L'inquietante felicità vissuta nella fede
Koinonia – convento di San Domenico, Pistoia, 20 dicembre 2009
(rielaborazione scritta)
Nel titolo di questo incontro ci sono tre parole particolari:fede, felicità, inquietudine. Vediamo come metterle insieme. Fede è una parola ben nota che però si porta dietro delle ambiguità. Taluni fanno un po' di confusione tra religione e fede, come se fossero la stessa cosa, e invece hanno caratteristiche molto diverse. La religione è sul piano del fare, comprende regole di comportamento, celebrazioni, riti, liturgie, mentre la fede è sul piano dell'essere, è qualcosa che si avverte nell'intimo e che condiziona in modo determinante la propria realtà esistenziale. Si può avere una profonda fede senza compiere alcuna pratica religiosa, e si può essere religiosissimi senza aver fede. Io non so come fossero i farisei di duemila anni fa, ma i vangeli ce li presentano, emblematicamente, come esempio di persone religiosissime ma senza fede. La fede è provare un attrazione verso qualcosa di più grande, e quando la si percepisce non se ne può fare a meno. E dato che la fede, si potrebbe dire, è sorella gemella della speranza, ecco che aver fede equivale a provare una tale gioia da avvertire nel proprio intimo uno stato d'animo di autentica felicità. Tuttavia, però, noi viviamo in un mondo così travagliato, pieno di problemi drammatici o addirittura tragici, da avvertire profonde inquietudini, che si rendono tanto più vive quanto più aumenta il senso di felicità. Così fede, felicità e inquietudine s'intrecciano fra loro in modo inestricabile.
Prima di proseguire tengo a premettere che intendo fare un discorso di speranza, perché la speranza fa parte del mio modo di essere, e non potrei rinunciarvi per nessun motivo. Ma la speranza, quella vera, non è semplicistica, ed è sempre legata alla presa di coscienza della realtà, per drammatica che sia, è sempre legata a una lettura realistica dei fatti, senza svalutazioni. Per fare un esempio, chi scopre di avere un cancro non percepisce come speranza le rassicurazioni generiche e svalutative, quelle che invitano a non pensare neppure a ipotesi drammatiche ben note (come se riguardassero solo altri), mentre in tali casi la speranza si basa sull'esame anche delle possibilità più difficili, anche a una seria analisi sulle decisioni da prendere per affrontare al meglio la situazione, soffrendo magari quel che c'è da soffrire, ma con le prospettive di guarigione offerte oggi dai grandi progressi della medicina. L'autentica speranza, quindi è legata alla presa di coscienza della realtà esistente, e tanto più quanto più è drammatica. È strettamente legata alla capacità di guardare in faccia le cose come stanno.
Al presente, viviamo momenti difficili. La politica, ad esempio, è scoraggiante, non tanto per quello che fa ma per il clima di contrapposizione, mafia e criminalità non lasciano tranquilli, il problema dei rifiuti sembra insolubile, aumenta la disoccupazione, le guerre in varie parti del mondo incidono su tutti, un numero impressionante di bimbi (e non solo) muoiono di fame ogni giorno, l'immigrazione incontenibile è destinata a crescere, e poi ci sono i problemi ecologici e ambientali lasciati decantare senza interventi adeguati, come dimostrato dal recentissimo fallimentare vertice di Copenaghen. Personalmente conservo la speranza, alla quale, ripeto, non potrei mai rinunciare, ma mi pare sarebbe folle svalutare la gravità della situazione.
Per cercare di capire la realtà in cui viviamo mi sembra molto interessante quanto scrive Italo Calvino nel libro Le città invisibili. «L'inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce ne è uno, è quello che è già qui, l'inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso, ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, dargli spazio». A leggere tale pensiero forse qualcuno si sentirà stupito e perplesso, e tuttavia non dimentichiamo che qualcosa di simile troviamo nel vangelo, ad esempio là dove dice: «Se il mondo vi odia, sappiate che ha odiato me prima di voi. Se foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo. Poiché invece non siete del mondo, ma io vi ho scelti dal mondo, per questo il mondo vi odia». Lo stesso concetto è ripetuto più volte anche con altre parole, fino a: «Il mondo non può accogliere lo Spirito di verità». Gesù, inoltre, dice che Satana è il Principe di questo mondo, cosa che spaventa fino a far dubitare che la speranza possa conservare uno spazio vitale. Ma Gesù aggiunge: «Abbiate coraggio, io ho vinto il mondo», guardandosi bene dal negare o svalutare le tragedie esistenti, ma indicando una strada capace di superare le più tragiche contraddizioni. «Io ho vinto il mondo» significa implicitamente: chi ha fede in me (nel mio stesso modo di affrontare la vita) potrà fare altrettanto.
Cerchiamo di capire meglio. Di solito, istintivamente, tendiamo a identificare l'inferno e l'ambiente diabolico con il male assoluto, con il negativo assoluto. Invece, a ben guardare, non è così. Per fare un esempio paradossale, in fondo il falso è altrettanto sincero del vero, come il negativo rispetto al positivo e il male rispetto al bene, perché basta identificarli per trovare una direzione di marcia, cosa che può essere indicata sia per via positiva che negativa. Al contrario, è il verosimile a essere diabolico, perché mischia insieme un po' di vero con un po' di falso, confondendo le acque fino a condurre fuori strada. Infatti, identificando alcuni aspetti positivi (che esistono) si può essere facilmente indotti a credere che tutto "il pacchetto" sia positivo. Per capirci meglio, prendiamo la parola solidarietà che in sé indica un atteggiamento nobile, esortando a coinvolgersi con i problemi altrui nell'interesse comune. E tuttavia, se pensiamo alla fortissima solidarietà "mafiosa" (in senso lato), ecco che le cose non quadrano. Perché è vero che una solidarietà di tale tipo è spesa nell'interesse delle persone del proprio clan, ma in senso chiuso, diretta contro altri talvolta in modo spietato, eventualmente fino al delitto. In tal caso, guardare alla solidarietà (un positivo) finisce per non far più comprendere che l'altro aspetto, quello negativo diretto contro qualcuno, è inaccettabile. Un contesto diabolico, appunto.
Proviamo a fare un altro esempio, apparentemente meno drammatico. Prendiamo il consumismo. Non c'è dubbio che, per lo meno in occidente, abbia prodotto maggior benessere, tanto che oggi il tenore di vita è parecchio aumentato rispetto a 50 anni or sono. E tuttavia ha introdotto anche meccanismi perversi. Oggi, in periodo di recessione, c'è la tentazione di spingere ancor più sul consumismo per uscire dalla crisi contingente (elemento positivo) senza tener conto degli effetti negativi, o addirittura catastrofici, che prima o poi il consumismo si porterà inevitabilmente con sé. Una situazione diabolica, appunto, dalla quale sembra ormai difficile uscire. O meglio, sarà difficilissimo uscirne in modo indolore, mentre sarà possibile solo pagando un prezzo che potrebbe essere anche molto alto. In conclusione, il mondo è diabolico (infernale) come viene descritto da Calvino, oltre che dal vangelo, non perché sia tutto negativo, ma perché composto da positivo e negativo mischiati assieme. Qui non si tratta di essere ottimisti o pessimisti, ma di considerare molto seriamente se vi siano concreti motivi di speranza, se sia concretamente possibile «cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, dargli spazio»
Una realtà buona e cattiva assieme deve necessariamente fare i conti col diabolico, ma offre anche talune opportunità di uscirne in modo costruttivo. La condizione primaria è di non assuefarsi al negativo, come raccomanda Calvino (oltre che Gesù Cristo). L'inquietudine permane perché gli elementi negativi rischiano continuamente di venire travolti. Segnali negativi ci giungono continuamente dai rapporti sociali, dalla politica, dalle ingiustizie, dagli stravolgimenti ambientali. Bisogna reagire, l'indignazione non basta, perché rischia anch'essa di far assestare su posizioni passive insufficienti a "dare spazio" e "far durare" quel che ha valore. L'atteggiamento che Calvino chiama «accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più», Pasolini lo attribuisce all'uomo medio, tanto che nel film La ricotta (1964) fa dire al personaggio del regista (impersonato da Orson Welles): «Lei sa cos’e’ un uomo medio? E’un mostro, un pericoloso delinquente, conformista, colonialista, razzista, schiavista, qualunquista». Del resto anche il Papa sembra sottolineare qualcosa di simile, quando dice: «I mass media tendono a farci sentire sempre “spettatori”, come se il male riguardasse solamente gli altri, e certe cose a noi non potessero mai accadere. Invece siamo tutti “attori» (discorso dell'8 dicembre 2009 a Piazza di Spagna). Ma come si fa a smascherare l'uomo medio che si nasconda prima di tutto dentro di noi? Come si fa a non lasciarsi anestetizzare fino al punto di non veder più gli aspetti diabolici? «Se il mondo va male è perché io vado male» usava dire Jung. Bisogna svegliarsi.
Oggi abbondano i catastrofisti, e bisogna riconoscere che di motivi a sostegno delle loro tesi ne hanno a bizzeffe, ma chi guarda concretamente alla speranza non si lascia travolgere né da un pessimismo scettico né da un ottimismo svalutativo. Cinquanta o sessanta anni fa, nel secondo dopoguerra, era opinione comune che il futuro sarebbe stato migliore, oggi invece cresce il sospetto che sarà peggiore. Due lustri fa il futuro era percepito come una speranza, oggi come una minaccia. Se nella realtà mondiale, a più livelli, si ripetono abbondantemente avvenimenti di tipo apocalittico, il vangelo dice: «Quando accadranno queste cose alzate la testa perché la vostra liberazione è vicina». Liberazione da che cosa? Soprattutto dai limiti e dalle contraddizioni di una realtà che di per sé è senza senso, e per acquistarne uno deve proiettarsi oltre la sua dinamica riduttiva, trasformando il diabolico in opportunità vitale. Ma bisogna tenere ben presente che nel futuro la situazione peggiorerà, si farà più difficile, e per non lasciarsi travolgere, per dare un risvolto concreto alla speranza, bisogna imparare a combattere in senso costruttivo, bisogna allenarsi e mantenersi in forma. Qualcuno si scoraggia subito dicendo che non è facile, ma chi lo ha detto che il cammino di vita dev'essere facile? La domanda è un'altra: è possibile lavorare per un mondo positivo, per una società che almeno tendenzialmente voglia uscire dal diabolico? Chi pensa sia possibile si rimbocca le maniche, senza perdersi in discussioni su quanto sia più o meno difficile. Prepararsi seriamente significa cominciare a porre le basi per uscire dal diabolico, e ci sono persone che lavorano in tal senso. Come esempio, ricordo che il poeta Marco Guzzi promuove da tempo corsi e seminari che aiutano la presa di coscienza in modo molto realistico e assai concreto (www.marcoguzzi.it; e www.darsipace.it). Consiglio a tutti di visitare i suoi siti internet. Qui mi limito a segnalare alcuni titoli di suoi interventi, come: Alla ricerca di senso. Tornare a sperare di essere felici. Il matrimonio come opera d'arte. Amare alla fine di un mondo.
In altre parole, l'alternativa è: affidarsi al caso o imparare a governare la propria vita? Amare o assestarsi nel diabolico? Ma come si fa ad amare? Si può imparare ad amare? Per rispondere bisogna porsi un'altra domanda: è obbligatorio amare? E qui direi che per sopravvivere, o per dirla alla Calvino, «per accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più», allora non è necessario. Per chi cerca possesso, potere, prestigio, tutte cose infernali rivolte verso la contrapposizione, per chi si propone di prevalere su altri, per chi coltiva atteggiamenti trionfalistici, che in sostanza significa desiderare e gioire del male al nemico, il significato della parola amare non è neppure conosciuto. Ma per vivere, «per saper riconoscere che cosa non è inferno, per farlo durare e dargli spazio», allora amare è proprio indispensabile.
Ma come si fa ad amare? L'amore non è qualcosa di spontaneo e imponderabile, che nasce in modo incontrollato? Si può imparare ad amare? E qui posso assicurare, anche per esperienza personale, che si può. Ma bisogna innanzi tutto uscire dalla mentalità contro, bisogna uscire dall'individualismo, dall'egocentrismo, dall'egoismo, perché amore è relazione, e si centra fuori di sé, nell'altro. Prima di tutto bisogna imparare a conoscere se stessi: tutte le tradizioni mistiche descrivono il proprio ego prigioniero dentro di sé, incatenato all'interno del proprio centro. Bisogna uscire da sé, lasciarsi svuotare per far entrare una mentalità nuova, bisogna liberarsi dei luoghi comuni per poter ascoltare una parola nuova. Bisogna spostarsi dal proprio centro, non per fuggire, ma per lasciarsi trasformare.
All'amore non si comanda, però lo si può coltivare. Esiste l'amore sentimento che solo ciascuno può conoscere nel proprio intimo, e che purtroppo è anche soggetto a condizionamenti e inganni psicologici. Ma esistono anche i gesti d'amore applicato, che hanno valenza oggettiva e tutti possono verificare. È a questi gesti che bisogna rifarsi, se si vuole fare un discorso concreto. Quando Gesù dice: «amatevi come io vi ho amato, da questo si riconoscerà che siete miei discepoli» si riferiva ai gesti d'amore applicati: dar da mangiare a chi ha fame, curare chi è ammalato, aiutare chi è nel bisogno, risanare le ferite di qualsiasi tipo. Al sentimento, forse, non si comanda, ma i gesti si imparano.
Quel che vale nei rapporti sociali vale anche nel rapporto coniugale, dove l'intimità profonda rende ancor più significativa la problematica. Nel nostro rapporto personale, con mia moglie, possiamo ben dire di aver imparato sul campo ad amarci sempre più e meglio. Ci siamo sposati con grandi speranze e abbiamo sempre avuto tra noi momenti belli e positivi, ma non sono mancati i conflitti, talvolta assai pesanti, al punto che anche noi, come tanti altri, abbiamo rischiato di sfasciare tutto. Ma poi un giorno ci siamo incontrati, e abbiamo scoperto la fedeltà creativa. Abbiamo capito che la fedeltà non è un dovere da compiere ma un traguardo da raggiungere. Come improvvisa illuminazione, un giorno ho capito che se voglio la fedeltà di mia moglie, elemento essenziale per un rapporto coinvolto e creativo, devo fare tutto quello che posso, da parte mia, per aiutarla ad essermi fedele. Perché la fedeltà, quella piena, profonda, a tutto campo, è difficile da conseguire, e quando l'abbiamo capito entrambi ci siamo detti reciprocamente: solo se tu mi aiuti, ma sul serio, profondamente, allora forse ci riuscirò. Se invece non mi aiuti…..
L'infedeltà nasce e cresce nell'incomprensioni, nella difficoltà a comunicare, perché sovente, quando uno dei due avverte qualche problema, fatica a trovare il momento adatto per poterlo comunicare tranquillamente e senza tensioni. Sovente accumuli e rivalse fanno scattare reazioni negative che innestano aspri scontri nei quali, come in un duello, ciascuno cerca di colpire l'avversario per fargli male. Quando a suo tempo l'abbiamo capito (non a parole ma nell'intimo) allora abbiamo cercato di mettere in atto dei comportamenti che ci potessero concretamente aiutare. E abbiamo, per esempio, cominciato a trovare dei momenti quotidiani nei quali chiederci reciprocamente: hai qualche cosa da dirmi? C'è qualcosa da chiarire? O di bello da condividere? Hai bisogno di aiuto? Posso fare qualcosa per te? E ci siamo accorti che la disponibilità offerta schiude a reazioni e risposte costruttive, nelle quali la voglia di aiutare l'altro prevale nettamente sul desiderio di prevalere. Abbiamo imparato ad amarci di più e meglio, il che non vuol dire che non abbiamo più conflitti, perché siamo diversi e ogni tanto i disaccordi esplodono. E guai a tentare di mascherarli pro bono pacis, perché prima o poi riaffiorano, talvolta ingigantiti. L'unica è affrontarli, discutendo magari accanitamente e senza sconti, ma la svolta c'è stata quando abbiamo imparato a litigare tenendoci per mano, e ora siamo convinti che questo sia l'autentico andare d'accordo. E possiamo testimoniare, per esperienza vissuta, che si può imparare (come testimoniano anche tante altre coppie).
Tornando all'amore nei rapporti sociali, proviamo a confrontarci con l'esortazione evangelica ad amare anche i nemici. Quali sono i nostri nemici? Forse il famoso uomo medio direbbe di non avere autentici nemici, e allora, per capire meglio, proviamo a usare al posto di nemici la parola antipatici. Ciascuno di noi conosce delle persone antipatiche, e quindi la riflessione può farsi più concreta. È noto che di solito gli antipatici vengono presi in giro, derisi, emarginati, umiliati, col risultato di farli diventare sempre più antipatici. Perciò, se mi propongo d'imparare ad amare gli antipatici, che cosa potrei fare? Immaginiamo di telefonare a un antipatico, invitarlo a pranzo e trattenersi a conversare con lui in modo benevolo. Probabilmente quello, a sentirsi trattare con simpatia, finirà per diventare meno antipatico. Ecco che cosa vuol dire amare un antipatico: aiutarlo concretamente a diventare più simpatico.
Un buon metodo per imparare, indipendentemente da quel che si prova nell'animo, è comportarsi come se. Come se si amasse l'altro, per nemico che sia, come se si avesse l'intenzione di aiutare l'antipatico. Perseverando in tal senso, col tempo si finirà per accorgersi che l'amore, quello autentico, sarà a poco a poco nato e cresciuto nel proprio animo. Comportarsi come se è un metodo assai valido, che produce grandi frutti. Se sei triste, ma vorresti non esserlo, comportati come se fossi allegro, ridi e scherza con gli altri, con qualche sforzo lo puoi fare, e non è poi così difficile. E dopo un po' ti accorgerai di essere diventato allegro. Se sei nervoso, fai uno sforzo e comportati come se fossi gentile e benevolo, e dopo un po' ti accorgerai di esserlo diventato. Se ti pesa aiutare gli altri, ma apprezzi chi è disponibile, fai uno sforzo e dai una mano allegramente a chi ti chiede aiuto, e ti accorgerai ben presto quanto è bello essere disponibili. Quanto a d amare, non chiederti neppure come sia il sentimento che provi: compi gesti d'amore applicato, come se fosse per te spontaneo compierli. E ti accorgerai che stai imparando ad amare.
Comportarsi come se può produrre risultati di tutti i tipi, anche negativi. Per esempio, di fronte ai drammi sociali vicini o lontani, comportarsi come se non esistessero alla lunga produce indifferenza, e avere sensazioni e reazioni diverse a seconda dell'etnia delle persone può portarci a comportarci come se fossimo razzisti, col risultato, prima o poi, di diventarlo davvero. Ad esempio, sappiamo che nel mondo mediamente muore di fame un bambino ogni 5 o 6 secondi! Ma sono del terzo mondo, e quindi è facile non pensarci. Immaginiamoci che cosa accadrebbe se si verificasse qualcosa di simile in Italia o in Europa! Forse che non sono forme subdole di razzismo? Qualche tempo fa tra Israele e Palestinesi è avvenuto uno scambio di prigionieri: mille palestinesi contro un israeliano. Personalmente trovo questa disparità come un inno al razzismo. Recentemente ho letto un articolo su un giornale dal titolo: Sono razzista, ma sto cercando di smettere. All'interno il giornalista, del quale non ricordo il nome, aveva il coraggio di scrivere: C'è qualcosa di più inquietante dei razzisti: sono quelli come me, quelli che non accettano di farsi dare dei razzisti, ma di fronte alla deriva esistente non rompono le scatole agli altri per farli ragionare. Ecco in che senso l'uomo medio (maschio e femmina) è razzista, secondo quanto diceva Orson Welles nel film La ricotta. E aggiungerei che l'uomo medio, di solito, non farebbe mai personalmente qualcosa di obrobrioso, non si sporcherebbe personalmente le mani, ma è contento se qualcun altro lo fa per proteggere la sua sicurezza, alla quale rivendica il diritto, non importa a che prezzo. L'uomo medio delega agli altri il lavoro sporco: pensiamo, ad esempio, al drammatico e vergognoso riaccompagnamento di clandestini in Libia, documentato in immagini che pochi sono riusciti a vedere, perché i vari canali televisivi si sono prevalentemente autocensurati per non turbare il sonno degli spettatori. Ecco il senso del pensiero di Calvino, ecco che cosa significa accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Ma per fortuna si può anche cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, dargli spazio. In altre parole, si può anche imparare ad amare.
Tornando all'amore coniugale e familiare, ambiente privilegiato dove si può imparare ad amare a tutto campo, per passare dal duello a una danza coinvolgente, al di là del rischio di pestarsi i piedi, fondamentale è riflettere bene sul senso del perdono, che non è un atteggiamento che nasce come risposta a offese o torti subiti, ma è uno stato d'animo a priori, un atteggiamento "per dono", appunto. Perdono è coraggio di pensare in grande, è lavorare insieme nell'interesse reciproco, è uscire da quell'ottica perversa che spinge a dire: se tu fai così, allora io….. Porgere l'altra guancia significa offrire nuove opportunità, anziché chiudere la porta, anche se quando sembra vi sarebbero motivazioni valide. Chi lo capisce per primo cominci, e si accorgerà che anche l'altro non tarderà a capirlo e seguirlo. Invece lasciarsi scadere nella logica di rivalsa significa cristallizzarsi in contrapposizioni distruttive. Anche nel matrimonio, perdono è guardare avanti.
Per dono nasce anche la gratitudine: ti ringrazio di amarti, mi piace dire alla mia sposa, perché se non ci fossi tu come potrei sperimentare questa struggente felicità? Ti ringrazio perché mi accogli come sono, anche quando ti maltratto, e perché ti rapporti a me come sei, talvolta anche maltrattandomi, ma sempre mostrandomi che tra noi non ci sono veli, che non mascheri nulla dietro la facciata. Col passare degli anni il nostro rapporto coniugale si è fatto sempre più gustoso, proprio perché abbiamo coltivato l'amore quotidianamente, giorno dopo giorno. Credo che la stessa possibilità sia offerta a tutti i coniugi, cosa che dovrebbe essere fatta risuonare con più vigore, in quest'epoca di crisi sempre più accentuata del matrimonio. Amarsi da giovani è bello, ma non meno bello è amarsi nella vecchiaia. Si potrebbe dire che l'amore è come il formaggio: c'è la ricotta, il formaggio fresco, la gruviera, il provolone, e poi c'è il parmigiano. Sarebbe sciocco dire che l'uno è migliore dell'altro, e tuttavia la differenza significativa è che il formaggio fresco lo si può gustare da subito, appena fatto, mentre per gustarsi il parmigiano bisogna dargli tutto il tempo necessario alla sua lunga stagionatura. Chi non lo conosce può non sentirne la mancanza, ma chi lo conosce…..
Il nostro è oggi un amore parmigiano, ce lo gustiamo, stiamo bene insieme, e suggeriamo a tutti di coltivare l'amore coniugale. Naturalmente i non sposati potranno seguire altre strade altrettanto valide, ma io conosco la vita coniugale e di questo posso parlare. E so che un rapporto matrimoniale stabile, che vuole anche dire migliori rapporti con figli e nipoti, e quindi maggior coinvolgimento generazioni, produce quell'inquieta felicità che credo sia il miglior risultato possibile in questo nostro mondo drammatico e contraddittorio. Provare per credere. Grazie.