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Perché non globalizzare l’amore?

Ronco di Cossato (Biella) 6 aprile 2003


Perché non globalizzare l’amore?

(rielaborazione scritta)

Qualche mese fa mi è capitato di bucare una gomma in autostrada in un punto dove non potevo far altro che cambiarla. Trattandosi della gomma esterna, per le caratteristiche dell'autostrada in quel punto sono stato costretto a lavorare chinato in uno spazio che andava oltre la striscia della corsia di emergenza. Avevo sempre immaginato che cambiare una gomma in autostrada fosse qualcosa di drammatico, ma quella volta ne ho fatto esperienza diretta. Ho avuto conferma sperimentale di quel che razionalmente già sapevo, ma la differenza sostanziale è che quella sgradevolissima paura che si prova in situazioni del genere, io ora l’ho provata, mentre prima l’avevo soltanto immaginata. Racconto questo fatto per sottolineare la grande differenza tra quello che si sa e quello che si conosce per esperienza. Potrei dire che da molti anni cerco di far tesoro delle esperienze che la vita mi offre, e da tempo scrivo per tentare di comunicarle, per quanto possibile. Non sempre ci riesco, probabilmente, perché comunicare è cosa assai difficile, ma i libri che ho scritto e scrivo si basano sempre su esperienze fatte, e non su studio o su elaborazioni teoriche.


Il tempo presente è particolarmente drammatico, in particolare proprio in questi giorni la nuova guerra nei confronti dell'Iraq crea un senso di angoscia nello stato d’animo di qualsiasi persona sensibile. Ma anche al di là di questa drammaticissima guerra, purtroppo, abbiamo nel nostro mondo molti altri abbondanti elementi d'angoscia quotidiana più o meno appariscenti. Personalmente sento di fare esperienza quotidiana di uno stato d’animo angosciato, anche se le difese psicologiche della natura umana, che per mia fortuna non mancano, tendono a suggerirmi qualche distrazione, quando la pressione diventa troppo forte, dirottandomi su altri interessi capaci di catturare per un po' la mia attenzione. Però, prima o poi, sapere che tanta gente, che tanti bambini soffrono, riporta inevitabilmente lo stato d'angoscia in qualsiasi persona sensibile.

Probabilmente, credo, anche tutti voi provate un simile stato d'animo, ma per quanto mi riguarda c'è anche un'altra esperienza del tutto diversa: da molti anni ormai faccio esperienza di felicità. Posso dire, in piena coscienza, di essere felice, perché la vita funziona in modo creativo, su diversi versanti, come il rapporto con figli, nipoti, fratelli comunitari, ma in particolare nel rapporto coniugale: in quest’epoca di crisi del matrimonio mi è stata concessa la Grazia di Dio, di vivere un matrimonio felice. Fra un paio di mesi, con mia moglie facciamo cinquant’anni di matrimonio, che obiettivamente non sono pochi. Naturalmente continuiamo ad avere anche dei disaccordi, a volte delle difficoltà, e più oltre proverò a spiegare in che senso, ma proprio la dimensione dei problemi che persistono ci aiutano anche a riconoscere quanto è grande il positivo che ci unisce. Insomma, abbiamo un matrimonio felice.


A questo punto qualcuno si chiederà: Ma come? Hai uno stato d’animo angosciato o felice? Com'è possibile metterli insieme? Per anni ed anni, devo riconoscere, credevo che felicità e angoscia fossero in alternativa: o uno è felice o è angosciato. Invece ora posso dire, per esperienza, che da qualche anno sento questo intreccio continuo di felicità e angoscia. Non posso impedirmi di essere felice, ma probabilmente la stessa sensibilità che mi consente una vita ricca di rapporti con tanta gente è la stessa che mi crea uno stato veramente angosciato per le tragedie di questo mondo.


Fatta questa premessa, rammentando che San Pietro esorta a essere sempre pronti a render conto della speranza che è in noi, la domanda fondamentale che i cristiani oggi si devono porre è: si può ancora sperare in un mondo migliore? Personalmente sento che non posso rinunciare a sperarlo, però devo anche aggiungere che qualche anno fa sentivo la mia speranza un po’ più ricca e sostenuta, mentre col passare degli anni mi sembra venga sempre più mortificata dagli avvenimenti. Continuo a sperare, ma penso che per avere possibilità concrete di un mondo migliore bisognerebbe che ci fosse un cambio di mentalità. Non però dell'uno o dell’altro, che sarebbe insufficiente, ma un cambio di mentalità, diciamo così, collettiva, capace di creare impostazioni sociali nuove, differenti, positive. E tuttavia, se è già difficile che uno cambi mentalità, figuriamoci un po’ tutti insieme! Forse soltanto dei folli, chiamati a sperare contro ogni speranza, possono ipotizzare un futuro migliore.


Per uscire dal generico, si può dire che la mentalità comune a tutti i livelli si basi sulla voglia, se non sull'autentica mania, di aver ragione. Si potrebbe aggiungere che tutti i conflitti, grandi o piccoli che siano, nascono in qualche modo da questa mentalità. Eppure basterebbe riflettere un po’ meglio sul senso stesso di ragione o torto per diventare un po’ più aperti e tolleranti verso le posizioni altrui. Facciamo un esempio: quando vediamo litigare due bambini di età diverse, diciamo uno di dieci e uno di cinque anni, è normale intervenire su quello di dieci e dirgli: sei più grande, cerca di trovare una soluzione. E non equivale forse a dirgli: sei più grande perciò hai torto? Può anche avere ragione lui, ma resta ovvio stimolare soprattutto il più grande a trovare qualche soluzione: più grande significa più maturo, capace di ragionare e capire meglio. E di avere quindi una maggiore capacità di trovare soluzioni. Tradotto a livello di adulti, quando l’età non conta più, il senso si trasferisce sulla valutazione di maturità, e la stessa esortazione si può tradurre nel dire al più maturo: se tu capisci più di lui, se sei più intelligente di lui, cerca una soluzione invece di arrivare a un aspro conflitto che può portare danni ad entrambi.


Generalizzando l'esempio e traducendolo in pratica, questo significa che quando c’è un conflitto (non semplici e normali disaccordi e discussioni) ma un conflitto che rischia di degenerare sarebbe logico dire al più intelligente dei due: trova tu una soluzione, altrimenti che sei intelligente a fare? Il che è come dire, insomma, che se non si riesce a fermare il conflitto, il torto è tuo, e in senso generale è del più intelligente, cioè di colui che più dovrebbe essere capace a risolvere il problema. Se tenessimo fermo questo assioma: il torto è sempre del più intelligente, potremmo discutere fin che ci pare senza creare danno. Consiglierei a tutti di provare a mettere in pratica un tale principio anche nei rapporti fra amici o nel rapporto coniugale: nel dire ho ragione io diventerebbe spontaneo fermarsi un attimo e dirsi: sto dicendo che io sono meno intelligente. Forse la voglia di aver ragione subirebbe un duro colpo, e per di più, se fosse proprio chiaro che ho ragione io, e quindi l'altro è più intelligente, allora finirei anche per dirmi che devo ascoltarlo di più, che potrebbe avere qualcosa da insegnarmi. Vi sembra un gioco? Una battuta? Un paradosso? Consiglierei a ciascuno di provarci: probabilmente si accorgerebbe di sentir aumentare la voglia di trovare accordi nei disaccordi, anziché radicalizzarli in violente contrapposizioni.


A questa giornata è stato volutamente dato un titolo retorico e provocatorio: perché non globalizzare l’amore? Non un generico volemose bene ma amore inteso come concreta attenzione agli altri, come voglia di mettersi in comune, di creare relazioni. positive. Si sta globalizzando tutto: economia, cultura, scienza, medicina, comunicazioni. E anche, purtroppo, conflitti, guerre, prepotenze, terrorismo, repressioni. Ma non si parla mai di globalizzare l’amore. Esiste in teoria un discorso di ecumenismo, ma sempre in qualche modo legato ad atteggiamenti paternalistici che sotto sotto continuano a insinuare che la mia fede, il mio bagaglio culturale, il mio credo, vale più del tuo. Gesù Cristo ha spiegato che cosa significherebbe globalizzare l’amore, ma poi il suo messaggio è stato strumentalizzato e tante volte è stato anche utilizzato per contrapporsi ad altri, e quindi per esprimere il contrario: nella nostra storia occidentale cristiana, in nome di Cristo abbiamo dato degli esempi di anticristianesimo impressionante, a dimostrazione di quanto possano essere manipolati i messaggi. Gran parte è dipeso dalla mentalità comune: ragione/torto, giusto/sbagliato, buoni/cattivi, tendenza chiaramente presente anche negli atteggiamenti di questi ultimi tempi, da quando è in atto il nuovo conflitto contro il terrorismo: la cosa più importante pare sia stabilire che ci sono i buoni e i cattivi, e quali sono gli uni e gli altri. Dividere cioè l’umanità creando schieramenti e contrapposizioni obbligando a porsi da una parte contro l'altra. Gesù Cristo però non è mai contro qualcuno, ma sempre a fianco di chi è fuori strada. Per recuperarlo, anziché emarginarlo.


Amare i nemici è una proposta che piace a tutti, purché intesa come slogan da non prendere concretamente sul serio. Io li amo, ma se ne stiano a casa loro, lontano, senza darmi fastidio. Altrimenti.... È difficile capirne a fondo il senso perché di solito non facciamo esperienza di rapporti con autentici nemici, e allora il discorso resta sul piano puramente intellettuale. I nemici sono persone lontane, quindi posso amarli perché tanto non mi toccano direttamente. E allora vorrei fare un esempio che può rientrare nelle esperienze di ciascuno: proviamo a sostituire la parola nemici con antipatici. Di persone antipatiche ne conosciamo tutti, quindi un'esortazione ad amare gli antipatici non ha alcun aspetto astratto. L’antipatico è antipatico, interferisce con la mia vita, mi urta, m'infastidisce. Che cosa vuol dire, dunque, amare gli antipatici? Di solito, chi è antipatico viene emarginato, preso in giro, evitato, trattato con malevolenza, col risultato di farlo diventare sempre più antipatico. Allora, cosa vuol dire amare l’antipatico? Concretamente vuol dire comportarsi con lui in modo da aiutarlo a diventare meno antipatico, a diventare simpatico. Questo è amare un antipatico. Senza tenere concretamente comportamenti di questo tipo non si può dire di amare l’antipatico. E allora, se lo capisco, finirò per dirmi: quello è antipatico, tutti lo evitano, tutti lo trattano male. Sai che cosa faccio? Adesso gli telefono, lo invito a mangiare una pizza insieme, lo porto a divertirsi, a ridere e scherzare insieme, e anche per il fatto che probabilmente non si aspetta di essere trattato da persona simpatica, comincerà a diventarlo. E se lo farò più volte forse alla fine diventerà simpatico. Ecco che cosa significa amare gli antipatici. E per i nemici è lo stesso: amare i nemici significa lavorare concretamente per farli diventare amici, rimuovendo le cause d'inimicizia, ponendo attenzione i loro punti di vista, proponendo itinerari comuni. E vuol dire anche, soprattutto, non cadere in atteggiamenti distruttivi che rischiano di creare sempre nuove inimicizie. In proposito, oggi abbiamo il grosso problema degli extracomunitari, che certe volte creano molti difficoltà. Il rischio è di mettere in atto delle difese che finiscono per emarginarli rendendo la loro vita sempre più difficile, col risultato di renderli dei "nemici". Amarli significherebbe invece creare le premesse sociali per una loro dignità che li aiuti a inserirsi equilibratamente con una nuova mentalità. Ma naturalmente, per aiutare il cambio di mentalità altrui, bisogna cambiare anche la propria.


Il fatto è che i conflitti esistono comunque, perché fanno parte della natura umana. A tutti i livelli, politico, sociale, familiare, coniugale. Andare d’accordo non significa avere le stesse opinioni, le stesse idee, gli stessi gusti, come qualcuno potrebbe ingenuamente pensare. Andare d’accordo significa una cosa estremamente più semplice: significa litigare tenendosi per mano. Perché il rischio non è il conflitto, talvolta inevitabile, ma la tentazione di dire: è così? Allora tu vattene di là e io me ne vado di qua, non ti voglio più vedere, togliti di mezzo, non mi dare più fastidio. Che stranezza, soprattutto quando i conflitti scoppiano fra gente che si è scelta, come nei rapporti coniugali o di amicizia! Gli atteggiamenti, invece, dovrebbero essere molto diversi e più costruttivi tra chi cammina insieme sulla stessa strada. E in caso di conflitto dovrebbe prevalere lo stupore: che stranezza, ti conosco, eppure non riusciamo a intenderci. Proviamo a prenderci per mano (magari in senso figurato, pur se è bello farlo anche materialmente), pigliamoci per mano e poi discutiamo, ma sempre tenendoci per mano. Vorrei suggerire a chi non lo ha mai fatto a provarci, e vi accorgerete che tenendosi per mano ci si può dire tutto quello che si vuole, senza prendersela oltre la giusta misura. E il motivo è anche comprensibile, perché nella psicologia umana c’è un timore, nel momento in cui comincia una discussione: c'è il timore che crolli tutto, che si mettano in discussione i principi o i legami di carattere generale. Invece, abitualmente, non è affatto vero! Per esempio, parlo per esperienza, con mia moglie abbiamo spesso discusso, abbiamo passato notti intere a litigare, e abbiamo avuto periodi nei quali avremmo anche potuto sfasciare tutto. Non è stato un matrimonio spontaneamente facile, ma si è consolidato anche attraverso il conflitto. Ma finché ci intestardivamo a provare a non litigare, ogni tanto entravamo in crisi. Quando invece abbiamo imparato a litigare tenendoci per mano, allora tutto è cambiato, perché è diventato chiaro che i disaccordi riguardano singoli aspetti specifici, ma non si sognano neppure di mettere in discussione il cammino di fondo. Con questa tranquillità le discussioni restano comunque irritanti, ma svanisce ogni timore, perché resta sempre chiaro che oggetto di discussione sono singoli punti specifici, e non l’insieme del rapporto. L'esperienza mi ha dimostrato quanto sia importante superare i timori di questo genere, che soprattutto nella fase iniziale dei rapporti (fase che talvolta dura molto a lungo) tendiamo tutti a portarci dietro.


In questi momenti così drammatici della nostra vita sociale, appare sempre più chiaro che per sperare in un mondo migliore bisogna cambiare mentalità, e lavorare attivamente perché le persone umane cambino mentalità. Ma l’ostacolo maggiore è la tendenza comune a dividere l'umanità in buoni e cattivi, con l'ovvia deduzione che sono i cattivi a doversi convertire. I buoni partono dal principio, che non capiscono come potrebbe essere messo in dubbio che loro siano dalla parte giusta, e quindi debbano restare come sono. Questa è un’autentica tragedia, perché fino a quando non ci sarà la conversione dei buoni, non ci sarà neppure speranza di un mondo migliore.


Molti non riescono neppure a capire quale senso possa avere una conversione dei buoni, eppure nel Vangelo ci sono numerosi esempi. Emblematico quello del Fariseo nel Tempio che dice: Ti ringrazio Signore perché io sono giusto e a posto con la mia coscienza, e non come quel peccatore là. La cosa tragica, a pensarci bene, è che questo Fariseo era indubbiamente buono: pagava le tasse, rispettava le regole, digiunava. Era buono, perciò trovava ovvio e positivo continuare a restare com'era. Ma l'ottica di Gesù è diversa: è proprio questo suo atteggiamento a fargli fare un passo falso. Gesù non contesta che fosse buono, non mette in dubbio che pagasse le tasse, non nega che rispettasse le regole, e tuttavia è drastico nelle conclusioni: non va affatto bene essere così, perché c’è sempre qualcosa che non va, qualcosa che dev'essere rivisto e migliorato. Per sua natura l'essere umano non può mai raggiungere un punto d'arrivo, un punto dall'alto del quale possa dire: per me va bene così. Il difetto, quindi, non è avere dei difetti (comunque inevitabili) ma credere di non averne. Si può dire che questo aspetto tipico della mentalità dei buoni è un’autentica tragedia.


I buoni sono coloro che governano il mondo, le nazioni, i popoli, l'economia e tutte le strutture organizzative. Sovente sono autenticamente buoni d’animo (anche se talvolta ci sono dei falsi buoni) ma questo non migliora la situazione. Perché i buoni fanno le regole, stabiliscono come devono essere rispettate, decidono che cosa bisogna fare a chi non le rispetta, intervenendo poi, quando è il caso, anche in maniera cruenta, perché bisogna pur farle rispettare e punire chi non le rispetta, diamone! Ma indipendentemente da qualsiasi valutazione di merito, si tratta comunque di una visione di parte, perché le regole che il cattivo deve rispettare e la punizione che altrimenti gli spetta sono i buoni a stabilirlo, e non buoni e cattivi insieme. Così i buoni, che sono autoreferenti, restano comunque fermi nella convinzione che il mondo vada bene così come l'hanno strutturato loro. Può darsi ovviamente che il loro modello di società sia migliore di quella che costruirebbero i cattivi, e tuttavia non può mai essere interamente positiva, perché comunque unilaterale e quindi prevaricante.


Che cosa significa, dunque, conversione dei buoni? Non è che i buoni devono diventare cattivi, come invece, viceversa, pensano i buoni, e cioè che la conversione dei cattivi avviene quando diventano buoni. Nient'affatto. Se i cattivi diventano buoni non cambia nulla, o poco. Sono entrambi, sia cattivi che buoni, a doversi convertire per diventare altro. In quest'ottica, si potrebbe dire che i cattivi sono meno preoccupanti dei buoni, perché nel loro stato d’animo, sotto sotto lo sanno che non va bene essere come sono, e quindi avvertono già una predisposizione al cambiamento. I buoni invece pensano che il loro modo di essere sia positivo, che vada bene così, e tendono a cristallizzarsi nella loro posizione. A che cosa, dunque, si devono convertire entrambi? A una nuova mentalità nella quale non c'è più posto per una concezione del mondo diviso in buoni e cattivi, ma formato da persone, ciascuna delle quali ha qualche cosa di positivo e di negativo dentro di sé. Taluni avranno più dell’uno, taluni più dell’altro, ma tutti sono chiamati a far crescere il positivo e ridurre il negativo, pur sapendo che nessuno riuscirà mai a ridurlo del tutto.


Chiunque voglia riferirsi a Cristo sa di non poter più dire: sto dalla parte giusta, perché in Cristo non ci sono parti, perché siamo tutti membri della stessa famiglia, siamo tutti figli dello stesso genitore. Per quanto riguarda la conversione dei buoni, basterebbe sottolineare che più si è buoni e più è necessario convertirsi. Così come il più intelligente è tenuto a impegnarsi per superare i conflitti, così si potrebbe dire: tanto più sei buono, tanto più devi convertirti, affinché il mondo diventi un’altra cosa, libero dalla tentazione di creare schieramenti l'un contro l'altro armati.


Questo sarebbe globalizzare l'amore: riconoscersi tutti dalla stessa parte, tutti fratelli, tutti realmente figli dello stesso genitore. Naturalmente problemi da risolvere ce ne sarebbero a josa, perché è fuori dubbio che nella vita pratoica molti creano situazioni negative, pesanti e insopportabili. Ma altro è difendersi da chi crea danno, tenendo però ben presente la necessità di ricercare e ricuperare sempre un tipo d'armonia condivisa (o come minimo un clima che renda accettabile camminare insieme), altro è porsi l'un contro l'altro armati creando conflitti dai quali non si può più uscire. In altre parole creare situazioni diaboliche, tipiche di quelle che i buoni, sovente in buona fede e senza averne intenzione, finiscono per creare con la loro convinzione di dover combattere e punire i cattivi. Globalizzare l'amore sarebbe possibile soltanto convertendoci tutti a una nuova mentalità capace di creare armonia con l'esempio, e non inseguendo qualche illusorio tipo di pace imposta con le armi, di qualsiasi tipo. Chi si sente capace di camminare su questa strada è invitato a prendere il passo, a beneficio di tutti.





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