un gesto che, lì per lì, parve d’approvazione.
Quando però la mattina dopo lasciò detto alla nuora, per telefono, di preannunciare una sua visita per il pomeriggio, si sentì richiamare quasi subito dal malato che rifiutò l’incontro, ripetendogli che preferiva essere lasciato nella sua solitudine. Evidentemente si erano conosciuti da troppo poco tempo per costruire quel tipo di rapporto confidenziale e coinvolto che può essere di grande aiuto negli ultimi momenti, ma che richiede un minimo di anticipo, e anche una certa calma. Ormai era troppo tardi, e un volontario non poteva far altro che rispettare, con molto dispiacere, la volontà del malato.
Tre giorni dopo telefonò la nuora per avvertire che era morto, presumibilmente da oltre ventiquattrore: non poteva dirlo con certezza perché lui non era più uscito dalla camera, e nessuno di loro aveva avuto il coraggio di entrare. Lorenzo si recò sul posto insieme a un collega: era ormai rigido come uno stoccafisso, e dovettero faticare non poco per lavarlo e vestirlo. Poi gli sistemarono sul volto un fazzoletto in modo da lasciargli scoperta solo la parte destra, e così, alla fine, il suo aspetto non appariva sgradevole.
Seminario sull'eutanasia alla
Fondazione Basso
Roma, 22 giugno 2000
Un ventaglio di scelte possibili
: intervento di Antonio Thellung
Non ho competenze specifiche sull'eutanasia, ma in compenso ho acquisito molta esperienza nell’assistere malati terminali. Ne ho assistiti parecchi, a centinaia, e ne ho visti morire diverse decine. Spesso mi sono trovato coinvolto profondamente, sia con il malato, sia con i familiari, perciò potrei dire di essermi fatto sul campo particolari competenze sulla sofferenza, che talvolta diventa veramente pesante da sopportare, tanto da suscitare inevitabilmente, talvolta, qualche riflessione sull’eutanasia. Conosco un buon numero di fatti accaduti e di reazioni conseguenti, che ho cercato di sintetizzare, per quanto possibile, sul mio libro intitolato Accanto al malato… fino alla fine, al quale rimando per le esemplificazioni.
In questo periodo si parla spesso di eutanasia, e più di una volta mi sono sentito chiedere se sono favorevole o contrario. Ma non saprei rispondere, perché quando ascolto qualcuno favorevole, le sue motivazioni mi sembrano ragionevoli. Ma quando sento le motivazioni di chi è contrario mi sembrano altrettanto valide.
Pochi giorni fa il Ministro della sanità, Veronesi, ha fra l’altro detto che certe volte l’eutanasia può essere un atto di carità. Qualcun altro ha subito reagito indignato, dicendo: «Ma come si permette?». Da parte mia, molte volte mi sono trovato in pesanti situazioni di sofferenza, e non mi vergogno a confessare che di fronte a casi veramente disperati ho più volte pensato: «Certo che se fosse possibile spegnere un interruttore, forse lo spegnerei». Il che non significa che lo avrei veramente fatto, ma soltanto che un simile coinvolgimento, capace di condurre emotivamente a tale stress, l’ho vissuto intensamente più volte.
Aggiungerei che, secondo me, in certi casi potrebbe effettivamente essere un atto di carità, ma questo non significa che automaticamente sia lecito farlo. A puro titolo di esempio, se conosco una persona in difficoltà e le do dei soldi per aiutarla a vivere, faccio un atto di carità; ma, se per procurarmi i soldi vado a rubare, o addirittura faccio una rapina in banca, allora il discorso cambia. L’atto di carità resta, ma gli altri aspetti costringono a valutare i fatti nella loro globalità.
Eutanasia significa «buona morte», parola che ormai si usa per dire «buona morte procurata», ma bisogna tener conto che nella realtà esiste anche una buona morte naturale, e che è possibile aiutare il malato a vivere fino alla sua maturazione, accompagnandolo, curandolo con adeguata terapia del dolore, offrendogli una vita di relazione finché è possibile, rispettando fino in fondo, e in tutti i sensi, la sua dignità. Credo indispensabile cercare questa visione d’insieme.
Ricordo di aver letto, in un libro che insegnava ad andare in alta montagna, una frase in due parti che mi è rimasta impressa. L'una diceva: «Ricordati, ancor prima di partire, che l’ultimo passo dipende dal primo», e la seconda: «ma ricordati pure che il primo passo dipende dall’ultimo». A me sembra molto significativa, nel senso che ogni passo avrà delle conseguenze sul futuro, e bisogna tenerlo presente; ma è anche necessario programmare il punto d'arrivo per poter decidere quali sono i passi da fare. Applicata a quanto ci interessa, se come punto d’arrivo si stabilisce che in caso di situazioni drammatiche si può applicare l’eutanasia attiva, la malattia verrà probabilmente affrontata già dall'inizio in un certo modo. Se invece si sceglie, come punto d’arrivo, di accompagnare il malato fino alla fine, affrontando eventualmente anche tutta la fatica che nasce dal non sapere quando il dramma finirà, ecco che si inizierà il cammino in modo diverso.
Vorrei esporre alcune considerazioni per illustrare meglio interrogativi e perplessità che sento emergere, per poi finire con una proposta. Un grosso problema è quello del consenso. Nell'interessantissimo libro del professor Spinsanti dal titolo: “Chi è padrone del mio corpo?” ci si chiede chi sia a decidere per me, mettendo in evidenza che quando c'è un malato sono in tanti a decidere al posto suo, mentre lui, in realtà, decide poco. Riguardo all'eutanasia si insiste molto sul consenso informato, ma bisognerebbe sgombrare il campo da molti equivoci, che di solito non vengono messi in evidenza. Di solito, all'inizio il malato si rivolge a un medico che comincia a curarlo secondo certi criteri, e magari poi lo manda altrove, da qualche specialista, che probabilmente tenterà altre cure. Quando la situazione comincia a farsi drammatica, sovente molte possibilità di cura sono già compromesse, e a quel punto non resta che proseguire sull'unica strada ormai possibile. A monte invece, se ci fossero state informazioni approfondite sulle varie ipotesi, il malato avrebbe forse potuto dire: “preferisco seguire questa anziché quell’altra”.
Oggi la legge sul consenso informato stabilisce che il paziente deve autorizzare direttamente le cure, le analisi e gli interventi, ma come viene applicata? Come esempio posso offrire una testimonianza personale: poco tempo fa una persona che conosco bene è stata ricoverata per due mesi in ospedale. Non aveva sintomi particolari. È entrato per sottoporsi a semplici indagini mediche, ma poi gli è stato diagnosticato un tumore. Hanno cominciato a fargli analisi ed esami di vario genere (qualcuno anche piuttosto cruento), e l’hanno anche sottoposto a due interventi chirurgici, chiedendogli un mucchio di autorizzazioni: gli sottoponevano un modulo che lui ha sempre firmato senza nemmeno guardare. Una volta gli ho chiesto che cosa stesse firmando, e lui mi ha risposto: “Dicono che bisogna firmare perché lo stabilisce la legge, e se non firmi non ti possono fare l’esame”. Un'altra volta l'ho esortato a leggere ciò che firmava, e mi ha risposto: “Qui sono bravi e io non ne capisco nulla: se mi dicono che c’è da fare questo o quello, lo faccio”. Insomma, ha sempre firmato senza sapere di che cosa si trattava. Non solo, ma nella stanza dov'era ricoverato c’erano otto letti, e ho constatato che tutti si comportavano allo stesso modo.
Mi verrebbe da dire: la legge è una bellissima cosa che dovrebbe tutelare l’ammalato, ma da chi? Ovviamente da eventuali medici poco seri, perché quelli seri si impegnano per il suo bene e non hanno bisogno di un foglio scritto per farlo. Tuttavia questo tipo di consenso finisce per offrire uno scarico di responsabilità proprio ai medici poco seri (che per nostra fortuna sono pochi, o almeno speriamo!). Perché un medico poco serio, se ha in mano un foglio d'autorizzazione firmato potrebbe anche azzardarsi a fare sperimentazioni sul malato, tanto può sempre sostenere di aver avuto il suo consenso.
Insomma, il consenso è d'importanza estrema, e tuttavia l’applicazione pratica della norma resta un punto interrogativo. Per questo il professor Spinsanti propone di adottare un modulo particolare nel quale il malato dovrebbe scrivere alcune cose atte a dimostrare che ha capito di che cosa si tratta. Proposta che risolverebbe alcuni problemi, ma non altri. E in proposito vorrei fare un altro esempio: mio fratello è morto a causa di un tumore al cervello. L’hanno operato e ha vissuto ancora per alcuni anni; poi il tumore si è riformato e ben presto ha finito i suoi giorni. Lui voleva sapere tutto e mi aveva coinvolto nell’indagine dicendo: “Io sono il malato, e può darsi che a me dicano le cose a metà, mentre io voglio sapere come stanno effettivamente le cose per decidere di conseguenza”. Né i medici interpellati né io gli abbiamo nascosto nulla, e si può dire che sapeva esattamente tutto, tranne una cosa: non ha voluto assolutamente capire, forse per una sorta di difesa psicologica, che ci sarebbe stata comunque una recidiva. Di fronte a un'operazione molto rischiosa aveva detto: “Si, mi voglio operare, perché se va male ci resto, ma se va bene è finita per sempre”.
A quel punto sono entrato in crisi perché sapevo quel che lui rifiutava di sapere, pur avendo sentito dal chirurgo le stesse cose che avevo ascoltato anch'io. Allora mi sono chiesto angosciato: che cosa faccio adesso? Lo prendo per il bavero della giacca, lo scuoto e gli dico: “Guarda che non è vero che ti puoi liberare per sempre del tumore, perché tra qualche tempo si riformerà”? Per me è stato un dilemma tremendo, e per questo penso che da un lato il modulo di Spinanti potrebbe andar bene, mentre dall’altro temo possa scippare qualcuno dal minimo di speranza (foss'anche illusione) che vuole avere.
Senza contare, poi, che ci sono persone che di fronte a problemi drammatici scelgono altri comportamenti. Mi spiego con un esempio abbastanza recente: c’è una famiglia che conosco bene (composta da parecchie persone, compresi nonni e zii) che ha scoperto al suo interno una malattia genetica, di quelle che possono talvolta degenerare fino a farsi molto gravi. Tutti i componenti della famiglia si sono sottoposti ad analisi; scoprendo che alcuni ne sono affetti: naturalmente può essere spiacevole saperlo, ma ovviamente è assai più facile tenere la situazione sotto controllo. Ci sono anche parenti più lontani che potrebbero essere coinvolti in tale malattia genetica, e io sono stato incaricato di informare il capostipite di una famiglia parallela di questo rischio, e quindi dell’opportunità di fare alcune analisi di controllo. Dopo aver iniziato il colloquio per dare questa informazione, ho avuto l'impressione che il mio interlocutore si distraesse, portando il discorso su tutt'altre cose. Poco più tardi, allora, ho ripreso l'argomento dicendogli: “forse non ci siamo capiti, ti devo dire una cosa di grave importanza”. Ma questa persona mi ha replicato: “Non voglio capire e non voglio sentir parlare di queste cose”. Mi domando: che fare in questi casi? Si può obbligare qualcuno a sapere quel che non vuole?
Esiste oggi anche una legge sul consenso per la donazione degli organi, ma non sarebbe il caso di chiedere anche il consenso ad essere attaccato a un respiratore in caso di incidente? È noto il fatto di quel signore che è stato addirittura condannato per omicidio premeditato per aver staccato il respiratore a sua moglie, in coma irreversibile da molto tempo. Che significa questo? Che una volta attivato un respiratore non lo si deve staccare mai più? Che cosa c’è di naturale a vivere attaccati a un respiratore? E mi domando: come mai prolungare artificiosamente la vita è considerato moralmente lecito, mentre intervenire per porre fine alle sofferenze dev'essere considerato un crimine? Naturalmente questi sono solo interrogativi, intendiamoci bene.
Ma stando così le cose, visto che una volta attaccato il respiratore si è condannati a non poterlo più staccare, allora preferisco tenere in tasca una lettera nella quale esprimo la mia ferma volontà, in caso di incidente, di non venire attaccato a un respiratore. Ho conosciuto famiglie che hanno avuto la vita sconvolta da fatti analoghi, e non è tollerabile che un'invenzione tecologica, nata per il bene dell’umanità, possa trasformarsi in una condanna senza appello. Qui c’è qualcosa che non quadra.
Nel ventaglio delle scelte possibili, credo che l'eutanasia non sia né la migliore né l'unica. Penso piuttosto che sia possibile e valida una “buona morte accompagnata”, e lo dico perché più volte ho sperimentato questo accompagnamento fin sulla soglia. L'Associazione Ryder Italia, di cui faccio parte, assiste malati di cancro terminali al loro domicilio, con medici, infermieri e assistenti volontari di supporto. Io presto la mia opera di volontario e posso testimoniare che sovente i risultati sono eccellenti. Naturalmente ci vuole una preparazione ad hoc, ma soprattutto bisogna avere molta dedizione per raggiungere buoni risultati. E tuttavia non c'è bisogno di essere dei marziani per farlo: basta un pizzico di disponibilità, e il resto s'impara.
Alcuni esempi su casi che ho conosciuto personalmente. Ricordo una signora che aveva il marito giunto agli ultimi giorni. Lo avevano dimesso dall’ospedale, e due giorni dopo l'entrata in funzione della nostra équipe mi ha confessato: “Ero disperata, perché non sapevo assolutamente come affrontare questo problema, non avevo idee, e quando l'hanno dimesso dall'ospedale non mi avevano spiegato nulla. Poi siete arrivati voi e ho visto che sapete quel che bisogna fare. E allora, pur restando disperata, il mio stato d'animo si è tranquillizzato, perché capisco che quello che c’è da fare viene fatto”. Non mi sembra poco.
Ricordo poi un malato che parlava di suicidio e diceva che non c’è più dignità quando le sofferenze sono così disumane. Abbiamo condiviso a lungo sull'argomento, e io cercavo di riconoscere le sue ragioni, aggiungendo però che perfino in tali momenti drammatici possono esserci aspetti positivi. A volte riuscivo a farlo sorridere, magari facendo qualche battuta. Questo malato aveva una moglie che lo curava con tanto affetto, ed a un certo punto, come se qualcosa improvvisamente glielo avesse ricordato, mi ha detto: “Certo, è vero: questa esperienza di infinita tenerezza non l’avrei conosciuta, se non fossi stato così malato”. Anche nei drammi più crudi si possono riconoscere dei valori positivi.
Un terzo significativo esempio è quello di un amico, al quale ero molto vicino, che ormai aveva il tempo segnato. Allora abbiamo organizzato insieme un seminario sulla morte, durato 3 o 4 mesi, per prepararci insieme. Lui se n’è andato mentre per il momento io sono ancora qui, ma questa esperienza è stata per me determinante. Ora mi sento molto più preparato, proprio perché insieme a lui ho fatto questo seminario. Certo non tutti gli esempi che potrei fare sarebbero equivalenti a questi, ma buona parte sì. E se a volte ci sono stati anche taluni insuccessi, nell'insieme si può fare moltissimo. È importante saperlo, per non sottrarre alla vita quello che può dare perfino nei momenti di sofferenza.
Infine, mi chiedo se il problema dell’eutanasia abbia una dimensione di massa o sia solo un problema di pochi. Un interrogativo importante, credo, perché non vorrei che, in realtà, sia un argomento che interessa solo un numero ristretto di individui, una certa élite, e in questo caso mi sembrerebbe giustificato il timore che una volta fatta una legge in proposito, la sua applicazione venga proposta anche là dove non se ne avverte la necessità, là dove le persone potrebbero non essere ben consapevoli, coscienti e preparate.
Mi pare che anche in Olanda, malgrado sia stata legalizzata, si dice che in circa un terzo dei casi di eutanasia avvengano senza autorizzazione, perché applicata a malati di mente che si ritiene non possano dare un consenso reale. Questo lascia molto perplessi. Tra l’altro, si dice che le statistiche siano difficili da costruire, perché i medici olandesi spesso non denunciano quest’abuso. Allora mi domando: ma se i medici olandesi non li denunciano, chi ci garantisce che i nostri medici non facciano altrettanto? Il rischio è che una cultura dell’eutanasia finisca per diventare ricerca di una soluzione facile. Eppure l’assistenza a domicilio, tipo quella di cui ho parlato e che ormai è ampiamente documentata, ha dei costi molto ridotti rispetto a quelli ospedalieri. Allora, mi domando, perché non potenziarla? Perché non rivoluzionare questo settore della sanità? Tra l'altro, assistere i malati a casa loro sarebbe anche un modo brillante per alleggerire gli ospedali. In moltissimi casi, con un'adeguata assistenza a domicilio, quell’angoscia che porta a propendere per soluzioni drastiche come l'eutanasia, potrebbe essere superata.
La mia opinione, per concludere, è che dal punto di vista della morale sociale applicata, e non di un moralismo astratto, credo che sarebbe doveroso mettere in atto tutto quello che si può per assistere i malati terminali nel modo migliore, per continuare a dar loro una dignità e una qualità della vita accettabile, finch'è possibile, cercando di accompagnarli fino a una buona morte naturale. Questa è la proposta che vorrei fare ai politici e agli operatori sociali: impegniamoci tutti insieme a costruire strutture e organizzazioni che garantiscano quest’aspetto. Poi, ma soltanto dopo, sarà moralmente lecito parlare di eutanasia, e vedere se restano casi particolari, certamente minoritari, nei quali una tale ipotesi possa avere un senso positivo e incontrare un consenso reale. Altrimenti il rischio è di cercare una soluzione facile, cosa che sarebbe davvero intollerabile.
Intervista rilasciata a Maurizio Blondet su Avvenire del 2 aprile 2002
«Parlare di consenso del paziente per procedere è ambiguo.
Nella mia esperienza sul campo non ho mai avuto richieste di farla finita»
«Ma così si sceglie la via più semplicistica»
Lo scrittore Thellung: manca una cultura dell'accompagnamento del malato alla morte
«La famiglia in queste situazioni è semplicemente smarrita
e ha bisogno di essere guidata»
«Ho partecipato a molti seminari e incontri, in cui si discuteva anche di eutanasia», racconta Antonio Thellung: «e finché se ne parla in teoria, è difficile capire chi ha torto e chi ragione. È nella pratica, nell'assistere da vicino il malato terminale, che appare la complessità della condizione umana in prossimità della morte. E la regolazione per legge appare la via più semplicistica. Troppo».
Saggista, scrittore, professionista e intellettuale, Antonio Thellung è impegnato da anni nel sostegno ai malati senza speranza. Ha raccolto le sue esperienze in un libro (Accanto al malato sino alla fine, editrice Ancora). «Tante, tante esperienze, terribili, drammatiche», rievoca, «mai una volta però mi è giunta dal malato una richiesta di eutanasia».
Eppure la legge olandese fa leva sul "consenso" o la "richiesta" del malato, come fossero molti a chiederlo.
«Il consenso è una cosa terribilmente ambigua, in ospedale. Quante volte ho visto chiedere il consenso informato a cure di cui il paziente capisce nulla, semplicemente con un "firmi qui". Spesso è uno scarico di coscienza per il medico».
Scarico di coscienza?
«Specie di fronte al malato terminale. Perché vede, la medicina oggi prolunga la vita con tutte le sue macchine e tecniche. E al malato terminale, prolunga la sofferenza. E il medico stesso non sa, non trova il confine tra la cura legittima e l'accanimento terapeutico, resta prigioniero della sua tecnica, dei respiratori... Bisogna avere il coraggio di non prolungare artificialmente la vita. Questa non è eutanasia. Quello che manca è una cultura dell'accompagnamento del malato alla fine. Vede, il malato si sente solo, abbandonato».
E da lì nasce la "richiesta" e il "consenso" a farla finita?
«Se sente condivisa la sua sofferenza, se in essa trova una dignità e uno scopo, non chiede mai di farla finita».
Una dignità nella sofferenza, nella non-autosufficienza? Difficile.
«Eppure non sa quante volte è bastato dire a un malato che si sente inutile, di peso ai suoi: inutile tu? Proprio ora, dal modo in cui affronti i tuoi ultimi giorni, tu puoi insegnare ai tuoi figli, a chi ti sta attorno, cose molto più essenziali di quando eri sano e forte. Quando capiscono di avere ancora una scopo, affrontano qualunque sofferenza. Ovviamente, io non sono per le sofferenze inutili: oggi esistono cure palliative che possono ridurle».
Ma non è un ingannarli, i terminali?
«Al contrario: lei non sa quanto ho appreso da loro. Quante esperienze straordinarie abbiamo fatto insieme. Una donna, molto credente e molto impegnata, mi diceva la sua rabbia: "Sono arrabbiata con Dio"».
In molti, di fronte alla morte, si sviluppa questa rabbia.
«Ebbene: insieme, siamo giunti alla conclusione che è bene essere "arrabbiati con Dio". Un genitore desidera che suo figlio si arrabbi con lui, che sia vivo il loro rapporto, conflittuale. Ci sono cose da mettere in chiaro con Dio? Bene, mettiamole in chiaro: ecco la conclusione cui è giunta quella donna: e con quanto spirito, persino con quanto umorismo».
Umorismo?
«...a un altro (era un mio amico, assistente di malati lui stesso, poi colpito da tumore all'intestino) ho detto: hai le ore contate. Anch'io ho le ore contate. Se vuoi, prepariamoci insieme a morire. L'abbiamo fatto per quattro mesi: un corso di preparazione alla morte, cui partecipava anche la moglie. Qualcosa che ci ha arricchito tutti».
Già, le mogli, la famiglia. Non sono loro a chiedere l'eutanasia?
«La famiglia è semplicemente smarrita. Non sa cosa fare, appunto perché manca quella cultura, i medici stessi non sanno insegnare come "accompagnare" alla fine... Eppure io ho visto anche questo: donne divorziate da anni tornate a curare il marito terminale, un alcolizzato che durante l'agonia della moglie è ridiventato sobrio, affidabile e responsabile per assisterla».
Strana, la vita. Può diventare piena di senso proprio lì, in quelle condizioni.
«Per questo dico: eutanasia? Non sono né pro né contro. Ma bisogna vedere la realtà, prima di decidere. E si decida solo dopo aver fatto quel che è veramente possibile per eliminare i problemi che fanno nascere la "richiesta": la solitudine, l'abbandono al non-senso, l'essere trattati come appendici passive del respiratore... Solo allora si può decidere. Ma i casi che restano allora, ne sono convinto, sono pochissimi».