Durante gli anni di vita comunitaria abbiamo regolarmente svolto degli esercizi spirituali per riflettere al meglio sulle scelte fatte e poterne maturare altre. Particolarmente significativi sono stati quelli dell'autunno 1987, intitolati
Mi gioco la vita?
Il luogo dove si sono svolti i tre giorni finali è Villa Cavalletti a Grottaferrata, che ha un parco affascinante, con cedri del Libano rigogliosi e superbi, una radura incantata che lascia filtrare raggi di luce attraverso pini secolari, e un romitorio che apre su una cattedrale di querce disposte a tre navate. Ambiente e atmosfera particolarmente favorevoli a compiere scelte di vita consapevoli.
Prima comunicazione preliminare
2 ottobre 1987
Per che cosa ti giocheresti la vita? Su questa domanda abbiamo impostato i nostri esercizi spirituali di quest’anno. Come cammino di preparazione, anziché le solite riflessioni impersonali (ma sono poi impersonali, oggettive, neutre?) ho pensato di proporre scopertamente me stesso, esprimendo in tre momenti successivi i vari aspetti che compongono la mia risposta. Le mie convinzioni personali, quindi, o per meglio dire i cardini della mia fede, esposti in modo articolato e poi schematico, che potranno essere utilizzati da ciascuno come griglia di riferimento dapprima per confrontarsi, e poi, attraverso dissensi, dubbi, perplessità, consensi e, spero, anche nuove scoperte, giungere a capire e formulare meglio le proprie risposte. Alcune parti di queste mie comunicazioni sono nate indipendentemente dalla comunità, alcune altre sono maturate insieme. Le espongo come indicazioni per gli esercizi, dividendole in tre parti:
1) obiettivi
2) contenuti
3) metodi.
L’obiettivo di fondo è andare al Padre, che per un cristiano è l’unica cosa importante. Questo vale come obiettivo escatologico, ma per riuscire a raggiungerlo è necessario porsi e realizzare un obiettivo presente e dinamico, da tenere a fuoco lungo tutto il cammino: è ciò che si può chiamare spirito di preghiera permanente (sia che mangiate, sia che beviate, sia che facciate qualunque cosa, fate tutto per manifestare Dio agli uomini). Questo significa far spazio al Padre e allo Spirito, lasciarli pregare in me. O anche: realizzare concretamente in me il sacerdote esistenziale, cioè il sacerdozio comune dei fedeli, a cui siamo tutti chiamati.
Dire che spero di farmi monalogo (monaco analogo) è un modo per esprimere la stessa cosa, utilizzando una parola nata in comunità che trovo particolarmente efficace e stimolante. Insomma l’obiettivo che mi pongo, come impostazione di vita per camminare verso il Padre, è creare una spiritualità giardino dove ognuno possa coltivare le sue piante; un laboratorio spirituale dove ciascuno possa imparare a fare della propria vita un’opera d’arte. In altre parole, riuscire a coniugare insieme felicità e salvezza.
I contenuti li ho divisi secondo quattro aspetti: esegetico, teologico/filosofico, pastorale, liturgico. In ognuna delle tre comunicazioni farò una premessa esegetica per introdurre l’argomento. Stasera parlerò poi dell’aspetto teologico/filosofico, la prossima sera di quello pastorale e di quello liturgico, e la terza sera dei metodi. Come premessa esegetica considero punto di riferimento primario la frase di san Paolo “esaminate tutto, tenete ciò che è buono”; completata da quella di san Giovanni: “non date retta a tutte le ispirazioni, ma mettetele alla prova per saggiare se vengono veramente da Dio”. Metterle alla prova, cioè sperimentarle, farne esperienza vissuta. È un contenuto esegetico importante perché rimanda in modo radicale alla presa di coscienza, punto fermo irrinunciabile della mia fede.
Sul versante teologico/filosofico posso esprimere la mia fede in poche parole: credo in Dio che trasforma il male in bene. Si tratta di una fede dinamica, di uno stimolo permanente che cambia continuamente la mia vita. Credo che Dio sia fonte della vita, ed è quindi corretto chiamarlo Padre (genitore): Dio è la vita stessa, perciò tutto ciò che vive (non solo la vita umana) è agganciato a lui e trae origine da lui. E se Dio è padre diventa ovvio che siamo tutti fratelli; se sento un filo diretto col Padre non posso più dimenticare che lo stesso filo diretto esiste tra lui e chiunque altro. Se tengo a questo filo diretto non posso più rivolgermi al fratello ignorando che anch’egli ne ha uno, e non posso non capire che se creo qualcosa di negativo con il fratello, il mio rapporto diretto col Padre viene inquinato.
Il Padre è coinvolto con noi, soffre e gioisce con noi vivendo rispecchiato in sé (nella sua dimensione) tutto quello che ciascuno di noi vive nei propri limiti. Percepisco il Padre come un cuore che batte insieme al mio. E’ ovvio che questa realtà può essere sentita da alcuni e non da altri. Mi ricordo una frase di Charles de Foucault: “quando ho capito che c’era Dio non ho potuto fare altro che occuparmi di lui”. Ed io posso dire: dal momento che sento questa realtà accanto a me non posso fare altro che occuparmene; certe volte può essere un po’ faticoso, ma è sempre stimolante e mi riempie di gioia.
Immaginiamoci di avere sempre accanto una persona che ci ispira tanta fiducia. Una persona che sul piano pratico non fa nulla, non fa assolutamente nulla: non risolve i problemi, non esegue lavori per conto nostro. Non lo fa perché non può farlo: supponiamo che sia senza braccia e senza gambe. Però è una persona che ci sta sempre accanto, ci capisce, ci sostiene, ci incoraggia; e quando sbagliamo non perde tempo a punirci o a farci rimproveri o paternali, ma ci stimola a riprovare e ricominciare, a rialzarci e riprendere il cammino. Una persona, insomma, che mostra di avere tanta fiducia in noi, in me. Immaginando che questa persona, vicina a me in modo così straordinario, è accanto anche a tutti gli altri, mi accorgo che i miei fratelli li sento molto più vicini, perché lo stesso Padre, così benevolo da farmi sentire in profonda comunione con lui, mi fa sentire legato in modo indissolubile con loro. Come potrei ancora contrappormi ai miei fratelli, anche se loro non capiscono o negano questa immagine?
Mi domando: un simile Padre mi piace sul serio? Egli mi dice: “tu sei sempre con me e quello che è mio è tuo”. Se mi piace questo suo atteggiamento, allora non posso che fare come lui, non mi è più possibile comportarmi in altro modo. E se a volte mi capita è perché mi distraggo o perché sono incoerente, ma non posso più assumere volutamente atteggiamenti diversi, perché mi accorgo di vedere ormai le cose dallo stesso punto di vista del Padre. Mi accorgo che sono chiamato anch’io, ogni giorno, a creare insieme al Padre, mi accorgo che il mondo è il mio campo di lavoro. Questo significa che nella Trinità ci sono anch’io. E’ una cosa che mi fa rabbrividire, e anche un po’ sorridere.
A dir così, affiora subito il timore della presunzione, ma abbiamo come modello Gesù, il quale presuntuoso non era, eppure diceva: “io sono”, cosciente di affermare qualcosa di più grande di lui. E tuttavia si rivolgeva al Padre dicendogli: ‘tu sei l’unico vero Dio”, dimostrando di percepire con piena consapevolezza il duplice versante umano e divino di ogni essere vivente. E noi dobbiamo cercare la consapevolezza di Cristo.
Sul versante più tipicamente filosofico la stessa realtà divina si può descrivere con il senso dei contrari/complementari. Ad esempio assoluto e relativo sono contrari, eppure il relativo è compreso nell’assoluto. Quindi è contrario, ma senza essergli contrapposto. L’assoluto è un modo per dire Dio e il relativo è qualcosa che vive non distaccato, ma compreso e trasceso in lui. Dio non crea dal nulla, ma fa il nulla dentro di sé perché il mondo esista, per lasciargli spazio. In questa visione niente appare più come contrapposto, se non in termini contingenti e terreni: non ci sono contrapposizioni con l’assoluto. Il male non è un’entità a sé: è una privazione di bene; il negativo non ha valore in sé: è un positivo imperfetto. Il bene esiste in sé stesso, mentre il male non può esistere se non c’è il bene. Solo il bene è una realtà, ma una sua porzione è qualcosa d’imperfetto, e quindi male. Più questa porzione è limitata, e maggiore è il male, fino ad arrivare a un tipo di male dove il bene è talmente limitato da non vedersi più. Il male è privazione e limitazione di bene, ma se questo è vero (e cioè che l’assoluto esiste in sé, mentre il relativo esiste solo in quanto c’è l’assoluto) ciò significa che tutto è trasformabile, perché nulla di negativo potrà mai raggiungere uno stato in cui solo se stesso esiste, e quindi una condizione inattaccabile. Non può esistere il negativo se non accompagnandosi al positivo; non può esistere il male se non accompagnandosi al bene. Non potendo raggiungere una condizione stabile e definitiva, non potendo adagiarsi in se stesso, è sempre trasformabile.
Come il relativo è contrario all’assoluto, eppure ne fa parte, così il mondo è il contrario di Dio: è Dio in quanto vita, ma è il contrario di Dio in quanto limite. Una vita quindi che non può stabilizzarsi in se stessa per i limiti che ha, una vita destinata comunque a morire, e, in prospettiva divina, in una realtà al di fuori del tempo, una vita che nasce e muore, una volta passata è come se non ci fosse mai stata. Eppure è vita, e questa è una contraddizione. Per uscirne, a questa vita è offerta una duplice possibilità: sprecarsi o trasformarsi.
L’uomo è il contrario di Dio, è come un Dio potenziale che non riesce ad essere se stesso. Egli può non accorgersene e perdersi nel nulla, ma può anche prenderne coscienza e, quindi, desiderare la trasformazione di sé per liberarsi dai limiti. L’uomo è la dimostrazione che la vita è una sola:quella divina. Ogni altra forma di vita non regge, non può durare. Ecco allora che l’alternativa è trasformarsi o morire. L’imperativo mi stimola e mi scuote: ho una possibilità che posso sprecare, ed è l’unica che ho. Con questa presa di coscienza capisco che la missione dell’uomo è trasformarsi e trasformare. Come? Bisogna imparare a farlo, ma il senso è ormai chiaro: la vita è un cammino di trasformazione.
Questa immagine si riallaccia a quella teologica dell’uomo che si pone dal punto di vista del Padre, diventa creatore insieme a lui (ciascuno come può) e sente suo interesse primario compierne le opere. Una vita che prevale comunque, un male senza speranza, e all’uomo l’invito di partecipare attivamente a questa continua trasformazione divina. Da questa fede, intesa in senso radicale, si vede emergere qualcosa di stupefacente, che va perfino al di là del vangelo. Forse Gesù non scherzava quando diceva: ‘farete le cose che ho fatto io, anzi ne farete di più grandi” (che non significa andare oltre Cristo, ma oltre ciò che la cultura dell’epoca potesse recepire). In questa immagine di trasformazione oltre i limiti il “vade retro, Satana!” può essere riconsiderato e superato. Gesù infatti dice: “lungi da me, Satana’, ma non scaccia Pietro, lo tiene vicino fino alla conversione. E anche nel deserto non caccia Satana: lo lascia dire. Sembra quasi proporgli: “vieni e vedi” . Infatti se la realtà divina è questa straordinaria trasformazione del male in bene, che speranza ha Satana di raggiungere risultati soddisfacenti? Non gli resta che convertirsi. Perciò dobbiamo dirgli: vieni e vivi, non ho paura di te perché la mia consapevolezza e le mie motivazioni sono ormai incontrovertibili. Che cosa mai mi puoi fare? Vieni pure, e sarai tu prima o poi a convertirti. E se non mi sento di dirgli questo, è perché non ne sono capace, per i miei limiti personali, per la mia scarsa determinazione, per la mia vigliaccheria che mi fa sotterrare i talenti ricevuti, ma non perché sia impossibile: noi possiamo convertire Satana. E’ qualcosa che mentre mi entusiasma mi spaventa, ma lo sento vero.
Una volta ho ascoltato un teologo che diceva: credo nell’esistenza del diavolo, perché se non ci fosse lui allora tutto questo male sarebbe parte integrante della natura umana, e questa ipotesi mi sconvolge. Come dire: ci deve essere qualcuno a cui attribuire la colpa, così posso fare la vittima. Invece, se fa parte della mia natura, allora lo posso trasformare, e questo mi entusiasma. Può essere più pericoloso, è vero, ma possiamo intervenire a modificare le cose: si tratta di una grande speranza.
Il primo nemico dell’uomo è lui stesso. Quando Gesù dice: i nemici dell’ uomo sono quelli della sua casa, credo intenda quelli della sua casa interiore, quei demoni che abitano in lui, e che possono uscire e tornare portando anche altri loro amici, fino a diventare “legione”, fino a frantumare la personalità dell’uomo in tanti piccoli ‘io’ contradditori e conflittuali. Ma se il nemico sono io, una volta scoperto il gioco, basta cominciare un cammino di trasformazione secondo Cristo e perseverare, perché il risultato sia garantito. Gesù ha detto: chi non è con me è contro di me; e anche: chi non è contro di voi è con voi; e inoltre: chi non è contro di noi è con noi. Le variazioni di questa frase possono assumere molteplici significati, ma se è vero, come dice san Paolo, che in prospettiva divina tutto coopera al bene, in questa immagine di trasformazione radicale del male in bene la frase diventa paradossale al punto da poter dire: anche chi è contro di me è con me.
Domanda: Potresti chiarire meglio quale senso ha, in questo contesto, la vita dell’uomo?
Risposta: L’uomo è la dimostrazione che l’unica forma di vita vera e valida è Dio stesso. L’uomo, ogni uomo è un itinerario terreno di Dio, è Dio stesso che fa esperienza incarnandosi nell’essere umano vivendo infinite possibilità di vita, tutte destinate nelle loro caratteristiche individuali e limitate a finire. In queste infinite possibilità o la vita viene sprecata o viene ritrasformata in Dio. Nel primo caso dimostra di non valere nulla, ma anche nel secondo, perché sceglie consapevolmente la strada del ritorno al Padre, dimostrando con questo itinerario che una vita limitata è comunque destinata a finire. Perciò non voglio più vivere questa vita: devo perderla, voglio perderla per trovare la vita. L’itinerario inverso è quello di tentare d’impossessarsi di questa vita limitata, come se avesse valore in se stessa, senza tuttavia poterla consolidare e fermare, perché la morte mi costringe a perderla comunque. E’ una dimostrazione inequivocabile che solo Dio vale e tutto il resto ha valore soltanto in funzione di lui, soltanto come potenzialità capace di trasformarsi per raggiungerlo. Chi vorrà conservare la propria vita la perderà, chi perderà la propria vita per causa mia e del vangelo la troverà.
Domanda: Puoi ampliare il discorso sulla creazione?
Risposta: E’ il Figlio a creare il mondo, non il Padre. Lo dice il Prologo di Giovanni “tutto si è fatto attraverso di lui”. Il Figlio che non se ne sta distaccato ma si incarna nel mondo, il Figlio che è redentore per sua essenza. Dio è prima di tutto redentore, cioè trasformatore, trasformando a priori qualunque cosa. “In principio (nell’essenza) c’era il Redentore (il Logos)”. E l’uomo, ciascun uomo, quando si fa figlio diventa consapevolmente concreatore e, ancor più importante, conredentore. In Dio può esistere una creazione in quanto già trasformata a priori. E’ questa l’essenza dell’azione divina, è come se Dio dicesse: “io trasformo tutto a priori, perciò qualunque mondo possibile, per quanto drammatico e contradditorio, per me può andar bene, perché comunque lo trasformo in bene”. Per questo può esistere un mondo come il nostro, con tutti i suoi difetti, i drammi, gli aspetti negativi, altrimenti non potrebbe esistere, perché il male non è un entità in se stesso. Nel rapporto assoluto/relativo non c’è niente che non venga dall’assoluto: il mondo è un relativo, ma il relativo è parte dell’ assoluto, il mondo perciò può esistere solo come realtà transitoria destinata comunque a trasformarsi in Dio, e quindi si può dire che è indifferente come sia in se stesso. Questa è un’affermazione pericolosa, perché chi cerca giustificazioni di comodo potrebbe pensare che allora tanto vale lasciarlo andare alla deriva (come talvolta sembra andare). Ma questo è possibile pensano solo se si è lontani dallo spirito di figli, solo se non si fa propria l’ottica del Padre che dice a ciascuno di noi: quello che è mio è tuo. Per l’uomo—figlio è naturale impegnarsi a lottare per un mondo migliore perché è consapevole che il mondo è il suo campo d’azione, il suo luogo di lavoro, e sa di partecipare così attivamente e consapevolmente a trasformare il male in bene, cosa che una volta capita, non può più fare a meno di farla.
In conclusione non credo in un Dio che crea il mondo secondo un suo progetto precostituito, ma credo invece che, dal momento che qualunque cosa relativa comporta dei limiti e quindi rende inevitabile il male, qualsiasi creato sia in se stesso un disastro. Come superare questa drammatica contraddizione? Credo che Dio risolva in modo geniale il problema, trasformando ogni cosa. Il male non ha alcun potere perché io lo trasformo in bene. E’ importante sottolineare ancora che il male è senza speranza, perché non potrà mai raggiungere uno stato in cui potrà dire: “ecco sono me stesso, ho raggiunto il mio scopo”. Il male è solo relativo, è solo temporaneo, soggetto a una continua evoluzione: solo l’assoluto è stabile, definitivo, insuperabile. Quindi il male non può restare e consolidarsi in se stesso, non ha speranza. All’infinito viene comunque trasformato in bene, secondo un principio matematico: la probabilità più piccola di un evento, all’infinito, è certezza che l’evento avvenga. Per piccola che sia la possibilità che venga trasformato, nell’eterno il male sarà diventato bene.
Domanda: Non è chiaro che cosa avverrà degli uomini, di ogni uomo. Tutti si trasformeranno in Dio? Oppure?
Risposta: Una cosa verrà perduta comunque, come un mezzo che raggiunto il suo scopo non serve più e sparisce: l’individualità. L’individuo sparisce perché l’individualità serve a distinguersi dagli altri individui, e possiamo immaginare che in Dio, nell’assoluto, esista il distinguersi? Un Dio che si distingue in se stesso in tante piccole realtà? L’individualità è una possibilità terrena. Non ha senso immaginarla proiettata nell’assoluto. Perciò perdiamo comunque la nostra vita individuale, tanto è vero che per trovare la vita bisogna perderla. C’è chi la perde in Dio, e chi la perde nel nulla, ma la propria individualità si perde comunque. Noi siamo un agglomerato di materia che rende possibile il manifestarsi di realtà spirituali. Il creato, in quanto materia, è un veicolo che rende possibile il manifestarsi dello spirito, e quindi se quel dato agglomerato si perde comunque, una volta esaurita l’individualità di quel momento storico, le stesse componenti si ricicleranno in un’altra realtà, formando nuove individualità, fino a trasformarsi completamente in prospettiva escatologica.
Domanda: Questo significa reincarnazione e metempsicosi?
Risposta: Nel significato profondo può darsi, ma se per reincarnazione s’intende la stessa individualità che rivive, allora il concetto è molto diverso. Il determinato individuo vissuto in un certo contesto storico/culturale credo che con la morte venga annullato per sempre. La differenza tra l’individualità che si perde nel nulla e l’individualità che si perde in Dio è che la prima con la morte è come se non fosse mai esistita, mentre la seconda si completa trasformandosi. Questa esperienza vissuta ritorna nella coscienza di Dio come realtà personale, anche se non individuale. In entrambi i casi l’esperienza umana è sempre esperienza di Dio in terra. Nel primo caso Dio fa esperienza che oltre lui c’è il nulla, nel secondo caso realizza in se stesso, attraverso un itinerario dinamico, quello che è già in essenza. Personalmente trovo entusiasmante quest’immagine, anche se molto impegnativa. Se raggiungo l’obiettivo, allora entrerò anch’io nella coscienza di Dio, allora la mia coscienza limitata di oggi, ma con la stessa percezione di essere me stesso, si ritroverà senza limiti in Dio. Sarò sempre io, continuerò a vivere, sarò un tutt’uno con Dio, con la precisa consapevolezza dell’itinerario compiuto. Insomma, l’uomo o si annulla o raggiunge Dio. Nel secondo caso, attraverso questo itinerario in terra, la vita, che è solo divina, passando attraverso i limiti ritorna a Dio, e diventa coscienza di Dio. Gesù poteva dire: “io e il Padre siamo una cosa sola” perché aveva raggiunto questa coscienza, questa consapevolezza ancora qui sulla terra, vivendo un radicale anticipo escatologico. Per noi il risultato potrà arrivare più tardi, ma è alla nostra portata. Intanto possiamo già accontentarci di quei momenti di grazia in cui possiamo dire: io e il Padre abbiamo qualcosa in comune.
Domanda: C’è differenza tra individuo e persona?
Risposta: Nel mio linguaggio sì. L’individuo è caratterizzato da limiti che lo distinguono dagli altri. Persona invece è l’espressione di una particolare realtà nella quale si esprime tutta la vita che le sta attorno e che si coinvolge con lei. In altre parole persona è il punto focale dove si rivela una realtà vitale molto più ampia dell’individuo che la esprime. Perciò la persona trascende l’individuo e va ben oltre i suoi limiti.
Per finire, quest’immagine di Dio e del mondo mi entusiasma, anche se la trovo molto molto impegnativa, perché non mi risolve alcun problema e mi costringe a lavorare per trasformare la realtà. Oltre tutto so che quando mi trovo in difficoltà mi guarda e ride sotto i baffi. Lo considero perciò il massimo dei rompiscatole, e al di là delle mie proiezioni psicologiche credo proprio che sia così, tanto è vero che mi ha incastrato al punto che mi sento disposto a giocarmi la vita per lui. E lo faccio perfino volentieri.
Seconda comunicazione preliminare
19 ottobre 1987
La premessa esegetica di questa sera è che non esiste una parola di Dio garantita a priori, perché è dai frutti che si vede la bontà dell’albero. Ma i frutti vengono dopo. Nessuna garanzia preventiva sulla bontà dell’albero, quindi le nostre scelte devono essere fatte attraverso elementi indiretti (quali ad esempio testimonianze di chi ha dato frutto, oppure constatazione delle conseguenze automatiche di atteggiamenti e comportamenti).
Due punti sono da tenere presenti: 1) Dio parla all’uomo in molti modi, alcuni dei quali forse più specifici e significativi di altri, ma in senso generale si può dire che la parola di Dio si esprime attraverso tutte le parole. 2) Gesù Cristo ha indicato la chiave di lettura per saper distinguere la parola di Dio nel caos delle parole umane. Nelle celebrazioni liturgiche si usa dire che Antico e Nuovo Testamento sono parola di Dio, ma sarebbe più corretto dire che sono parole di uomo che cerca Dio. Quindi parole ispirate da Dio, perché egli non si nega a chi lo cerca, ma anche formulate e mischiate con la complessità umana, piena di contraddizioni e ambiguità. La verità del Padre non si presenta mai a noi in contesti che esprimono tutta la verità o nient’altro che la verità, ma sempre come piccoli sprazzi di luce parziali e limitati, accompagnati per di più da abbondanti ed equivoche sovrastrutture. E’ il messaggio globale di Cristo, fatto proprio e messo in pratica, che ci fornisce la chiave di lettura per saper riconoscere la verità. Aderire parzialmente al messaggio di Cristo significa riconoscerla parzialmente.
Dopo questo previo esegetico esaminiamo prima il versante pastorale e poi quello liturgico. Sul piano pastorale è mia convinzione profonda che il cristianesimo sia per sua essenza ecclesiale, e cioè comunitario. La Chiesa è il luogo dove si celebrano la fede e la vita (che in Cristo sono un tutt’uno), e senza la dimensione dei fratelli, da sperimentarsi concretamente nella vita quotidiana, la fede resta teorica e astratta.
La Chiesa, perciò, è una realtà irrinunciabile. Per quanto riguarda l’aspetto istituzionale, credo sia necessaria una struttura organizzata con funzione pedagogica, perché i limiti umani hanno bisogno di aiuto per potersi evolvere verso la trasformazione escatologica. Tuttavia credo che una Chiesa dai ruoli rigidi, dove i pastori sono sempre da una parte e le pecore sempre dall’altra, non risponda alle intenzioni di Cristo. Credo invece in una Chiesa dai ruoli intercambiabili dove tutti sono realmente alla pari, anche se ciascuno per quello che ha, secondo i carismi e i talenti ricevuti. Credo in una Chiesa in cui indistintamente tutti siamo alternativamente pastori e pecore dello stesso gregge, senza privilegi e sudditanza. Con questa immagine, come vedo la Chiesa ufficiale? Io credo che esprima molti elementi positivi e che continui a tramandare importanti valori attraverso i secoli e per questi motivi sono contento di far parte della Chiesa. Tuttavia considerando la storia del cristianesimo nel suo insieme, non possiamo nasconderci taluni fatti tremendamente negativi di cui non dovremmo stancarci di chiedere perdono sia al Padre che ai fratelli (cosa che invece ci guardiamo di fare, cercando sempre giustificazioni per non sentirci in colpa). Tuttavia qualunque valutazione si voglia dare alle sue responsabilità, non si può negare che la struttura istituzionale sia comunque parte della Chiesa, perciò non posso fare a meno di prenderla in attenta considerazione. Mi domando: secondo la mia fede personale che cosa trovo valido o non nella Chiesa ufficiale? Non credo al Magistero come luogo di elaborazione e definizione di norme garantite e vincolanti per tutti. Non credo che la Chiesa sia chiamata a questo, e di fatto, al di là di qualsiasi intenzione o pretesa, credo che non lo faccia e non lo abbia mai fatto. Credo che dogmi e dichiarazioni ufficiali non abbiano mai impedito a nessuno di credere ciò che la sua coscienza gli indica,e d’altra parte nessuna definizione ha mai impedito contrasti, liti, scomuniche, guerre, sanguinosi scontri.
Credo invece che la Chiesa esplicita e visibile sia importantissima come luogo di celebrazione. Credo irrinunciabile partecipare alle celebrazioni ufficiali (anche quando sono impostate o eseguite male) che sono garanzia di comunione ecclesiale, in nome di Cristo, al di là di opinioni personali, divergenze, contrasti. La celebrazione eucaristica garantisce il convergere delle intenzioni, anche se queste intenzioni possono essere diverse per ciascuno, cosa che sovente non è possibile sapere perché nessuno può verificare quelle altrui. Può anche capitare di celebrare insieme con intenzioni in contrasto tra loro, però una cosa lega tutti come punto comune di riferimento: la speranza di vedere in Cristo il superamento delle contraddizioni, e questa è comunione ecclesiale.
Una volta pensavo che ci fosse differenza tra chi ha una migliore o una peggiore comprensione della realtà divina, mentre oggi fui rendo conto che le contraddizioni di chi è più avanti su questa strada non sono minori delle contraddizioni di chi è ancora lontano. Noi siamo legati alle contraddizioni per essenza (infatti siamo il contrario di Dio) e allora se noi dovessimo formare gruppi o comunità tenendo conto della maggiore o minore maturità di ciascuno, non arriveremmo mai a niente. La Chiesa è importante come comunione di persone, anche diversissime, che tuttavia hanno realmente fede in Cristo, come veicolo per andare al Padre. Un altro punto fermo della mia fede è che la Chiesa esplicita è solo una parte della Chiesa di Cristo, mentre per l’altra parte solo Cristo conosce i confini. Di fronte alla Chiesa la mia posizione è di ‘et — et’. Chiesa ufficiale, esplicita, con celebrazioni canoniche, autorità costituita, documenti ufficiali, e contemporaneamente ricerca ed esperienza di nuove forme di celebrazione. Una ricerca e una esperienza che non siano solo chiacchierare e discutere, ma soprattutto celebrare insieme. Come? E’ tutto da inventare. Credo che lo spazio inesplorato sia enorme. Il riferimento esegetico a questa posizione di et — et lo trovo preciso e puntuale nella frase: il discepolo del Regno dei cieli estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche. Tra l’altro credo che questo sia il senso vero della parola ‘tradizione’: tradurre al presente ciò che vale riproponendolo in modo adeguato ai tempi, e non ripeterlo così com’ è stato espresso e codificato.
Considero senza senso l’aut — aut: o dentro o fuori la Chiesa, con tutto ciò che significa. Il concetto di scomunica lo considero inconciliabile con il cristianesimo. Allo stesso modo sento ingiustificato e senza senso il concetto di Chiesa parallela, perché considero i’et — et come una treccia per camminare assieme, con un capo che rappresenta la parte ufficiale e l’altro il cammino personale fatto di scoperte vissute: né parallele, né divergenti. Possiamo riportare questa immagine a quella nota della radura e della giungla. Personalmente non voglio restare fisso nella radura ma neppure nella giungla, e tuttavia scelgo decisamente di lavorare sul versante giungla, pur lavorando volentieri, quando capita, anche nella radura. Scelgo di vivere in contatto continuo con la radura, ma contemporaneamente di lavorare nella giungla, tentando di aprire nuove possibilità e nuove strade. In altre parole credo in una Chiesa aperta, dove alcune cose sono chiare, altre sfumate, altre non si sa se ci sono; ma tutto è legato assieme, in un’unità che è più grande di noi, un’unità che è inutile voler delimitare inequivocabilmente nell'illusione di sentirci più tranquilli e protetti. Dobbiamo rassegnarci al fatto che non possiamo vedere noi i confini divini, e dobbiamo aver fede che al di là delle nostre possibilità di capire, la Chiesa di Cristo è sempre più grande di noi. Perciò dobbiamo muoverci verso la direzione che sentiamo più convincente, pur sapendo che molti versanti resteranno sfumati e misteriosi.
Questa immagine di Chiesa mi piace particolarmente anche perché da un lato offre la possibilità di farsi figli, di percepire un padre comune, di sentirsi chiamati a compiere l’opera del Padre, e contemporaneamente di provare un rispetto totale delle posizioni altrui, comunque siano. E’ un atteggiamento che permette profonde convinzioni e ferme determinazioni da un lato, ma anche tutto l’ascolto necessario dall’altro. Un pluralismo coinvolto, insomma, che permette di proporre se stessi e contemporaneamente di rispettare gli altri, ossia un’autentica tradizione: fedeli ai valori del passato, e contemporaneamente attenti ai segni dei tempi. In altre parole una Chiesa che consente la realizzazione di quella spiritualità giardino che mi è cara e per la quale sto cercando di giocarmi la vita.
Sono ben cosciente del rischio che, intesa male, quest’immagine possa far credere che “tutto va bene”, mentre questo non è affatto vero. C’è un punto fermo irrinunciabile sul quale tutto si misura, ed è l’essenza del messaggio di Cristo: amore gratuito e disinteressato con disponibilità applicata. Senza questi frutti tangibili e visibili, allora tutto diventa ipocrisia. In questa spiritualità giardino ciascuno può piantare le sue piante, zapparle, concimarle, innaffiarle, in un ambiente dove ci sono altri con i quali ci si confronta, si ricerca, si sperimenta, si celebra insieme. Ma ciascuno sviluppa i suoi talenti personali e porta avanti il proprio cammino. Questo costruire giardini per il Regno di Dio è fare della propria vita un’opera d’arte, è coniugare insieme felicità e salvezza: si potrebbe dire felicitezza.
Sul versante liturgico credo in un unico sacro/profano, che nella nostra comunità si esprime come chiesa/salotto o orologio eucaristico. Una spiritualità che chiede di fare i conti con il Padre momento per momento, altrimenti si è già in difetto. Non c’è equilibrio nel vivere bene, anche molto bene, certi momenti di spiritualità, e poi fare altre cose meno importanti, cosa che di fatto significa farsi poi i fatti propri. Il velo squarciato del tempio rivela il senso del sacerdozio comune a tutti i fedeli: quello spirito a cui siamo chiamati tutti per il solo fatto di guardare a Gesù Cristo. Credo che il sacerdozio esistenziale (comune) sia di natura divina, mentre quello ordinato sia un semplice servizio alla comunità, cosa che non è svalutativa per i preti, perché nulla impedisce loro di vivere in pienezza il sacerdozio esistenziale (cosa che ciascuno può fare in quanto cristiano, non in quanto ordinato). Certo scegliere di farsi ordinare prete sarebbe assurdo senza una sufficiente coerenza, senza un’identità tra il dire e l’essere. Rendersi pubblicamente sacerdote, ricevendo l’ordinazione, dovrebbe essere sempre espressione di una coscienza sacerdotale profonda: dato che sono sacerdote mi metto al servizio. Ma l’ordinazione in se stessa è una necessità organizzativa e pedagogica, non un fatto di coscienza. Come dicono anche i teologi è sul piano dei mezzi, mentre il sacerdozio comune/esistenziale è sul piano dei fini.
Questo unico sacroprofano mi ha insegnato a vivere le esperienze ascetiche e mistiche nel quotidiano, e oggi mi accorgo di vivere in spirito di preghiera talune cose che tutti fanno senza porsi il problema che possono essere preghiera. Certe esperienze mistiche accadono casualmente a tutti, mentre la mia ricerca è il tentativo d’imparare a non lasciare al caso queste esperienze, è la convinzione che sia possibile governale, stimolarle, provocarle; che sia possibile mettersi nella condizione ideale per viverle il più possibile intensamente, abbondantemente, frequentemente. Nella nostra vita comunitaria abbiamo fatto molte esperienze di liturgie stimolanti, creative, e abbiamo vissuto momenti veramente toccanti che sono un grande stimolo a continuare il cammino. Queste esperienze ascetico/mistiche possono diventare emozioni governate e messe alla prova secondo le indicazioni esegetiche di S. Paolo e S. Giovanni. Non sono casuali, ma stimolate da scelte e metodi capaci di essere messi alla prova per vedere quali sono i frutti. Come esperienza molto significativa e creativa ricordo la nostra “tradizionale” eucarestia silenziosa notturna che ha ormai prodotto profondi risultati su alcuni, e anche su di me. Il notturno è una nostra caratteristica, è un elemento incidentale di questa particolare celebrazione liturgica che resta un’eucarestia silenziosa: eucarestia perché è rendimento di grazie a Cristo nella memoria di lui, silenziosa perché non c’è un canone, una struttura liturgica ben scelta e proclamata, lasciando questo aspetto interamente allo Spirito, secondo i suoi desideri. Considero l’ESN nella sua globalità il frutto più importante del nostro cammino comunitario.
Domanda: L’ESN resta pur sempre spiritualità straordinaria. Che significa invece fare esperienze ascetico/mistiche nel quotidiano?
Risposta: Fare esperienza ascetiche e mistiche durante una preghiera notturna è, si può dire, una cosa normale. Ma si possono fare anche esperienze ascetico/mistiche in circostanze che, secondo i tradizionalisti, sono definite profane. Percepire la realtà come un unico sacroprofano porta a riconoscere l’esperienza ascetiche e mistiche anche in quelli che sono momenti di vita quotidiana normalmente definiti profani. Per chi divide il sacro dal profano, il primo è luogo dell’esperienza mistica e del cammino ascetico, mentre il profano è un’altra cosa, di secondaria importanza. Invece in una concezione di unico sacroprofano non esiste più un luogo riservato alla spiritualità, ma, come dice Jean Lafrance nel suo libro “La preghiera del cuore”, è possibile vivere in modo arido le orazioni e poi scoprire il proprio cuore in “flagrante delitto di preghiera” durante i lavori domestici. Sono esperienze possibili al di là dei confini del sacro.
Oltre quindi a certi aspetti specifici di spiritualità straordinaria, che sono tutt’altro che disprezzabili, considero fondamentale la spiritualità ordinaria e quotidiana. Si possono vivere in equilibrio, et — et, gli uni e gli altri. Quanto è minore è la maturità spirituale, tanto più si tende ad apprezzare i momenti straordinari; ma a mano a mano che la maturità cresce si avverte invece sempre più importante la cadenza quotidiana e sempre meno quella straordinaria. Anche nell’anno liturgico sento ormai molto valido il tempo ordinario, e sento significativi l'avvento, la quaresima, il tempo di Pasqua e di Pentecoste, solo nella misura in cui diventano tempo ordinario, diventano cadenza quotidiana. Ricordo quella formidabile espressione di Miguel Unamuno: “beato colui le cui giornate sono tutte uguali, ha vinto il tempo e tutta la sua vita è una preghiera”. Giornate tutte uguali non nei loro dettagli, ma nello spirito, nella cadenza quotidiana, che scorre uniforme e liscia come il fondo del fiume.
Domanda: Come si possono provocare e governare le esperienze ascetico/mistiche nel quotidiano?
Risposta: Siamo sul piano delle conseguenze automatiche. Facciamo un parallelo con le ispirazioni artistiche. Queste possono venire per caso, ma l’artista che vuole sviluppare al meglio le sue possibilità si concentra tutto il giorno sul suo lavoro, e proprio attraverso questo atteggiamento vede manifestarsi al meglio le sue ispirazioni. Allo stesso modo certe esperienze significative e toccanti possono nascere per caso, ma chi le desidera lavora in modo da provocarle. Un esempio caratteristico è dimostrato da chi portata avanti con perseveranza la sua meditazione quotidiana, senza stancarsi anche nei momenti di aridità. Il risultato è taluni momenti di grazia molto intensi e significativi che riesce a vivere, e che non conoscerebbe senza la sua applicazione costante. In altre parole si possono creare delle condizioni ottimali per avere una esperienza dove avvenga l’incontro col divino, pur senza alcuna garanzia che avvenga. Sta a noi metterci nelle condizioni ottimali per accogliere il dono dello Spirito, e l’esperienza non riuscita può essere vista come incapacità di accorgerci di quel che si propone a noi in permanenza: lo Spirito che sta alla porta e bussa, mentre noi sovente non ce ne accorgiamo o non siamo capaci di aprirgli.
Domanda: Fino a che punto si può capire la realtà divina e sapere di essere sulla strada giusta?
Risposta: Prima di tutto siamo avvolti nel mistero e siamo un mistero noi stessi, e, se abbiamo la pretesa di capire o conoscere esattamente cosa avviene dentro di noi e intorno di noi, siamo dei grandi illusi. Credo che ci sia da un lato una disponibilità permanente del Padre, e dall’altro una ricerca dell’uomo che si scontra con mille ostacoli davanti ai limiti strutturali della natura, che certe volte nascono da cattiva volontà dell’uomo e certe altre volte dipendono da cause esterne. Vi sono tanti e tanti ostacoli, sovente imponderabili, che ostruiscono la via, impediscono l’incontro, rendono difficile il contatto con la realtà divina. Perciò cerco di fare quello che posso e lascio al Padre il resto. Nei momenti in cui questo atteggiamento vive realmente in me, mi accorgo che sono contento di quanto mi accade, nella fiducia che se i miei sforzi non hanno risultati vi sarà un motivo, e non me ne dolgo perché so che non ha importanza il singolo atto ma l’insieme, e posso imparare a governarmi in senso globale procurandomi e vivendo mediamente un certo numero di esperienze che altrimenti resterebbero a me sconosciute. I frutti, quando ci sono (e nel mio caso sarei cieco e stolto a negarli), mi dimostrano che vale la pensa di proseguire su questo cammino.
Terza comunicazione preliminare
6 ottobre 1987
Questa sera la premessa esegetica è: «sia fatto a voi secondo la vostra fede». Sul versante psicologico la stessa frase può essere riproposta con le parole di Pirandello: «così è se vi pare». In pratica è come dire che la propria realtà sarà conseguenza automatica dell’impostazione che ognuno darà alla propria vita. Gesù insiste molto su questo versante: chi riconosce un profeta sarà anch’egli profeta, chi perdonerà sarà perdonato, chi donerà agli altri riceverà cento volte tanto e la vita eterna. Un altro fondamentale riferimento esegetico è il monito relativo all’abito nuziale nella parabola degli invitati a nozze. Per abito nuziale s’intende un atteggiamento innocente. Siamo tutti invitati a ricevere la grazia di Dio che si propone a noi con grande abbondanza e generosità, ma come ci poniamo di fronte a questo dono? La nostra tendenza, un po’ per temperamento e molto per educazione, è quella dello scetticismo, della diffidenza, della paura di essere ingenui, di far brutta figura, di restare scottati. Mettersi sulla difensiva significa però leggere gli eventi secondo pregiudizi, che ne deformano e incanalano il senso in schemi precostituiti svalutando ogni spinta alla conversione e al cambiamento.
Scetticismo e diffidenza sono grandi ostacoli alla fiducia, e così, per paura di perdere, si finisce per non riconoscere le opportunità che ci vengono messe a disposizione, si finisce per perdere l’occasione. L’abito nuziale è, al contrario, un atteggiamento innocente, che non parte da tesi precostituite, ma si pone in ascolto di tutto ciò che si può incontrare sulla propria strada, nella fiducia di riuscire prima o poi a riconoscere il messaggio divino in mezzo al caos delle parole umane. Fiducia, perseveranza, cammino continuo verso una meta che non sappiamo se sarà mai raggiunta, infaticabile ricerca di qualcosa che non sarà mai capita fino in fondo: è un atteggiamento che rispecchia quello del Padre che ci sta sempre accanto, ci dà fiducia, ci stimola incessantemente verso il meglio; una fiducia che non si può capire fino in fondo, eppure, se viene accolta con abito/atteggiamento innocente, produce abbondanti frutti, anche se neppure questi riusciamo a capire nella loro pienezza, perché, per nostra natura, troviamo il modo di sottovalutarli sempre.
Questo doppio richiamo esegetico: sia fatto a voi secondo la vostra fede, che ci preannuncia le conseguenze automatiche del nostro atteggiamento, e poi l’esortazione a un atteggiamento innocente, di fiducia, aperto al nuovo, non so dove mi potrà portare, ma sento che mi conquista e mi entusiasma.
E veniamo ai metodi. Essi sono strumenti che possono aiutare a camminare sulla strada scelta, e possono servire non solo sul versante consapevole, ma anche per eliminare quegli ostacoli che emergono dall’inconscio. Darsi dei metodi è indispensabile per superare le difficoltà che ci vengono dal “maligno” o, se si preferisce, dalla malignità della natura umana, che tende a portarci fuori strada. Lo scopo di darsi dei metodi è un no e un sì: un no all’ipocrisia (c’è l’ipocrisia conscia e quella inconscia) e alla velleità (che significa volontà artificiosa, ossia porsi delle mete senza una reale e concreta determinazione a volerle realizzare). Ipocrisia inconscia e velleità vanno sempre a braccetto, e sono difficili da capire perché talvolta carpiscono la nostra buona fede (e non dimentichiamo che la buona fede è sovente il contrario della fede). Questo deciso no significa anche, in prospettiva, un no alla depressione, allo scoraggiamento, ai sensi di colpa, che sono conseguenze automatiche di ipocrisia e velleità. I metodi hanno lo scopo di aiutare a non cadere in questo versante negativo. Un sì invece alla trasparenza e alla coerenza, e, come conseguenza automatica, alla speranza e a tutto ciò che contribuisce a formare uno stato d’animo positivo.
Dei metodi comunitari che abbiamo scelto, richiamo gli aspetti fondamentali. Il primo è la condivisione continua, che produce un tipo di attrito capace di portare frutti molto positivi, se viene visto e utilizzato come un amico. In un primo momento questo attrito irrita e dà fastidio, ma l’importante è continuare, perché se di fronte all’attrito ci si sgancia e si fugge, allora i frutti non ci saranno. Chi invece si costringe a continuare vedrà immancabilmente la realtà trasformarsi, e imparerà a essere capace di superare le difficoltà senza lasciarsi turbare. Come dice il vangelo, se qualcuno ti chiede di fare un miglio tu fanne con lui due: non solo affrontare la fatica, ma andare più in là di propria iniziativa, e tutto cambierà aspetto. Ricordiamoci che gli sforzi non servono a niente: ci vogliono i supersforzi. Il nostro forzarci a una condivisione/attrito è un po’ come mettersi su un binario con due rotaie che ci costringono, ma tra queste due rotaie abbiamo il nostro spazio di libertà e possiamo muoverci personalmente, secondo ciò che crediamo valido. Se scegliamo questo binario come nostra schiavitù preferita, possiamo costruire al suo interno la nostra vita e il nostro cammino, coniugando insieme condizionamenti e aspirazioni. E’ il massimo di libertà che possiamo raggiungere, mentre se ci illudiamo di poter eliminare i condizionamenti non saremo mai liberi, perché saremo perennemente fuorviati da questa utopia. La condivisione/attrito è un metodo fondamentale al quale siamo un po’ tutti costretti per il solo fatto di vivere. Una certa condivisione/attrito la viviamo tutti, ma certe volte la sperimentiamo e la utilizziamo controvoglia perché non l’abbiamo scelta, e questo può portare a conflitti talvolta cruenti. Una scelta consapevole e volontaria di condivisione/attrito può portare invece a frutti molto diversi. Noi siano poco consapevoli di quello che vale, ma già quel poco può dimostrare che i frutti possono essere succosi (anche se continuiamo a sprecarne gran parte). Insomma se l’attrito viene visto come un nemico si finisce per lasciarsene angosciare e squilibrare, mentre se considerato amico può essere efficacemente usato per trasformare se stessi e l’ambiente di vita attorno a sé. La condivisione/attrito è un metodo che porta in particolare un frutto straordinario: la fiducia. E’ infatti impossibile continuare in un rapporto così difficile come è quello di una stretta condivisione senza che nasca un autentico rapporto di fiducia. Se così non fosse il rapporto non reggerebbe, e ciascuno se ne andrebbe per la sua strada. Fiducia quindi nel rapporto con gli altri, e nel proprio cuore gioia, pace e serenità: questa è la conseguenza automatica della condivisione/attrito.
Ma per produrre i frutti migliori deve essere incanalata secondo precise caratteristiche. Quelle da noi scelte, e a me più care sono:
1) l’esplicito
2) la collaborazione spirituale
3) la fedeltà creativa.
1) L’esplicito significa eliminazione di ogni moralismo: via ciò che è precostituito, via le barriere che creano pregiudizio. Ciò che interessa è conoscere la realtà così com’è: le valutazioni si faranno in un secondo tempo. Se invece si conservano degli a-priori, certi codici di valutazione precostituiti, certi pregiudizi come: “quello è scortese”, “questo non va fatto”, “certe cose non bisogna dirle”, allora è chiaro che non si vuole l’esplicito. Se ben capito e messo in pratica l’esplicito porta per conseguenza automatica all’eliminazione delle suscettibilità, dei turbamenti, degli stati d’animo negativi.
2) La collaborazione spirituale non è condividere con qualcuno i propri problemi, cosa che resta un aspetto secondario pur se è positivo avere qualcuno con cui capirsi. L’aspetto fondamentale è il decidere insieme, il saper decidere insieme, il voler decidere insieme. Insomma un radicale superamento dell'individualismo.
3) La fedeltà creativa, che è particolarmente specifica nel rapporto tra i coniugi, può essere però applicata anche a tutti i rapporti di un certo coinvolgimento. Significa mettersi nei panni dell’altro ed essere capaci di vedere di che cosa ha bisogno, significa promuovere l’altro. In proposito c’è un richiamo evangelico: cercate il Regno di Dio e il resto vi sarà dato in sovrappiù, come conseguenza automatica. Si può modificare la frase in questo modo: promuovi l’altro e ti troverai realizzato nella tua realtà più piena. Fai agli altri ciò che vuoi sia fatto a te, e automaticamente riceverai altrettanto. Questi metodi sono complementari tra loro, infatti non è possibile né collaborazione spirituale, né fedeltà creativa senza atteggiamenti espliciti. Se non si conoscono i fatti come sono, se ci sono artificiose interpretazioni a-priori, se non si esprime francamente la realtà come si potrebbe avere un rapporto senza riserve? La collaborazione spirituale (cioè un rapporto di condivisione alla pari) senza la fedeltà creativa (mettersi nei panni dell’ altro) è impossibile.
Anche in Comunità abbiamo delle difficoltà su questi rapporti. Per esempio ci sono state discussioni sul coraggio o meno di esprimersi in modo veramente esplicito, e ancor più sul reale desiderio di accogliere l'esplicito che ci viene detto dagli altri. E’ difficile, ci vuole un profondo spirito di collaborazione e soprattutto bisogna aver voglia di farsi dire le cose. Non soltanto le cose più importanti, che sarebbe infantile tacere una volta scelto l’esplicito, ma anche quanto appartiene a quel versante fatto di riflessioni aperte,d’incertezze, d’interpretazioni, dove i confini non sono così netti.
Esplicito, comunque, non significa dirsi sempre tutto e comunque. Facciamo l’ipotesi che qualcuno dica a un altro: “avrei delle cose da dirti” e supponiamo che l’altro risponda con sufficienza o con ironia, lasciando poi cadere il discorso. Che cosa fare? Se mi faccio avanti e tu non ti fai dire le cose, io credo di aver rispettato il mio impegno all’esplicito. Non posso venire a piantarti in testa con il martello quello che ti vorrei dire: oltre un certo limite sarebbe prevaricazione. Se qualcuno preferisce non farsi dire le cose e lo mostra con il suo atteggiamento, il difetto di esplicito non è di chi non si è fatto avanti; l’esplicito bisogna gradirlo perché possa manifestarsi veramente in tutta la sua fecondità. Bisogna entrare in una certa mentalità, e averne molta voglia. La nostra società ci abitua a un certo modo di rapportarsi al quale si resta facilmente ancorati. Non è facile cambiare mentalità, non è facile apprezzare l’esplicito, che per educazione ricevuta siamo abituati a guardare con diffidenza. Ma l’attrito che ne deriva è positivo solo quando viene visto come un amico prezioso che può insegnare tante cose. Quando invece viene visto come un fastidio e vissuto passivamente in modo non ben controllato, porterà a conseguenze ben poco positive.
Un altro metodo comunitario, anche se non ancora messo in pratica, è la scelta di disponibilità, che è stabilire uno o più versanti sui quali non dire più di no. Ciascuno può personalizzarla come vuole, ma il senso resta sempre scegliere qualcosa sulla quale non dire più di no. E’ un costringersi per essere liberi, così come lo sono i tre voti: una rinuncia per aprire nuovi spazi di libertà. Si tratta di una strada particolare che invita e impegna a comportarsi “come se”. Io scelgo il comportamento di una persona libera, matura, senza condizionamenti interiori, e quindi una persona di un certo livello, un illuminato, una persona consapevole, un uomo di Dio. Lo scelgo, conscio di non essere a quel livello, perché sono convinto che comportarmi “come se” sia un metodo adatto per arrivare ad esserlo: fare per essere, sia fatto a ciascuno secondo il suo comportamento.
L’insieme dei metodi scelti costruisce un laboratorio spirituale che, se bene impostato e condotto, può essere particolarmente efficace per trasformare la propria realtà secondo il modello Cristo. L’efficacia dei metodi scelti si può misurare su particolari parametri e termometri. Indico quelli essenziali. Il richiamo esegetico è: «beato colui che ascolta la Parola di Dio e la mette in pratica». Si tratta di due poli complementari che si possono anche esprimere con le parole di sant’Agostino “ama e fa’ quello che vuoi”. L’importante è che “ama” sia messo in pratica nei gesti e nei comportamenti. “Occupati degli altri e goditi la vita” può essere un altro modo per dire la stessa cosa. Questo è il parametro di fondo, il modello a cui guardare, a cui uniformarsi.
Il termometro invece è lo strumento di misura per capire se si sta realmente camminando sulla linea scelta oppure se si è fuori strada. Il fondamentale duplice termometro complementare è: a) gioia e pace nel cuore; b) disponibilità applicata. Secondo i richiami evangelici:
a) “questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena, una gioia che nessuno vi potrà rapire”, e “questo vi ho detto perché abbiate pace in me”. Quindi se non abbiamo gioia nel cuore, o Gesù è un impostore oppure noi non lo abbiamo ascoltato o capito: sta a noi decidere a quali di queste due ipotesi preferiamo credere. Se non abbiamo gioia e pace nel cuore vuole dire che c’è qualcosa che non va.
b) “dai da mangiare a chi ha fame, cura i malati, ecc.” che significa appunto disponibilità applicata. Il desiderio di aiutare gli altri è una bellissima cosa, ma solo se lo faccio concretamente il senso diventa indiscutibile. Quando questi due versanti, gioia e pace nel cuore e disponibilità applicata, sono vissuti in modo inscindibile, allora diventa possibile coniugare insieme felicità e salvezza. La salvezza, probabilmente, può essere raggiunta in molti modi, grazie alla misericordia divina, ma non credo sia possibile essere felici su questa strada senza provare gioia e pace e senza occuparsi concretamente degli altri, perché senza queste componenti l’illusione scadrebbe presto nell’alienazione e nell’angoscia.
Felicità e salvezza non sono complementari inscindibili, perché si può certamente percorrere la via della salvezza senza essere felice (cosa che avviene spesso). Ma non sono neppure su versanti opposti, e noi, nella Comunità del Mattino, cerchiamo da tempo di coniugare insieme felicità e salvezza. Perché ciò sia possibile parametri e termometri indicati da Cristo devono essere considerati complementari inscindibili: non si può considerare uno solo dei due aspetti senza l’altro, se si vuole camminare sul versante della consapevolezza globale. Si è felici quando gioia e pace nel cuore è condita di disponibilità applicata, quando il godersi la vita è un tutt’uno con l’occuparsi degli altri. Allora si entra in un equilibrio di felicità che è automaticamente salvezza.
Domanda: Si può precisare meglio la differenza tra parametro e termometro?
Risposta: Il parametro è un modello verso cui tendere, mentre il termometro serve per valutare e misurarsi su fatti avvenuti. Il primo sta davanti a noi, mentre il termometro ci sta a fianco.
Domanda: Che differenza c’è tra direzione spirituale e collaborazione spirituale?
Risposta: La prima è un dirigere dall’alto, mentre la seconda è scegliere e decidere insieme, pur conservando ciascuno la sua propria autonomia di coscienza. Mettendosi nei panni l’uno dell’altro si può riuscire a identificare il meglio e arrivare insieme a capire quali decisioni sono più opportune. Altrimenti non si tratta di collaborazione spirituale, ma semplicemente di confidenza. E’ bello avere qualcuno con cui confidar si, ma se questo non porta a scelte consapevoli e valide non si tratta di autentica collaborazione spirituale.
Sintesi schematica
obiettivo:
1) dove andare
2) come andarci
a: l’ambiente
b: se stessi
contenuti:
3) esegetico
a: motivazioni
b: atteggiamenti
c: strumenti di misura
4) teologico/filosofico
a: teologico
b: filosofico
5) pastorale
6) liturgico
metodi:
(costruirsi un laboratorio spirituale)
7) condivisione attrito
a: esplicito
b: collaborazione spirituale
c: fedeltà creativa
8) scelta di disponibilità
termometro:
9) strumenti di misura
a: disponibilità applicata
b: gioia e pace nei cuore
parametro:
10) modelli a cui tendere
a: occupati degli altri
b: goditi la vita
ama e fa quello che vuoi
OBIETTIVO
1) andare al Padre
2) a: — spiritualità giardino (costruire giardini per il Rgno di Dio)
— vita come opera d’arte
— coniugare insieme felicità e salvezza
b: — spirito di preghiera permanente (lo Spirito Santo che prega in me)
— sacerdote esistenziale = farsi MONALOGO
CONTENUTI
3 (esegetico)
a: — nell’essenza è il redentore (Gv 1,1) (tutto sarà trasformato in bene)
— tutto ciò che è mio è tuo (Lc 15,31) (la proposta del Padre)
— sia fatto a voi secondo la vostra fede (Mt 9,29) (conseguenze automatiche)
— il figlio dell’uomo non ha dove posare il capo (Lc 9,58) (non esistono certezze)
— dai frutti si vede la bontà dell’albero (Mt 12,33)
(nulla di garantito a priori — parola di uomo che cerca Dio)
b: — esaminate tutto, tenete ciò che è buono (lTes 5,21) (presa di coscienza)
— mettete alla prova le ispirazioni (lGv 4,1) (discernimento sperimentato)
— l’abito nuziale (Mt 22,11) (atteggiamento innocente)
— estrae cose nuove e antiche (Mt 13,52) (et et: fedeltà e ricerca)
c: — beato chi ascolta la parola di Dio... .e la mette in pratica.
(duplice termometro—parametro complementare)
— perché la mia gioia sia in voi (Gv15,l1) .perché abbiate pace in me (Cv 16,33)
(stato d’animo di chi ascolta)
— dai da mangiare a chi ha fame (Mt 25,31s) (disponibilità messa in pratica)
GESU’ GLOBALE E’ CHIAVE DI LETTURA DI TUTTA LA REALTA’
4 (teologico—filosofico)
a: — Dio trasforma il male in bene — redentore a priori
— fonte della vita — Padre — genitore — coinvolto
— filo diretto coi figli — soffre e gioisce a specchio
— uomo—figlio = dal punto di vista del Padre
— nella Trinità ci sono anch’io
— gli altri uomini sono concretamente fratelli
b: — contrari—complementari (assoluto—relativo = non contrapposti)
contrapposizioni solo tra relativi
assoluto comprende e trascende tutto in sé
trasforma le contrapposizioni in armonia
— uomini si contrappongono fra loro
Dio non si contrappone mai all’uomo
lavora incessantemente per riportarlo a sé
— negativo—male = contrapposizioni al loro interno
bene = trasforma tutto riportandolo a sé
— uomo = contrario—complementare di Dio
Dio in quanto vita, contrario in quanto limite
(vita limitata contraddizione in termini)
— uomo figlio di Dio come relativo figlio dell’assoluto
ab: — uomo = itinerario terreno di Dio
(Dio che non riesce a essere se stesso)
dimostrazione che la vita (vera, valida, definitiva) è una sola (Dio)
— campo d’azione = il mondo
mandato = crearlo e ricrearlo
scopo = trasformarsi e trasformare (entrare nella vita divina)
(compiere le opere del Padre, lavorare dal suo punto di vista,
prendere coscienza che quello che è suo è nostro)
SIGNIFICATO RADICALE: NON PRAEVALEBUNT
Tutto coopera al bene — anche chi è contro di me è con me
non: vade retro satana, ma: satana vieni e vedi: sarai tu a convertirti.
5 (pastorale)
non credo a. una chiesa che impartisce norme e definizioni vincolanti per tutti
credo: — a una chiesa luogo di celebrazione comunitaria di fede e di vita
— a una chiesa dai ruoli non rigidi ma intercambiabili
(tutti alternativamente pastori e pecore dello stesso gregge)
— a una chiesa aperta (quella ufficiale/esplicita è solo una parte della chiesa)
— senza senso l’aut aut (o dentro o fuori la chiesa)
— senza senso formare chiese parallele.
— ET ET: chiesa uffiale esplicita e contemporaneamente:
(ricerca e esperienza di nuove forme di rapporto e celebrazione)
Pluralismo — convinzione e ascolto
(ecumenismo) = determinazione e rispetto, proposte e attenzione
AUTENTICA TRADIZIONE (TRADURRE AL PRESENTE I VALORI VISSUTI)
FEDELI AL GIÀ FATTO E ATTENTI AI SEGNI DEI TEMPI
ET ET COMPLEMENTARE
6 (liturgico)
— un unico sacroprofano
— sacerdozio esistenziale (ordinato = servizio ecclesiale)
— chiesa/salotto
— orologio eucaristico
— ascetica e mistica nel quotidiano
— emozioni ricercate, stimolate messe alla prova
IN PARTICOLARE = eucarestia silenziosa
METODI (per trasformare il conscio e l’inconscio)
no a: ipocrisia e velleità (e di conseguenza a stati d’animo negativi, malignità, rivalse, frustrazioni, scoraggiamento, depressione angoscia, sensi di colpa)
si a: trasparenza; coerenza, coraggio, fiducia, speranza
7) condivisione—attrito:
a: — esplicito (conoscere: via il moralismo, via la suscettibilità
stato d’animo disteso del saggio)
b: — collaborazione spirituale (via l’individualismo — decidere insieme)
c: — fedeltà creativa (via l’egoismo — promuovere-l’altro)
8) scelta di disponibilità:
— costringersi per essere liberi
—scegliersi un versante sul quale non dire più no
— comportarsi come se
COSTRUIRSI UN LABORATORIO SPIRITUALE
TERMOMETRI
9) a: — disponibilità applicata
b: — gioia e pace nel cuore
PARAMETRI
10 a: — occupati degli altri
b: — goditila vita et et complementare
AMA E FA’ QUELLO CHE VUOI
Comunicazione introduttiva
novembre 1987
Gli esercizi spirituali, così come li ha concepiti sant’Ignazio, sono uno strumento particolarmente adatto per capire, per decidere, per scegliere. Ciascuno di noi deve fare qualche scelta, alcune di tipo radicale, altre di tipo più ordinario (può anche trattarsi semplicemente di confermare le scelte fatte). In ogni caso gli esercizi spirituali possono essere un momento adatto per capire meglio sia se stessi che i propri rapporti con gli altri: nel nostro caso per assumere i nostri tradizionali impegni annuali sulla linea di una scelta globale di vita. Quest’anno abbiamo fatto insieme un cammino di preparazione, partendo da una domanda che avevo posto tempo fa: “c’è qualcosa per la quale ti giocheresti la vita? L’hai ben identificata? Sai comunicare agli altri di che si tratta?”. La domanda non era esattamente in questi termini, ma tale era il senso. Ora per questi due giorni di ritiro spiri tuale ho preparato un dossier di 8 fogli: i primi tre sono il riassunto schematico della preparazione che abbiamo fatto insieme, e posso aggiungere che esprimono in sintesi la mia fede personale, e quindi i motivi per cui personalmente mi giocherei la vita. Anche se si tratta di una sintesi ho cercato di richiamare la varie sfaccettature di quanto illustrato nei tre incontri precedenti. Molte delle frasi riportate non sono che modi diversi di dire la stessa cosa. Ritengo che vi sia un legame globale che lega tutto insieme, tuttavia ho sottolineato i punti più significativi, facendo così una sintesi nella sintesi. E se dovessi fare una sintesi estrema direi che il senso di tutta la mia fede è contenuto nel primo versetto del vangelo di Giovanni “Dio è redentore per sua essenza”. Sento che questa affermazione comprende tutto ciò che ho cercato di descrivere, mentre credo che il resto sia un complesso di deduzioni che scaturiscono come conseguenze automatiche di questa premessa. Degli altri cinque fogli uno è un piccolo questionario da fare a se stesso come aiuto a riflettere meglio, tre sono brani di scritti che hanno avuto particolare significato nel nostro cammino comunitario, e l’ultimo contiene quattro mie brevi variazioni su temi evangelici, secondo la spirito della mia fede.
Ricordo ancora l’importanza di riflettere e decidere insieme, cioè il senso della collaborazione spirituale, sottolineando che se è vero che noi seguiamo il pluralismo, questo non significa affatto individualismo. Esprimerò ora, in parte leggendole, alcune istruzioni, in particolare sull’educazione al discernimento, date secondo i criteri degli esercizi di sant’Ignazio.
«Chiedo al Signore che mi prenda con sé, mi offro come Pietro, voglio seguirti per la vita e per la morte, sono pronto a dare la mia vita per te e seguirti dovunque vorrai condurmi». Pietro queste parole le ha dette, ma si è ingannato: la generosità del cuore, la grandezza del proposito non lo hanno messo al riparo di errori. A quali condizioni posso permettermi di pronunciarle? Come posso sapere che una scelta che mi pare buona è conforme allo spirito di Dio? Ci vuole un'educazione del cuore che garantisce al momento buono la validità delle nostre scelte.
Sant’Ignazio parla di “elezione”: che significa? E’ un termine che fa parte del suo vocabolario e richiede qualche spiegazione. Elezione non è soltanto una decisione una volta valutato il pro e il contro: questo è solo un aspetto dell’elezione. Chi fa gli esercizi, viene condotto con Gesù nelle vie dello Spirito. L’elezione diventa l’atto con cui il cristiano, riconoscendo in sé l’azione dello Spirito, si unisce nella sua vita umana a Cristo che nelle piccole e nelle grandi circostanze compie la volontà del Padre. Quella che sant’Ignazio chiama elezione è sintesi di due aspetti: la libertà dell’uomo e l’azione dello Spirito. In altre parole l’elezione non è una cosa piuttosto che un’altra, un lavoro piuttosto che un altro o uno stato sociale piuttosto che un altro: è scegliere Gesù Cristo, e tutto il resto in funzione a quello che si identifica come adatto per sé sulla via di Gesù Cristo.
Una simile scelta, così profonda e vera, per qualcuno può essere un fatto che muta radicalmente la propria vita, mentre per chi ha già preso decisioni di questo tipo l’elezione diventa un’adesione più profonda e più cosciente alla scelta già fatta. In ogni caso ciò che conta è l’atteggiamento di fondo, necessario perché una semplice decisione umana riesca a entrare in un'autentica elezione. Un atteggiamento che è entra re in una dimensione sempre nuova: quella dello Spirito. E una volta identificato l’orientamento di fondo, il traguardo a cui puntare è, per quanto riguarda il percorso, la disponibilità a lasciarsi condurre là dove non sappiamo. Sarebbe ingenuo attendersi dagli esercizi dei miracoli o delle illuminazioni improvvise: orientarsi e riorientarsi nella vita richiede un tempo di maturazione. Gli esercizi possono essere un momento fondamentale per gettare un seme che può germogliare subito, ma può anche germogliare in seguito e non si sa quando. Insomma possono essere una porzione di tempo nella quale non succede nulla, e tuttavia la loro utilità potrebbe rivelarsi successivamente.
Ad esempio se qualcuno dice: non mi sento realizzato in questo stato di vita, mi rendo conto che quando l'ho scelto non ero maturo, e conclude rapidamente di cambiare stato, potrebbe prendere una decisione non abbastanza ponderata. In questi casi è importante capire se è possibile cambiare se stessi in funzione di ciò che si vive, e fino a che punto si è cercato di farlo, perché una scelta di vita crea anche un certo contrasto rispetto a ciò che si è. Si tratta di una scelta di crescita, di maturazione, di trasformazione, e se si fa una certa scelta senza però lo sforzo necessario per realizzarla è chiaro che ci si ritrova in difficoltà, e allora può sembrare che la scelta non sia adatta alle proprie possibilità. Per decidere se è o non è la propria strada bisogna fare una ricerca di adattamento, e quindi porsi fino in fondo il problema prima di decidere di cambiare stato. Infatti, ad esempio, se qualcuno si scoprisse infantile in un rapporto comunitario, non gli basterebbe certo andarsene a vivere da solo per essere meno infantile. Come esempio di maturità umana per compiere una scelta, sant’Ignazio indica che può ritenersi maturo colui che ha definito una propria identità prendendo le dovute distanze nei confronti della famiglia, dei suoi educatori, di coloro che hanno ascendente su di lui; non per rifiutare le loro indicazioni, che anzi ne terrà ancor più conto, ma per riuscire ad essere autonomo, prendendo decisioni secondo coscienza e non per sentito dire. Aggiunge che nella maturità c’è una specie di modestia, l’assenza di ogni settarismo o schieramento a priori, la capacità di non spaventarsi e di non abdicare di fronte alle proprie reazioni emotive: la capacità di non negarle né di farsene influenzare troppo, ma semplicemente di prenderne atto. È importante una certa conoscenza di sé, ma anche un certo distacco dai condizionamenti della propria natura. «Molti rinunciano ad ogni loro agio, si danno da fare per opere di bene, parlano di giustizia e di amore per gli altri, ma in tutto ciò seguono la loro volontà, come dimostra il disappunto che provano appena le cose non si svolgono secondo i loro progetti. Costoro non vanno mai a fondo, o se vi si provano è per piegare la volontà di Dio ai loro desideri. Si serve Dio nella rettitudine del cuore, solo quando si è ‘indifferenti’ a ritenere o a non ritenere la cosa acquisita, e si vuol conservarla unicamente se sarà meglio per il servizio e la lode di sua divina maestà». Un simile ideale può essere proposto solo a persone equilibrate, ma non basta: bisogna mettersi in atteggiamento di ascolto e accogliere l’amore di Dio, perché un simile stato d’animo è possibile solo quando a suscitarlo è il dinamismo dell’amore, e non come semplice risultato di un proprio impegno. Sant’Ignazio propone, come atteggiamento per facilitare questa attenzione, la “terza umiltà” o “follia dell’amore che non conosce più limiti”. Ciascuno di noi può riconoscere in se stesso il desiderio struggente di manifestare il senso di Dio fra gli uomini, di compiere le opere del Padre che, come dice san Giovanni della Croce, “diviene l’unico desiderio dell’anima innamorata”. L’equilibrio sempre dinamico che si stabilisce tra due persone che si amano di amore vero può dare l’idea di ciò che avviene: le due persone hanno ormai una sola volontà, un solo spirito, una stessa maniera di sentire. E’ l’identificazione perfetta in base alla quale si operano le scelte migliori. Venisse pure un angelo di Dio ad assicurare la sua volontà con garanzie tali da non poterne dubitare, dovremmo conservare un atteggiamento di riserva. Altro è l’ispirazione, altro è il modo di riceverla: la prima non dipende da noi, il secondo sì. Impegnamoci dunque a crescere in noi stessi per purificare il nostro cuore nell’amore.
Vorrei rilevare come da un lato si parla di discesa dello Spirito, cioè di qualcosa che non dipende da noi, ma dall’altro lato si insiste anche nel fare tutta intera la nostra parte. Mi ritrovo in questa impostazione, in questo et—et che considero assolutamente determinante. Dobbiamo sapere che c’è l’azione dello Spirito, ma dobbiamo preoccuparci di fare la nostra parte come se quella non ci fosse. Sappiamo che c’è, ma non è su quello che possiamo impostare il nostro lavoro di ricerca. Ricordo che sant’ Ignazio diceva: “fidati di Dio come se dipendesse tutto da lui, ma impegnati come se dipendesse tutto da te”.
Sant’Ignazio distingue tre tipi di elezione: il primo si compie istantaneamente, cioè: Dio muove e attrae talmente la volontà che non è possibile dubitare dell’origine di tale mozione: cioè un’illuminazione improvvisa. Però anche qui c’è il rischio di ingannarsi, e quindi quello che viene richiesto all’uomo è di non confondere questa azione di Dio con la trasposizione che, senza avvedersene, l’uomo può farne. Perciò occorre allo stesso tempo ricevere nella gioia ed essere vigilanti. Si capisce che, se abbiamo un’ispirazione ma non è garantito che sia corretta, questa ispirazione ci serve fino ad un certo punto. Però è importante riceverla e constatarne l’effetto che fa su di noi. Nel secondo tipo di elezione avviene qualcosa di simile solo che avviene dopo un lungo lavoro di giorni, mesi o anni, attraverso l’attrazione o il rifiuto di ciò che stiamo prendendo in esame: quello che sant’Ignazio chiama consolazioni e desolazioni. Riflettendo cioè su certe ipotesi si sentono le consolazioni, che sono stati d’animo positivi, e le desolazioni, o stati d’animo negativi, in un alternarsi dell’una e dell’altra. Su di esse bisogna operare un discernimento per capire se si avverte un’indicazione da cui ci si sente afferrati. Tutto ciò che accade in simili esercizi dovrà essere valutato attentamente, ricordando che tali valutazioni non si possono fare da soli: vanno esaminate in stretta collaborazione con qualcuno che si coinvolge appositamente con la persona che sta facendo l’esperienza. Tale discernimento consisté nel notare, man mano che li proviamo, l’effetto dei nostri sentimenti e dei nostri desideri. Esaminando il perdurare e la qualità del desiderio si può raggiungere infine l’evidenza. Ciò che viene dal demonio ha sempre qualcosa di violento, eccita l’immaginazione, pretende una realizzazione rapida. Il demonio nega il tempo: di qui tante false ispirazioni, vocazioni sbagliate, anche riguardanti indirizzi positivi. Invece ciò che viene dallo Spirito, anche quando ci scuote, anche se l’oggetto che lo propone provoca ripugnanza o l’impulso a tirarci indietro, è in definitiva pacificazione della persona, fiducia in Dio, apertura agli altri. Se dai frutti si conosce la bontà dell’albero...
Per esercitare al meglio questo tipo di discernimento c’è una indicazione particolarmente utile: cercare di identificare quelle che si posso no chiamare le “costanti di Dio nella nostra vita” cioè gli elementi positivi, la grazia di Dio che noi riteniamo di ricevere non in modo eccezionale, ma nella nostra vita quotidiana. Identificando allora gli elementi di analisi e di discernimento potranno chiarirsi alla luce del positivo della nostra vita.
Per passare al terzo tipo di elezione sant’Ignazio dice che qui manca ogni elemento discriminante: non c’è nulla che ci spinge direttamente verso una decisione o verso un’altra. Allora non possiamo far altro che un’analisi della situazione, e decidere in base a elementi che si possono chiamare “morali” o “razionali”: utilizzando le nostre caratteristiche naturali tranquillamente e liberamente. Se non ho elementi che mi colpiscono nel profondo non posso che fare un’analisi razionale, ricordandomi però sempre di circondarla di preghiera, perché non si riduce a un’analisi arida.
Questi tre modi di elezione non si escludono a vicenda, ma spesso si intrecciano insieme l’uno l’altro. Comunque è necessario sottolineare due aspetti: 1) per chi fa gli esercizi: qualunque sia l’oggetto della riflessione, al momento di esaminare le istanze che emergono è indispensabile restare in un’intensa atmosfera di preghiera, o un atteggiamento di autentica contemplazione dei misteri del vangelo e del senso che assume concretamente il messaggio di Cristo nei momenti di vita quotidiana. 2) Quanto al collaboratore spirituale che si coinvolge nel discernimento e nella scelta, come dice Sant'Ignazio «non si volga, né si inclini da una parte o dall’altra, ma stando in mezzo come una bilancia lasci il creatore operare senza intermediario con la creatura e la creatura col suo creatore e Signore». Quando si pensa di aver sbagliato una scelta importante non bisogna aver paura di rimetterla in discussione: non sarebbe giustificato né una fedeltà cieca di pura volontà, né un cambiamento repentino. Discussioni di principio, rivangare il passato, sperare in cambiamenti di struttura non servono a niente: si inganna chi attende la soluzione al di fuori di sé anziché dalla trasformazione interiore del proprio essere.
Se qualcuno pensa di aver perso la sua vocazione, farebbe bene a chiedersi se concretamente ha fatto quello che poteva fare per permettere a questa vocazione, se autentica, di svilupparsi. Perché l’elezione non è mai una realtà statica: o si degrada o cresce. Una inerzia nei suoi confronti causa la sua scomparsa, e qui sant’Ignazio dà un consiglio preciso: «se sorge in te la ripugnanza per cose che prima avevi amato, chiedi al Signore di chiamarti proprio a servire ciò per cui provi ripugnanza, metti questo a servizio di lode della sua divina bontà. Dopo di che se dopo aver lottato questa persisterà, allora sarà chiaro che la volontà di Dio non è da questa parte, e voler continuare in essa sarebbe ostinazione. Se invece, attraverso questo impegno, a poco a poco trovi la pace, è segno che lo Spirito ti aiuta a portare a termine ciò che tu, nei tuoi limiti stavi rifiutando».
Qualunque istanza si sviluppi, verrà il momento in cui si dovrà concludere. Se viene identificato un indirizzo preciso, non ci saranno difficoltà a prendere una decisione, ma se restassi nel vago e nell’incertezza che fare? Si dovrà pensare a un fallimento? Sarà necessario accertare per quali motivi non si riesce più ad avanzare. Riconoscere la realtà è già una scelta, anche se si dovesse confessare che per il momento non si può operarne una più chiara. Le difficoltà non sono eliminate, ma è già molto se si potrà intravedere come sopportarle e avanzare.
Gli esercizi pongono un altro interrogativo: è necessario scrivere? Non necessariamente, e tuttavia uno scritto può aiutare a precisare meglio l’oggetto delle proprie scelte, e a ricordarsene. Infatti noi mettiamo per scritto i nostri impegni annuali proprio a questo scopo. Non c’è bisogno di fare un romanzo, però un breve scritto può aiutare a misurarsi sugli impegni presi e favorisce un reciproco aiuto comunitario.
In conclusione ciò che conta nel nostro comportamento e nelle nostre decisioni è la direzione dello sguardo. In ogni buona elezione l’occhio della nostra intenzione deve essere semplice. Per quanto riguarda gli stessi obiettivi, le decisioni possono variare a seconda degli individui e nelle stesse persone variano con il trascorrere della vita: una buona abitudine al discernimento permette di scoprire, attraverso le molteplici situazioni, i segni dello Spirito; o in altre parole: come il Padre agisce affinché tutto torni a vantaggio di coloro che lo amano. Ciò che avviene negli esercizi somiglia un po’ a ciò che accade in un artista, o meglio ancora, in una persona che ama. Si svolge in lui qualcosa che non dipende da lui, se volesse dominarla finirebbe per ucciderla, per distruggere il meglio di sé. Gli è necessario scendere a patti con una forza che gli viene da altre parti. La ragione conserva una sua funzione, ma non quella abituale. Più che decidere, la ragione deve registrare i fatti, prendere atto dei risultati, confrontarli tra loro e riconoscere che non è capace di prevedere ciò che gli sarà dato di vivere. Contribuisce a preparare una decisione che però le sfugge: è al servizio di qualcosa più grande di lei. Quanto a colui che è oggetto di tutto questo lavorio interiore, ora trasportato fuori di sé, ora ridotto a non capire più nulla, si trova su una strada diretta verso l’ignoto, fino al giorno in cui gli sarà data l’evidenza. Ma anche di questa non potrà fare una sua proprietà sotto pena di inaridire le fonti dell’ispirazione. Una nuova e incessante fedeltà gli è richiesta, e questa, una volta accolta, gli apre nuove avventure e lo stimola a nuove creazioni. Così è di colui che è afferrato dallo Spirito Santo: «in quale via mi sono impegnato?» si chiede sant’Ignazio. La vocazione che lo spinge avanti non è più nell’ordine di un programma dato, ma di una continua invenzione, di una continua creatività nella fedeltà. Qualunque sia la decisione a cui giungeremo alla fine di questi esercizi, il risultato sarà positivo se ci saremo liberati sia dall’amarezza di non trovarci quali avevamo sognato di essere, sia dalla tentazione di essere soddisfatti dei risultati ottenuti. O ti senti in pace, e allora conservati vigilante! Oppure non possiedi la pace: allora lavora per trovarla! Questi esercizi sono un’occasione che ci viene offerta: cerchiamo di non sprecarla.
Per finire due raccomandazioni che riguardano gli impegni annuali che ciascuno di noi vorrà prendersi: l’importante è che l’impegno sia verificabile, perché non prendiamo impegni individualistici ma comunitari, e quindi è fondamentale poterli verificare insieme. Facciamo l’esempio dei tre voti: sono impegni particolari verificabili. C’è una motivazione a monte, ad esempio desidero rinunciare al possesso, ma espresso così resta generico e incontrollabile. Allora io identifico un punto preciso e decido di non possedere niente personalmente, di non avere proprietà personale. Si può discutere se questo mi porta alla liberazione dei possessi o meno, e infatti vediamo che in certi ordini religiosi non si possiede niente, ma si vive in uno stato tutt’altro che povero. Quindi la rinuncia a possedere personalmente certe volte potrebbe anche diventare un alibi di comodo, tuttavia si tratta di un impegno verificabile. Così se io mi prendo l’impegno di essere più consapevole esprimo una motivazione importante, ma praticamente non sufficiente perché non verificabile, non solo dagli altri, ma anche da me stesso, perché l’inconscio può farmi identificare per forme di consapevolezza anche qualche assestamento di comodo. In conclusione l’impegno è verificabile quando è preso a livello comportamentale. Per esempio posso dire: voglio essere più consapevole (motivazione che mi ispira), e per esserlo identifico una cosa pratica, comportamentale: ad esempio, mi impegno a dire almeno una volta la settimana a ciascun comunitario “ricordami che voglio essere più consapevole”. In tal modo l’impegno diventa verificabile, da sé e dagli altri.
Seconda cosa: il problema della differenza tra intenzione e fatti. Spesso si prendono degli impegni con l’intenzione di rispettarli, e poi si considera rispettato l’impegno se l’intenzione permane. Ma questo è un equivoco, soprattutto sulla linea di una nostra impostazione che aspira a risultati concreti e tangibili. Valutare l’intenzione resta sulla linea moralistica, mentre sul piano realistico conta il risultato! Esempio: se io mi trovo in un letto d’ospedale perché sono stato investito da un’automobile e ho le ossa rotte, è praticamente ininfluente sapere se è per colpa mia o per colpa dell’investitore: in ogni caso ho le ossa rotte. Allora mi pongo il problema di non essere investito da un’automobile, indipendentemente dalle colpe, e il mio atteggiamento cambia radicalmente. Se mi preoccupo delle colpe, attraverso sulle strisce, e se mi investono me la prendo con l’automobilista perché si doveva fermare (ma intanto le mie ossa sono rotte). Se invece mi preoccupo di non andare sotto un’automobile non mi interessa sapere se lui ha il dovere di fermarsi o no; mi muoverò io in modo tale da non essere investito. Se prendo l’impegno di non andare sotto l’automobile e poi mi capita di essere investito, anche se per colpa di un altro, il mio impegno non è rispettato. E se lo affermo come impegno preciso, pur sapendo che ci sono molti rischi, chi mi ascolta ha il diritto di pensare che avrò trovato un modo di superare i rischi, e resterà a osservarmi perché potrebbe voler seguire la stessa strada. Se quindi chi ha preso l’impegno di non andare sotto un’automobile finisce investito, potrà anche avere mille giustificazioni, ma avrà dato un cattivo esempio e perderà credibilità. Sono i fatti che contano.
Con questo ho terminato il versante istruzioni, che potrebbe essere apparso un po’ arido, e tuttavia credo sia stato molto importante aver fatto questo sforzo di concentrazione, per entrare meglio nel versante emotivo senza troppi rischi di cadere in suggestioni incontrollate. E ora, buon lavoro!
Questionario a se stesso
Allo scopo di vederci meglio, può essere utile rispondere per scritto alle seguenti domande:
1) Credo di avere la maturità sufficiente per decidere liberamente? c’è qualche motivo specifico che mi fa dubitare di tale maturità?
2) Considerando tutta la mia vita trascorsa, quali grazie di Dio riconosco di aver ricevuto?
3) Qual è il mio desiderio presente? Quale sensazione provo se cerco di respingerlo? e di accoglierlo?
4) Quali ostacoli, provenienti da me, dagli altri, dalle circostanze, sembrano opporsi alla sua realizzazione? Quali elementi sembrano favorirlo?
5) Qual è la reazione di quelli che mi conoscono davanti al mio desiderio?
6) (eventuali altre domande che si -sentono emergere)
La risposta a queste domande deve essere data nella tranquillità e soprattutto nella preghiera; mancando l’una o l’altra è impossibile conservare, nella ricerca che stiamo facendo, la lucidità mentale, la purezza di cuore, l’atteggiamento innocente. Chi si sentisse innervosito o turbato farà bene a interrompere l’esame e rimettersi a pregare.
Spunti di riflessione 1
Una volta, durante una preghiera che si svolgeva nel silenzio notturno, qualcuno ha posato sulla tavola un piatto con del pane e un bicchiere con del vino. Ricordo di aver provato stupore e meraviglia, senza attribuire però al fatto alcun senso preciso. Insieme ai miei fratelli, siamo rimasti ore attorno a quella tavola, in silenzio, nel silenzio di Dio, davanti a quel pane e quel vino. Poi qualcuno ha cominciato a prenderne un pezzo e a berne un sorso, così, in semplicità. E quando pane e vino sono finiti, anche la preghiera si è conclusa.
Che ci fosse comunione fraterna in nome di Cristo, mi sembra incontestabile: ma si è forse trattato di una celebrazione eucaristica? Nella mente dei presenti non è certo mancato il ricordo della Cena del Signore, quindi memoriale senz’altro. Ma la presenza reale di Cristo?
Nessuno dei presenti si è posto il problema in termini di aut aut, neppure l’autore dell’iniziativa, che aveva semplicemente assecondato un’idea del momento. Anche ora, che è trascorso del tempo, continuo a pensare che abbia scarsa importanza chiederselo, e tanto meno volerlo definire. Fatto sta che ricordo quel momento come uno dei più significativi della mia vita: mi sono sentito letteralmente toccare il cuore. Se celebrare eucarestia è incontrare Cristo in comunione con i fratelli, non so sinceramente che cosa potrebbe dirsi “più incontro” di quello.
Il silenzio, davanti a quel pane e quel vino, è durato a lungo. Ci sarebbe stato tutto il tempo di recitare le parole e compiere i gesti della celebrazione canonica. Questo mi fa molto riflettere, lasciandomi degli interrogativi aperti. La differenza è stata di parole e gesti, non di cuore. Ma allora? Sono proprio quelle parole, quei gesti, quel rituale che contano? Dire vale più che non dire? Le parole più del silenzio? Siamo noi, con la nostra azione, a richiamare Cristo? O è lui a donarsi a noi quando trova ambiente e atmosfera accoglienti, quando due o tre sono riuniti nel suo nome? Non so rispondere, però mi piacerebbe dirgli: noi siamo qui e desideriamo che tu sia qui con noi. Sia fatta la tua volontà.
Con questo atteggiamento, sento una profonda serenità e una grande speranza: mi sembra la via adatta per liberare l’uomo da tutti i suoi possessi, anche dal possesso della verità.
Noi, con i nostri limiti, non possiamo che presentare quello che abbiamo capito, e lui non ci chiede certamente di più. L’incontro, la comunione eucaristica, si garantisce su questo reciproco.
Spunti di riflessione 2
«Posso sedermi?» s’informò timidamente il piccolo principe.
«Ti ordino di sederti» gli rispose il re ritirando maestosamente una falda del suo mantello di ermellino.
Il piccolo principe era molto stupito. Il pianeta era piccolissimo e allora su che cosa il re poteva regnare?
«Sire» gli disse «scusatemi se vi interrogo...».
«Ti ordino di interrogarmi» si affrettò a rispondere il re.
«Sire, su che cosa regnate?».
«Su tutto» rispose il re con grande semplicità.
«Su tutto?».
Il re con un gesto discreto indicò il suo pianeta, gli altri pianeti, e le stelle.
«Su tutto questo?» domandò il piccolo principe.
«Su tutto questo» rispose il re.
Perché non era solamente un monarca assoluto, ma era un monarca universale.
«E le stelle vi ubbidiscono?».
«Certamente» gli disse il re «mi ubbidiscono immediatamente. Non tollero l’indisciplina».
Un tale potere meravigliò il piccolo principe. Se l’avesse avuto lui, avrebbe potuto assistere non a quarantatre, ma a settantadue, o anche a cento, a duecento tramonti nella stessa giornata, senza dover spostare mai la sua sedia! E sentendosi un po’ triste al pensiero del suo piccolo pianeta abbandonato, si azzardò a sollecitare una grazia dal re.
«Vorrei tanto vedere un tramonto. Fatemi questo piacere, ordinate al sole di tramontare».
«Se ordinassi a un generale di volare da un fiore all’altro come una farfalla, o di scrivere una tragedia, o di trasformarsi in un uccello marino; e se il generale non eseguisse l’ordine ricevuto, chi avrebbe torto, lui o io?».
«L’avreste voi», disse con fermezza il piccolo principe.
«Esatto. Bisogna esigere da ciascuno quello che ciascuno può dare» continuò il re. «L’autorità riposa, prima di tutto, sulla ragione. Se tu ordini al tuo popolo di andare a gettarsi in mare, farà la rivoluzione. Ho il diritto di esigere l’ubbidienza perché i miei ordini sono ragionevoli».
«E allora il mio tramonto?» ricordò il piccolo principe che non si dimenticava mai di una domanda una volta che l’aveva fatta.
«L’avrai il tuo tramonto, lo esigerò, ma, nella mia sapienza di governo, aspetterò che le condizioni siano favorevoli».
«E quando lo saranno?» s’informò il piccolo principe.
«Hem! hem!» gli rispose il re che intanto consultava un grosso calendario, «hem hem sarà verso, verso, sarà questa sera verso le sette e quaranta! E vedrai come sarò ubbidito a puntino».
Il piccolo principe sbadigliò. Rimpiangeva il suo tramonto mancato. E poi incominciava ad annoiarsi.
«Non ho più niente da fare qui» disse al re «me ne vado».
«Non partire» rispose il re che era tanto fiero di avere un suddito, non partire, ti farò ministro!».
Ma il piccolo principe, che aveva finito i suoi preparativi di partenza, non voleva dare un dolore al vecchio monarca.
«Se Vostra Maestà desidera essere ubbidito puntualmente, può darmi un ordine ragionevole. Potrebbe ordinarmi, per esempio, di partire prima che sia passato un minuto. Mi pare che le condizioni siano favorevoli... ».
E siccome il re non rispondeva, il piccolo principe esitò un momento e poi con un sospiro se ne parti.
«Ti nomino mio ambasciatore» si affrettò a gridargli appresso il re.
Aveva un’aria di grande autorità.
Spunti di riflessione 3
Io sono la fonte della vita:
se vuoi vivere
se scegli di essere mio figlio
la mia vita entrerà in te
e tu entrerai in me
e vivrai per sempre.
E donerò a te la mia coscienza
e mi trasformerò in te
e ti trasformerò in me
e insieme vivremo una vita sola.
Spunti di riflessione 4
Il regno dei cieli è come due fratelli che vivevano contenti e soddisfatti, finché Dio non li chiamò entrambi a divenire suoi discepoli.
Il più grande rispose generosamente alla chiamata, sebbene significasse per lui strapparsi dalla sua famiglia e dalla ragazza che amava e che sognava di sposare. Alla fine partì per un paese lontano dove dette tutto se stesso nel servizio ai più poveri dei poveri. In quel paese vi fu una persecuzione ed egli fu arrestato, accusato ingiustamente e condannato a morte.
E il Signore gli disse: «Ben fatto, servo buono e fedele! Tu mi hai reso un servizio che vale mille talenti. Io ti darò una ricompensa che vale miliardi di talenti. Entra nella gioia del tuo Signore».
La risposta del fratello più giovane alla chiamata fu meno generosa. Decise di ignorarla, di continuare come prima e di sposare la ragazza che amava. Ebbe una felice vita matrimoniale, i suoi affari prosperarono e divenne ricco e famoso. Talvolta faceva l’elemosina ad un mendicante o aveva un pensiero gentile per la moglie e i figli. A volte, inoltre, mandava una piccola somma di denaro al fratello maggiore in quel paese lontano. «Potrà esserti utile nel tuo lavoro per quei poveri diavoli», gli scriveva.
E quando giunse la sua ora, il Signore gli disse: «Ben fatto, servo buono e fedele! Tu mi hai reso un servizio da dieci talenti. Io ti darò una ricompensa che vale miliardi di talenti. Entra nella gioia del tuo Signore!«.
Il fratello maggiore si sorprese quando udì che suo fratello avrebbe ricevuto la sua stessa ricompensa. E ne fu contento. Disse: «Signore, ora che lo so, se dovessi rinascere e rivivere la mia vita, rifarei esattamente ciò che ho fatto».
Spunti di riflessione 5
Poiché la vita non mi appartiene
Sia mio il modo di viverla.
Spunti di riflessione 6
«Innanzi lutto» incominciò piuttosto grave «vi dovete render conto che un gabbiano è fatto a immagine del Grande Gabbiano, è un’infinita idea di libertà, senza limite alcuno, e il vostro corpo, da una punta dell’ala a quell’altra, altro non è che un grumo di pensiero».
I giovani gabbiani lo guardavano stupiti e un po’ canzonatori. Ehi ehi, pensavano, è così che tu c’insegni la gran volta?.
Fletcher sospirò e ricominciò daccapo. «Hm. Dunque» e li scrutò con occhio critico «allora cominceremo dal volo orizzontale». E mentre pronunciava quelle parole si rese conto, cosi, d’un tratto, che il suo amico non era più divino di quanto lui stesso, Fletcher, non fosse.
Senza limiti, eh, Jonathan? – pensò – e va bene. Giorno verrà che ti comparirò davanti, all’improvviso, io, sulla tua spiaggia, per insegnarti una cosetta o due in materia di volo, amico mio.
E quantunque cercasse di mostrarsi tutto serio e severo ai suoi allievi, il gabbiano Fletcher, a un tratto, per un attimo, li vide come veramente erano, e sorrise: non soltanto gli piacevano, li amava. Quello che vide era molto bello. Nessun limite, eh, Jonathan? pensò, e sorrideva. Era come l’inizio di una gara: aveva cominciato a imparare.
Spunti di riflessione 7 (variazioni su temi evangelici)
Il giudizio finale (Mt 25,31—46)
Quando verrà il figlio dell’uomo separerà gli uni dagli altri e dirà agli uni: venite benedetti dal Padre mio, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare. Gli chiederanno: quando? Gli risponderà: ogni volta che avete fatto questo a uno solo dei miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me. Poi dirà agli altri: lontani da me, perché ho avuto farne e non mi avete dato da mangiare. Gli chiederanno: quando? Gli risponderà: ogni volta che non avete fatto questo a uno dei miei fratelli più piccoli non l’avete fatto a me. E se ne andranno, i primi alla vita eterna, e gli altri....
Se ne stavano lì, smarriti. Avevano perso se stessi. Il figlio dell’uomo disse loro: che fate? Gli risposero: non lo sappiamo, non abbiamo più coscienza. Allora il figlio dell’uomo si mise in cammino dicendo: venite con me, torniamo sulla terra. Là è sempre possibile formarsene una nuova.
Il ricco e lazzaro (Lc 16,19—31)
C’era un uomo ricco, e c'era un mendicante di nome Lazzaro che un giorno morì e fu portato nel seno di Abramo. Morì anche il ricco, e stando all’inferno alzò gli occhi e vide Abramo e Lazzaro. Allora disse: Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a bagnarmi la lingua. Abramo rispose: ricordati di come hai speso la tua vita, e sappi che tra noi c’è un abisso invalicabile. Il ricco replicò: allora ti prego di mandarlo a casa di mio padre, perché ho cinque fratelli. Li ammonisca perché non finiscano anch’essi in questo luogo di tormenti. Ma Abramo rispose: hanno Mosè e i Profeti, ascoltino loro. E il ricco: no Abramo, se qualcuno dai morti andrà da loro si ravvederanno.
Abramo rimase ammirato da tanta preoccupazione per gli altri, e mentre l’abisso svaniva gli disse: non è mai troppo tardi, manderò te. La tua fede ti ha salvato.
Lungi da me satana (Mt 16,23)
Gesù disse a Pietro: via da me satana, tu mi sei di scandalo! Ma lo tenne con sé, continuando a condividere con lui la vita fino alla sua conversione.
Le tentazioni nel deserto (Mt 4,1—11)
Il diavolo gli disse: ordina a questi sassi di diventare pane. Gesù rispose: «non di solo pane...». Allora il diavolo lo condusse sul pinnacolo del tempio e disse: gettati giù, poiché sta scritto «gli angeli ti sorreggeranno». Gesù rispose: sta anche scritto: «non tentare il tuo Dio». Di nuovo il diavolo disse: «tutti i regni del mondo li darò a te, se prostrandoti mi adorerai». Gesù rispose: «adorerò solo il Signore mio Dio».
Allora il diavolo si trasformò in angelo e si fece suo discepolo.
Spunti di riflessione 8 (il testamento del Padre)
Per te, uomo che ascolti la mia parola, questo è il mio testamento che ti costituisce erede dei miei beni.
Sappi che la mia creazione non è per governare il mondo: io non prendo parte direttamente alle vicende terrene. La mia presenza nel mondo si attua attraverso mio figlio, e il mio spirito agisce attraverso mio figlio che si fa uomo.
Mio figlio sei tu, se vuoi esserlo. Nel mandarti nel mondo in mio nome ti faccio un dono e ti dà un messaggio.
Il dono è il mio spirito, che è spirito d’amore. Lui ti Suggerirà in ogni circostanza come amare, e amerà in te e per mezzo tuo. Questo dono, che stabilisce un contatto permanente tra te e me, è essenziale al tuo viaggio. Ogni altra cosa è superflua o secondaria, e rischia di rallentare l’azione dello spirito.
Il messaggio è semplicissimo e uguale per tutti: ama.
Tu vai nel mondo per portarmi nel mondo: ama.
In ciò che ti capiterà, negli avvenimenti che accadranno intorno a te, io non c’entro: non cercarmi in essi. Ma io posso entrate in essi attraverso di te. Io sono dentro di te di fronte a ogni evento per riempirlo d’amore e per trasformarlo con amore. Tu ama.
Questa è la mia verità, alla quale puoi attingere come vuoi. I modi di amare trovali da te, in relazione alle tue caratteristiche. Non sbaglierai mai se in ogni situazione la tua scelta sarà sempre del più-amore anziché del meno-amore o del non-amore. Qualsiasi cosa ti accada potrai sempre fare l’unica cosa che conta: amare. Il dono che ti ho fatto, il mio stesso spirito, ti garantisce di poterlo fare.
Voglio che la mia vita sia legata a te, che sei mio figlio. Voglio che tu sia il compimento della mia vita. Da parte mia ho già scelto di lavorare insieme a te, e la mia totale disponibilità ti sta già accanto. Ora è la tua risposta che conta: se anche tu vuoi, allora lavoriamo insieme. Se invece tu non vuoi, se sei incerto, se non ti senti di seguire la mia strada, sappi che, in ogni caso, io non ti abbandonerò. Il mio desiderio di costruire con te è irreversibile, e ti resterà sempre accanto. Così, in qualsiasi momento tu scelga di costruire insieme a me, mi troverai già pronto al tuo fianco.
Non chiederti mai che cosa dipende da me o da te: non ti servirebbe a nulla, se non a confonderti le idee. In ogni caso le tue decisioni le devi prendere tu. Costringerti sarebbe spersonalizzarti, sarebbe vanificare le tue capacità costruttive, sarebbe farti torto.
Un Padre desidera, più di ogni altra cosa, che il proprio figlio cresca e diventi adulto, maturo, responsabile. Non ti voglio acquiescente, non ti voglio succube, non ti voglio sottomesso. Voglio un figlio consapevole e libero di scegliere, e devi essere tu a farlo nella tua piena autonomia. Puoi scegliere in qualsiasi momento della tua vita. Anche subito.