Una Chiesa a più voci
Ronco di Cossato 5 giugno 2009
Per imparare ad amare
rielaborazione scritta
Buona sera a tutti e grazie di avermi invitato: ricordo con molto piacere le precedenti giornate passate qui con voi, con questa comunità così viva e vivace. Il titolo della conversazione di questa sera è forse un po' azzardato e fa venire i brividi: per imparare ad amare. Ma noi che siamo degli incoscienti l'affrontiamo lo stesso e proviamo a vedere se ne verrà fuori qualcosa d'interessante. Per entrare in argomento partirei da una domanda preliminare: è obbligatorio amare? E risponderei che non lo è per sopravvivere, ma se si aspira a una vita piena, ricca, degna di essere vissuta, allora credo che amare sia indispensabile, sia d'importanza capitale. Ma qui nasce subito una seconda domanda che ciascuno deve fare spassionatamente a se stesso: mi interessa amare? E la risposta non è così scontata, anche perché la stessa parola amore è sovente usata in modo equivoco e ambiguo. Se proviamo a chiedere a qualsiasi persona se vuole essere felice, risponderà in modo affermativo, a parole, ma poi nei fatti moltissimi, forse la maggior parte delle persone, tengono comportamenti tali da renderlo impossibile. Potrei anche dire, in un certo senso, di aver girato il mondo chiedendo via via alle persone che incontravo: tu vuoi essere felice? E di essermi sentito per lo più rispondere: felice io? No grazie. Perché in teoria tutti rispondono di sì, ma poi di fatto tengono comportamenti distruttivi e contraddittori. Facciamo un paragone tanto per capirci meglio. Io conosco bene alcune persone che sono molto determinate sul versante della sanità alimentare, sono molto attente nella scelta dei cibi (di qualità biologica controllata) e rifiutano di mangiare certe cose e di andare in certi ristoranti che "ti avvelenano". Si direbbe dunque che hanno molto a cuore la propria salute, ma poi fumano, dimostrando così che il loro interesse alla salute non è reale ma, direi, ideologico. Che senso ha temere intossicazioni alimentari quando quotidianamente e volontariamente ci si sottopone a un assai più forte avvelenamento sistematico?
Così proviamo a chiederci: mi interessa amare? Se, ad esempio, m'interessassero tanto i soldi, la carriera, il potere di qualsiasi tipo, insomma se m'interessasse prevalere sugli altri, magari senza dirlo esplicitamente, ma in forma subdola, in maniera surrettizia, allora risulterebbe chiaro che l'interesse ad amare sarebbe solo teorico, e porsi il problema d'imparare ad amare sarebbe del tutto fuori luogo. Perché amare sarebbe un ostacolo agli obiettivi che starei inseguendo. Pensiamo, ad esempio, ai vari aspetti dl trionfalismo presente in molti versanti della vita sociale, compreso quello religioso, che in ultima analisi è gioire del male che deriva all'avversario o al nemico: altro che amarli, come tenta d'insegnarci Gesù da duemila anni.
Fatte queste premesse, e posto che la risposta sia concretamente affermativa: sì, mi interessa amare, c'è dunque da chiedersi: come si può fare per imparare ad amare? Si può imparare? O l'amore è solo qualcosa che sorge spontaneamente? È proprio vero che all'amore non si comanda? È fuori dubbio che talvolta sorga una qualche attrattiva spontanea, misteriosa e ingovernabile, ma quella è soltanto un auspicio, un'ipotesi d'amore che si consoliderà solo se col trascorrere del tempo affiorano e si confermano gli elementi adatti. Perché l'amore, quello vero e profondo, è come un giardino, che per restare ricco di fiori e piante ha bisogno di essere coltivato a dovere. E questo si può imparare a fare. Ma per imparare bisogna conoscere bene come si comporta l'essere umano nel suo profondo intimo, e come si muovono i meccanismi che lo compongono. Conosci te stesso era l'antica esortazione dei greci, valida tutt'ora.
Tutte le tradizioni mistiche, orientali e occidentali, parlano del nostro ego prigioniero all'interno del nostro essere, e della necessità di liberarlo. Perché due direzioni di marcia sono a nostra disposizione: rinforzare sempre più le barriere a sua difesa, oppure portarlo al di fuori di noi per incontrare altro e altri. Un antico racconto parla di un individuo venuto al mondo che sente battere contro il guscio che lo avvolge, si spaventa, e lavora tutta la vita per rinforzarlo, finché alla fine, indebolito, non riesce a evitare una crepa attraverso la quale scorge un volto che lo guarda e sorride. Ma ornai è troppo tardi per creare nuove relazioni. Il senso è chiaro: chiusi nel proprio ego si potranno ottenere risultati di vario genere, ma l'amore non trova posto perché l'amore è relazione, e pone il centro al di fuori di sé, nell'altro, comunque inteso. L'amore mette il suo centro nel tu, esce dall'ego, che non sarà più il mio centro, se amo.
Questo bisogna capire che l'individualismo, alla lunga, è morte, e per amare bisogna uscire da se stessi, cosa talvolta molto dolorosa. Eppure per amare bisogna spostarsi, uscire dal proprio centro egoico, porre il proprio centro altrove, diventare degli "spostati" (col rischio di non essere più riconosciuti da molte persone del proprio ambiente). In altre parole bisogna cominciare con lo svuotarsi di tutti i luoghi comuni, di tutte le informazioni abituali che immagazziniamo attraverso il gossip quotidiano, di tutto quello che ci tiene imprigionati in una logica di contrapposizioni, per addentrarsi nell'affascinante, tumultuosa, entusiasmante giungla dell'amore.
Un istruttivo racconto Zen narra di un tale che va da un maestro e gli chiede di ammetterlo alla sua scuola. Il maestro, senza dire una parola, gli pone davanti una tazza e comincia a versargli il te, proseguendo anche quando è ormai colma. L'allievo allora gli dice: ma che fai? Non vedi che la tazza è piena? E il maestro: anche tu sei pieno, come faccio a insegnarti qualcosa se prima non vuoti te stesso?
Ecco il primo punto: svuotare se stessi per far posto al nuovo, altrimenti qualsiasi cosa rimbalza e non produce effetto. In realtà, tutto il pieno d'informazioni standard che ogni giorno ci viene riversato addosso ci crea attorno una patina di luoghi comuni che rischiano di bloccarci nell'esistente, impedendo la nascita del nuovo. Tutto viene classificato attraverso certi schemi nei quali la parola nuova è assente, perché va appunto oltre qualsiasi schema. Questo vuol dire che per giungere dove non si sa, bisogna anche passare per dove non si sa, e questo crea timori. Un qualsiasi esploratore di una qualsiasi giungla sa di dover affrontare dei rischi, ma il fascino di nuove scoperte gli fa superare gli ostacoli creati dalla paura. Ma non è così facile, e si può dire che una delle maggiori difficoltà per imparare ad amare è proprio la paura di amare. Spesso ci troviamo prigionieri di questa paura perché, ad esempio, se amo e non ricevo il reciproco, allora soffro e sto male. Perciò la tendenza istintiva è di trattenersi, anziché lasciarsi andare. Ma l'amore trattenuto non è possibile. E poi c'è anche il timore che il buttarsi avanti venga male interpretato, come un'invadenza di campo. Ma non è solo questo, c'è anche la paura di essere amati, cosa molto impegnativa e stressante, perché se rispondo positivamente rischio di trovarmi invischiato in un legame che mi imprigiona, e rispondere negativamente può essere fonte di rimpianto o imbarazzi. C'è perfino la paura di perdere se stessi, la propria identità, il che non è affatto vero, perché ciascuno di noi non è un essere statico, ma una realtà dinamica chiamata a non sprecare la propria potenzialità difendendosi dalle possibili evoluzioni. La parabola dei talenti insegna. Personalmente mi sento affascinato dal mistero e la scoperta del nuovo mi attira, perciò mi sono creato un aforisma che mi ripeto spesso: "non so dove vado, ma ho deciso di andarci".
Per fare un esempio legato alla parabola di coppia che vivo con mia moglie, mi piace dire che noi siamo diventati un duale (prendendo a prestito il modello dalla lingua greca che oltre a singolare e plurale aveva anche il duale per indicare l'unità di coppia). Cioè nella lunga maturazione comune del nostro amore che dura ormai da quasi sessant'anni, non abbiamo affatto perso le nostre singole personalità, ma le abbiamo sviluppate enormemente, in un modo che sarebbe stato impensabile senza quel profondissimo coinvolgimento reciproco che ha mutato radicalmente le nostre singolarità. Insomma, abbiamo assunto nuove personalità che non è possibile conoscere se si resta legati all'individualismo.
Il timore ad amare può manifestarsi in tanti modi. Ricordo una ragazza che mi diceva: amare è concedere il diritto a essere calpestata. Chissà quali esperienze negative aveva subito, poveretta! Ricordo anche un tale che mi diceva: ma cosa me ne faccio dell'amore di un altro? Evidentemente considerava l'amore come un oggetto, e non come uno stato d'animo creativo.
Comunque sia, ce n'è abbastanza per capire che il centro della posta in gioco non è ricevere amore, ma amare. Non un atteggiamento passivo ma attivo. Si può dire che si possono coltivare due versanti: motivazioni e gesti, che è come dire: convinzioni e comportamenti. Prima di analizzare i due aspetti, però, è fondamentale richiamarsi all'insegnamento di Gesù, quando esortava ad amarsi come lui ci ha amato, riferendosi con molta chiarezza non tanto al sentimento d'amore (che solo ciascuno conosce nel proprio intimo) ma a gesti d'amore applicato che tutti possono vedere: aiutare chi è nel bisogno, sanare le ferite, coinvolgersi concretamente nei problemi. Nei gesti l'ambiguità della parola amore scompare, o almeno si ridimensiona di molto, perché mentre col sentimento ciascuno deve fare i conti personalmente, i gesti d'amore applicati possono essere verificati e condivisi oggettivamente. E chi si trova in difficoltà ha bisogno di gesti.
È vero che i gesti si possono compiere anche per motivi strumentali, per farsi belli, per ipocrisia, per ricevere in cambio qualche beneficio, cosa molto significativa per chi li compie, perché se non c'è il sostegno di una vera convinzione tali gesti non saranno ripetuti. Ma il sentimento senza gesti sarebbe incomprensibile e, probabilmente, artificioso e insincero. Come per tutto il resto, l'amore si misura sui frutti, unica realtà capace di togliere l'ambiguità alle parole.
Se passiamo dal teorico al pratico, spuntano subito le dolenti note. I cristiani, ad esempio, sono tenuti ad amare i nemici, e di fronte a una domanda precisa nessuno di loro confesserebbe di non amarli, di non volerli amare. Le risposte più comuni sono: non auguro loro del male, vorrei che si convertissero, spero che tra loro vivano in pace, però…. però…. Se ne stiano a casa loro, lontani, senza crearci fastidi. Oggi i principali nemici sono gli immigrati, e qui non ho alcuna intenzione di entrare sul versante sociopolitico, ma credo che ogni cristiano si dovrebbe porre concretamente, col cuore in mano, la domanda: che cosa significa amare gli immigrati? Credo sarebbe estremamente importante riflettervi spassionatamente, accantonando i pregiudizi di qualsiasi tipo, perché di tratta di un problema destinato ad accentuarsi sempre più col passare del tempo.
Per tentare di capire meglio a me piace modificare un po' i termini sostituendo alla parola nemico, che per molti può risultare un po' astratta, con la parola antipatico. Tutti soffriamo di simpatie e antipatie, ma che cosa vuol dire amare gli antipatici? È noto che l'antipatico viene abitualmente respinto, maltrattato, deriso, emarginato, col risultato di renderlo sempre più antipatico. Chi si propone di amarlo, invece, che cosa potrebbe fare? Per esempio potrebbe dirsi: adesso gli telefono, lo invito a mangiare insieme una pizza, e proverò a trattarlo come una persona simpatica. Chissà che sentendosi trattato bene (cosa a cui non è abituato) non si decida a diventare più simpatico davvero! In conclusione, insomma, amare gli antipatici significa, concretamente, aiutarli a diventare più simpatici, così come amare i nemici significa aiutarsi a vicenda a eliminare i motivi d'inimicizia per promuovere, come minimo, una convivenza accettabile da entrambi.
Lo stesso argomento, con le dovute proporzioni, vale anche nel rapporto coniugale, perché sovente i difetti dell'altro (o presunti tali) sono visti come nemici da abbattere. E invece, se si vuol essere costruttivi, se si vuole coltivare sul serio l'amore, allora gli elementi di contrasto devono essere accolti per lavorarci assieme senza pre-giudizi. È solo se si lavora attivamente per trasformare le divergenze che si possono scoprire nuove opportunità. E si può scoprire che un difetto talvolta è addirittura l'altra faccia di un pregio.
Insomma, si potrebbe dire che il sentimento non s'impara, ma si può imparare a coltivarlo, e quindi a farlo crescere e consolidarlo. Si può imparare a compiere e coltivare i gesti d'amore applicato. Ma per poterlo fare bisogna rispondere inequivocabilmente a un'altre domanda: sono convinto che ne valga la pena? Sono veramente convinto di voler imparare ad amare? Di voler essere felice? Prendiamo ad esempio, nella coppia, la pretesa radicata nella mentalità comune che debba essere sempre l'altro a muoversi per primo: "se tu (eccetera eccetera) allora io…… ". Ma possibile, mi dico, che non sia possibile scegliere e assumere un comportamento corretto e dire al coniuge: ho deciso di comportarmi così, senza lasciarmi fuorviare da rivalse e ripicche. Se tu farai altrettanto, allora riusciremo certamente a costruire insieme. Altrimenti rischieremo di distruggere il nostro rapporto, la nostra vita.
Chi vuole veramente essere felice che cosa fa? Guarda a chi mostra di essere felice, guarda agli esempi che incontra, e cerca di capire come hanno fatto a raggiungere tali risultati. Poi si pone il problema di comportarsi in modo analogo, tenendo conto delle dovute differenze. E qui siamo al punto chiave: comportarsi come se…. Facciamo un esempio: immaginiamo di essere depresso, triste, scoraggiato per qualche contrattempo. Se provo a comportarmi come se fossi allegro, dopo un po', probabilmente, mi scoprirò più allegro, almeno in parte. Si tratta di fatti sperimentati, e ben noti in campo psicologico nelle terapie comportamentali. Se capisco che sarebbe bello dare una mano agli altri, a chi è nel bisogno, ma non ne avrei tanta voglia perché penso sia faticoso, e tuttavia provo a farlo, a comportarmi come se ne avessi voglia, per esempio impegnandomi in qualche forma di volontariato, ben presto potrei scoprirmi addirittura entusiasta della scelta fatta, e accorgermi di essere assai più disponibile di quanto pensassi. Così, se mi comporto come se fossi felice finirò per diventarlo, per scoprire di esserlo.
Il diventare, comportandosi come se, vale nei due sensi. Per fare un esempio tragico, al tempo dei nazisti c'erano le famigerate SS formate da persone d'origine normalissima che erano diventate capaci, all'occorrenza, di essere spietate e crudeli. Come mai? Semplice: venivano reclutate con abbondante retorica sulla necessità di dedicarti in pieno al servizio della patria, poi venivano formate in una scuola che era una vera e propria educazione alla crudeltà, cominciando come per gioco, ridendo e scherzando come fanno i ragazzi, a seviziare in qualche modo taluni animali, finendo per far credere loro, nell'intimo, che agli esseri inferiori si può fare qualsiasi cosa, anzi, che si può trarne motivo di divertimento. Poi è bastato insinuare attraverso una propaganda subdola e martellante che certi esseri umani sono di razza inferiore, formata da persone incivili, e il gioco è fatto. Comportandosi per qualche tempo come se fossero degli esseri crudeli, i membri delle SS diventavano spietatamente crudeli. Terribile, non c'è che dire, ma l'esempio ci serva almeno per scegliere di comportarci in modo virtuoso, per diventare persone capaci di esprimere valori positivi.
Sant'Agostino diceva: ama e fa' quello che vuoi, ma attenzione a non scadere nella confusione di qualche ingenuo, che pone a fuoco "quello che vuoi" come se fosse qualcosa di comodo e svalutativo. E invece "ama" è il punto chiave, perché se ami veramente il tuo comportamento sarà senz'altro positivo, e compirai gesti d'amore. Amando si scopre che il proprio interesse coincide con l'interesse altrui, che interesse personale e collettivo sono un tutt'uno. Perché, mi chiedo, qual è il mio vero interesse, quello profondo che mi dilata il cuore? Non è forse vivere in un'atmosfera di pace e di serenità? E come potrei respirare una tale atmosfera se attorno a me ci fossero persone arrabbiate, rancorose, tristi, depresse? Perciò capisco che se voglio essere felice devo impegnarmi a fondo per aiutare le persone attorno a me a essere o diventare felici. Se saranno felici sarò felice anch'io: è una conseguenza automatica. Se amo, susciterò amore: è una conseguenza automatica. In questa ottica diventa positivo tutto quello che aiuta ad amare meglio.
Che questo atteggiamento funzioni egregiamente anche nel rapporto coniugale è assolutamente dimostrato, ed è quello che mi ha portato a concludere che il segreto sta nell'imparare a litigare tenendosi per mano, perché ipotizzare che nel matrimonio non ci siano conflitti è pura utopia, dal momento che i conflitti sono un aspetto fisiologico dei rapporti umani. Il disastro, però, è che si litiga male, malissimo, finendo per trasformare delle normali divergenze in cruenti duelli dove diventa importante colpire l'avversario per sconfiggerlo e sottometterlo, anziché prenderlo per mano, sottolineare il cammino comune, diventare capaci di discutere anche accanitamente, ma restando sull'argomento in oggetto, senza sparare a zero su tutto, sottolineando che il percorso resta comune, evitando il rischio di rovinare i tanti legami positivi consolidati nel tempo.
Non c'è il coraggio di dire: un momento, prima di litigare guardiamo al positivo, a tutto quello che ci lega, a tutto quello che merita di essere salvato: stiamo attenti a non rimetterlo in discussione, a non incrinare il rapporto. Detto questo, identifichiamo il punto del disaccordo e lì possiamo anche scontrarci, ma su tutto il resto sia chiaro che continuiamo a camminare insieme. Ecco come si fa a litigare tenendosi per mano. E tuttavia se c'è un punto di disaccordo, quello non può essere taciuto e ignorato pro bono pacis, altrimenti riaffiorerebbe domani, dopodomani, o chissà quando, perché resterebbe qualcosa d'irrisolto che cova sotto la cenere, innestando rivalse e ripicche fino a diventare destabilizzante. Ma se sapremo tenerci per mano anche nelle divergenze, riusciremo in qualche modo a superarle e a costruire insieme un altro pezzetto di cammino.
Il rapporto d'amore (ma con le dovute proporzioni anche qualsiasi rapporto d'amicizia) a me piace vederlo come una collaborazione artistica, nel senso di coltivare il bello insieme. Prendiamo ad esempio il rapporto tra mamma e figlio. Salvo casi anomali assolutamente eccezionali, qualsiasi mamma si accorge che con la nascita di un figlio la sua vita cambia, e comincia a sperimentare un tipo di rapporto nuovo, mai conosciuto prima. Una donna può essere senza figli, ma una mamma non potrà mai più essere senza figli, non potrà mai più tornare indietro: il rapporto genitore/figlio si trova proiettato nel futuro senza limiti di tempo, e catturerà ormai, in ogni momento, un'attenzione primaria. Ma ogni rapporto nuovo può essere impostato, volendo, con significati analoghi. Basti pensare a taluni rapporti vitali, di amicizia, di collaborazione, di affetto, di amore, scoperti a un certo punto della propria vita dopo incontri più o meno casuali con persone la cui esistenza, prima, non era neppure ipotizzata. Eppure taluni di questi rapporti finiscono per diventare essenziali nella nostra vita.
Insomma, una volta creato un legame importante, quel legame non potrà più essere ignorato, e sarebbe sciocco sprecarlo, vanificarlo, mentre vale la pena di conservarlo e farlo vivere. Tenersi per mano anche nei disaccordi significa sottolineare che quel legame c'è e merita di essere conservato, al di là delle difficoltà, che esistono, ma che insieme possono essere superate. Non è neppure difficile riuscirci, basta far vivere uno stato d'animo che chiamerei di perdono creativo.
Che cosa significa? Di solito siamo abituati a pensare al perdono come a qualcosa che nasce dopo una offesa, mentre bisogna rovesciare l'ottica. Il perdono creativo è uno stato d'animo a priori, permanente, sul quale rimbalzano le offese. È un pensare in grande. Bisogna maturare per capirlo, ma quando uno lo capisce comincia a comportarsi come se dicesse: tu puoi fare qualunque cosa, ma io ormai ho scelto una linea costruttiva e non cadrò più in rivalse o ripicche. E se anche tu assumerai un simile stato d'animo, allora potremo tranquillamente litigare su tutte le nostre divergenze senza più rischiare di distruggere il nostro rapporto. E impareremo a litigare bene.
Del resto, che cosa significa, concretamente, porgere l'altra guancia? Significa null'altro che offrire una nuova opportunità, non chiudere la porta di fronte a contrasti o divergenze ma provare e riprovare ancora per cercare un incontro possibile. Ricevere uno schiaffo non mi piace affatto, mi brucia, ma anziché reagire con la violenza ti offro una nuova opportunità perché so che ne vale la pena, e forse anche questa esperienza ci aiuterà a una maggior comprensione reciproca. Simile atteggiamento, abitualmente, può spiazzare chi non c'è abituato, e anche questo potrà aprire nuove prospettive. Perché il modo più comune di dialogare assomiglia sovente a un duello, nel quale diventa importante infierire all'interlocutore/avversario, e assestargli il maggior numero di colpi possibili. Un duello, anche se non è all'ultimo sangue, mira a sottomettere l'avversario, e quindi esce da ogni logica ragionevole per colpire e colpire. Ma se si passare dal duello a una danza, allora tutto cambia e il centro del dialogo si sposta alternativamente dall'uno all'altro, e sovente a un punto esterno attorno al quale si muovono i danzatori.
Si potrebbe anche dire che in un certo senso il matrimonio è un mestiere, e come in ogni altro campo c'è che fa bene il proprio mestiere e chi lo fa male, in modo approssimativo. Quanto è importante far bene il proprio mestiere? Chiunque voglia fare il medico, o l'avvocato, o il falegname, studia adeguatamente, poi fa pratica presso qualche esperto, e si preoccupa d'imparare al meglio i trucchi del mestiere prima di cominciare a esercitarlo. Mi domando: come mai nessuno si preoccupa d'imparare il mestiere coniugale, anzi, la maggior parte delle persone si seccano solo a parlarne? Come mai nessuno, o quasi, vuole capire che sarebbe il proprio interesse porsi il problema e studiarne i vari aspetti? Con i giovani d'oggi, poi, il problema si è fatto ancora più difficile.
Comunque sia, quali sono i punti chiave, nel rapporto coniugale, per imparare ad amarsi meglio? Noi abbiamo elaborato uno schema di fedeltà creativa che ho descritto in modo esauriente nel mio libro: La morale coniugale scompaginata. Sommariamente, ciò significa che la fedeltà, elemento chiave del rapporto, non va intesa in senso moralistico (ti ho sposato e devo esserti fedele), ma in senso creativo: mi interessa la tua fedeltà? In senso pieno, e non riduttivo, fedeltà non è soltanto non tradire, ma un rapporto di coinvolgimento, di complicità, di confidenza che crea tutto quel substrato particolare di vissuto che lega assieme in modo privilegiato i coniugi. E finisce per creare nel tempo un clima di fiducia reciproca straordinario: lo posso dire per esperienza personale, perché dopo tanti anni di matrimonio, con Giulia constatiamo ogni giorno quant'è bello amarsi da vecchi. Quando ci siamo resi conto di come bisogna comportarsi per riuscirci, ormai tanti anni fa, abbiamo capito l'importanza di muoversi per primi e facilitarsi reciprocamente il compito. Perché la fedeltà non sempre è facile, e senza un deciso aiuto reciproco talvolta si creano delle falle che poi non si riescono più a tamponare. La prima tappa di questa fedeltà creativa sta nella comunicazione: anziché attendere che si creino accumuli e tensioni, con conseguenti comunicazioni alterate e aggressive, bisogna anticipare i tempi. Il nostro rapporto è decisamente cambiato il giorno che abbiamo preso l'abitudine di chiederci frequentemente: Hai qualcosa da dirmi? C'è qualcosa che non va bene? O anche: abbiamo qualcosa di bello da comunicarci? Perché la prima cosa da imparare è che la comunicazione funziona quando la messa a fuoco principale viene messa su chi riceve e non su chi trasmette. Perché chi vuole comunicare qualcosa può cominciare a farlo quando l'altro non è preparato, e può incontrare un clima non favorevole o addirittura ostile. Rendere esplicito quando c'è la propria disponibilità all'ascolto significa creare un clima favorevole nel quale sarà possibile esprimersi tranquillamente senza forzature e sottolineature enfatiche. In altre parole, più che l'educarsi a comunicare bene, cosa sempre auspicabile, è di primario interesse imparare a farsi dire, perché conoscere bene il pensiero dell'altro è assolutamente indispensabile per potersi capire a fondo, e quindi costruire un rapporto d'amore che funzioni a dovere. E quando c'è la voglia di farsi dire, la comunicazione diventa facile., Per quanto ci riguarda poi, il nostro rapporto è migliorato ancor più quando abbiamo preso l'abitudine di chiederci: posso fare qualcosa per te? Perché nulla come l'offerta esplicita di una disponibilità facilita il sorgere di un clima di benevola collaborazione. E per ultimo vorrei aggiungere che vale moltissimo dirsi il positivo, sottolineare le cose belle del rapporto, perché nulla più dell'incoraggiamento crea coesione e fiducia. E i risultati si vedono nel tempo.
L'amore è bello sempre, a tutte le età, ma credetemi se vi dico che amarsi da vecchi è bellissimo. Potrei fare l'esempio del formaggio. C'è la ricotta, la caciottina fresca, la fontina, la gruviera, il provolone. E poi c'è il parmigiano. Si potrebbe forse dire che la fontina è più buona della caciotta, o la groviera del provolone? Tutti sono buonissimi, e preferire l'uno piuttosto che l'altro è solo questione di gusto personale. La differenza sta nel fatto che il formaggio fresco lo si può gustare da subito, mentre per gustarsi il parmigiano bisogna aspettare che diventi stagionato. E non è possibile conoscerne il sapore se non passa prima tutto il tempo necessario alla stagionatura. Naturalmente chi non lo ha mai assaggiato non sa quale gusto abbia, ma chi lo conosce….
Nel rapporto coniugale con mia moglie, oggi è diventato molto significativo il semplice stare accanto, quel che si potrebbe dire presenza alla presenza, perché c'è tutta una complicità vissuta che si riaffaccia in tanti modi, e sovente basta una parola per scatenare un incontro di stati d'animo che si potrebbero definire una vera e propria estasi coniugale. Esperienze drammatiche allegre, effervescenti o dense di preoccupazioni, tutte significative, coinvolgenti e in ultima analisi tutte bellissime. Esperienze che ci hanno emozionato un tempo e che ci emozionano ancor più oggi, al ricordo, mischiandosi a sempre nuove esperienze quotidiane. Siamo vecchi e i segni del tempo si vedono tutti, eppure il gusto di stare accanto, di sentire la nostra pelle, i nostri odori particolari, continua ad accompagnarci come sempre. Rughe, grinze, cheratosi non ci creano alcun disturbo. Per esempio, oggi in automobile mentre stavamo venendo qui, lei mi ha preso una mano e io mi sono emozionato. Perché ho riconosciuto la stessa mano di sempre, quella che mi accompagna da decenni e decenni. Perché le nostre mani si sono addomesticate, e loro non lo sanno quanti anni hanno. Sono sempre lì, sempre le stesse. Certo abbiamo degli acciacchi, reumatismi, torcicollo e non solo, ma si può dire che la nostra vita sia quella di sempre. Anzi, farò una confidenza molto intima: noi continuiamo impenitenti a scambiarci dei baci anche appassionati, e ci siamo accorti che un bacio a 80 anni non è diverso da un bacio a 20, e può creare le stesse emozioni. Naturalmente immagino che se mi proponessi di dare un bacio a un'ottantenne qualsiasi forse non riuscirei neppure a cominciare, ma noi siamo maturati insieme, abbiamo coltivato insieme l'amore, e questo ci ha mantenuto giovani e vecchi a un tempo. Vi assicuro che un amore parmigiano è molto saporito.
Tutto si può ricollegare alla domanda iniziale: mi interessa amare? Potrei dire che in fondo m'interessa relativamente che la mia sposa mi ami, mentre mi sento pieno di gratitudine perché si fa amare, perché mi consente di provare tutta l'emozione che un amore coltivato a lungo riesce a scatenare. Non mi salterebbe più in mente di dirle: ti ringrazio perché mi ami, mentre le dico spesso: ti ringrazio di amarti. Perché amare è assai più emozionante che l'essere amati.
Tornando all'importanza del presente, finirei proponendovi una riflessione su questa parola. Perché c'è una presenza temporale o spaziale, ma la parola presente viene usata anche nel senso di un regalo. Così noi ci gustiamo i nostri "presenti" reciproci: il presente che ci facciamo quotidianamente l'un l'altra. Perciò chiedo scusa al grande Lorenzo il Magnifico se mi permetto di parafrasare i suoi famosissimi versi, quelli che dicono:
Quant'è bella giovinezza
che si fugge tuttavia
chi vuol esser lieto sia
del doman non v'è certezza.
Oggi la mia esperienza stagionata mi spinge invece a dire:
Quant'è bella la vecchiezza
se si vive in allegria
chi vuol esser lieto sia
nel presente è la certezza.
Grazie.