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Dai racconti del non-dove e non-quando

 

I racconti del non dove e non quando sono stati scritti durante gli anni di vita comunitaria e appesi via via in bacheca sia per comunicare intuizioni, sia per riflettere in modo paradossale sui vari problemi di convivenza. Ne riporto alcuni.


Una guida che sa il fatto suo

«Vieni a visitare il castello della vita, e troverai un tesoro». Si era sentito rivolgere questo invito in modo così insistente, che alla fine il signor Chiunque si trovò nel vestibolo a guardarsi attorno. L'ambiente era deserto: che fare? Sulla parete di fondo una scritta: "scegli la tua guida!", e sotto due porte con scritto, su l'una Sig. Autoritario e sull'altra Sig. Arbitrio. Chiunque restò un po' incerto, poi, con timorosa curiosità, aprì la prima.
Immediatamente un distinto signore vestito di scuro, tutto compito e ordinato, lo interpellò con una voce suadente e un sorriso severo: «bravo, hai fatto la scelta giusta! Vieni con me, seguimi, fai quello che io ti dirò, e vedrai che ti troverai bene. Ho già preparato tutto, per il tuo bene. Tu abbandonati e non preoccuparti di nulla: ti condurrò dritto al tesoro». Chiunque racchiuse in fretta la porta. «Non mi piace» pensò «sembra tutto così facile! Ci dev'essere qualcosa sotto».
Aprì l'altra porta e si trovò di fronte un uomo grassoccio e un po' sudato, in maniche di camicia, adagiato su una comoda poltrona con un bicchiere in mano. Sembrava senza pensieri. «Ah ci sei anche tu?» gli disse «entra e fa come fossi a casa tua. Mettiti a tuo agio senza porti troppi problemi, tanto, credimi, questo famoso tesoro non è mica così importante». Chiunque richiuse in fretta anche questa porta. «Non mi piace» pensò «non mi pare una proposta molto promettente. A me il tesoro interessa».
Mentre rifletteva perplesso, all'improvviso si accorse di una giovane signora che lo guardava con intenzione. «E questa da dove spunta?» si chiese senza trovare risposta. Era dolce e decisa, attraente e dignitosa, sorridente e fiera. «Vuoi venire con me?» si sentì chiedere. Restò sconcertato in silenzio: la trovava affascinante, ma intuiva che doveva essere anche molto esigente; si sentiva, attratto, ma gli sembrava una persona molto impegnativa. «Lo sono» gli rispose la giovane signora, come se gli avesse letto nel pensiero, «e tu forse vuoi essere disimpegnato?». «Nient'affatto» rispose Chiunque dopo aver riflettuto un po', «come ti chiami?». «Il mio nome è Coscienza. Allora vieni?». «Va bene, vengo» replicò Chiunque «ma da dove entriamo? Non ci sono altre porte che quelle due».
La signora Coscienza si mise a riflettere. "Ci vuole un po' d'inventiva" pensava tra sé. «Hai una corda o qualcosa di simile?» gli chiese. Egli rispose negativamente. «Dammi la cintura dei pantaloni» gli disse. "Speriamo bene" pensava tra sé Chiunque mentre se la stava sfilando 2qui la situazione comincia a farsi instabile". Ma la signora Coscienza, che non aveva bisogno di sentirlo parlare per capirlo, soggiunse: «così sarai costretto a stare più attento a come ti muovi».
Poi aprì entrambe le porte e con la cintura legò strettamente fra loro le due maniglie, in modo da bloccarle aperte. «Speriamo che il trucco funzioni» disse. Poco dopo il signor Autoritario si affacciò nel vestibolo: «Chi ha bloccato la porta?»" tuonò con voce alterata. Anche il signor Arbitrio uscì nel vestibolo seccato: «Non si può neppure più stare in pace a casa propria?». E siccome tra loro c'era un'antica ruggine, si accusarono l'un l'altro e cominciarono a litigare.
La giovane signora  prese il compagno per mano: «vieni» gli disse «sono ormai talmente impegnati a contestarsi a vicenda che non ci daranno più fastidio. Lasciamoli fare: il castello è a nostra disposizione e possiamo esplorarlo come ci pare». Chiunque era ammirato da tanta maestria. "Questa è proprio un tipo che sa il fatto suo, sarà faticoso starle dietro!" pensava mentre la seguiva compiaciuto. Mano nella mano, la donna continuò il cammino con la sua espressione dolce, decisa e sorridente: si sentiva felice di essere la coscienza di chiunque.

(pubblicato in Semi da coltivare)

Dalla parte dei mostri

Un giorno stavo ascoltando la radio. A un tratto venne messa in onda una telefonata nella quale, con toni appassionati e drammatici, una voce femminile denunciava un fatto spiacevole. Numerosi cani randagi erano stati rinchiusi in un grande recinto e poi, con delle ruspe, era stato rivoltato il terreno schiacciando e seppellendo quelle povere bestie. La voce che raccontava concludeva indignata: "poveri cani, non erano mica dei mostri per essere trattati così".
Di fronte a questo discorso il mio cuore non ha retto. Ho preso il telefono, e quando sono stato inserito nella trasmissione ho detto: "d'accordo sull'indignazione, ma devo anche protestare vibratamente a nome di tutti i mostri. Che colpa ne abbiamo se siamo nati così? Non siamo anche noi esseri viventi? E' cristiano continuare a dire che a noi è lecito fare qualunque cosa?". Come risposta ho avuto solo qualche risatina. Nessuno ha capito che era un discorso serio.

(pubblicato in Semi da coltivare)

Può, Budda, vivere in comunità?

Quella mattina, mentre attraversava come al solito il chiosco del monastero, si trovò davanti la scritta: SE INCONTRI BUDDA, UCCIDILO! Restò un po' interdetto, ma poi si ricordò d'aver già fatto testamento.
Dudisto gli disse: «tu ci soffochi con la tua personalità. Te ne devi andare, altrimenti resteremo sempre infantili».
Cespidolo era d'altro parere: «ci hai spiegato tante cose e dobbiamo capirne ancora molte. Rimani con noi, abbiamo bisogno di una guida sicura».
Cimao cercò di fare da mediatore: «rimani, ma cerca di contenere la tua esuberanza. Comportati come uno di noi».
Mentre disputavano fra loro, Budda si ritirò nel suo eremo, sotto il fico, a meditare sul da farsi. Ben presto l'illuminazione non tardò a raggiungerlo.
A Cimao rispose: «Bell'amico che sei: che cosa mi proponi? Di essere paternalista? Di decidere io che cosa voi potete o non potete sopportare di me? Di rinunciare a me stesso e far finta d'essere diverso da quello che sono?».
A Cespidolo: «Che discepolo sei? Hai ancora bisogno di aggrapparti a me? Devo spiegarti tutto? Non diventi mai adulto? Non sai che a questo punto o capisci da te o non capirai mai?».
A Dudisto: «Quando la smetterai di essere suddito? Perché accusi me della tua pigrizia? Credi davvero che sia la mia presenza a non lasciarti crescere? Hai più paura di me che fiducia in te?».
E Budda se ne andò altrove, a ricominciare.

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Apomelo chiese: «Che cosa significa questo? Che Budda non può vivere in comunità? Che è condannato a vivere da solo, a essere Budda solo per se stesso?».
Golmonao: «La risposta è tutt'altro che semplice. Bisogna cominciare sgombrando il campo da elementi secondari. Se per comunità s'intende un tipo di rapporto pedagogico, e si attribuisce a Budda il ruolo di animatore (pedagogo), allora la sua presenza sarebbe positiva solo se limitata nel tempo. Altrimenti, alla lunga, il suo ruolo si trasformerebbe in un ostacolo alla crescita».
A: «Ma può Budda avere rapporti alla pari con altri? O non finirà, volente o nolente, per trattarli comunque dall'alto della sua illuminazione?».
G: «Questo è il dilemma, e non solo per Budda, ma per chiunque abbia capacità superiori alla media. Infatti, chi si trova più avanti di un altro può essere concretamente Budda, per lui».
A: «vuoi dire che Budda non è tale in se stesso, ma lo diventa nel rapporto con gli altri?».
G: «Certamente. Chi dice che Budda è Budda: lui o gli altri? "Ucciderlo" è necessario prima o poi, per non restarne schiacciati, ma un infantile, un suddito, crede significhi liberarsi di un'altra persona. Invece significa liberarsi di se stesso, della propria sudditanza. Chi si è fatto adulto non ha bisogno di liberarsi di nessuna persona esterna a sé, perché chi aveva assunto per lui il ruolo di Budda a quel punto è diventato uno qualsiasi. Per un adulto Budda è ormai assimilato alla propria coscienza, e neppure Gautama in persona sarebbe Budda per lui».
A: «Mi pare di capire che solo chi non ne ha paura può trarre giovamento dal fare comunità con Budda».
G: «Proprio così. Quando c'è paura di venir sopraffatti prevalgono i condizionamenti negativi».
A: «Ma senza Budda, chi ha spirito da suddito sarebbe migliore o peggiore?».
G: «Questo non si sa. Si può solo dire che per chiunque il rapporto diretto con Budda, da un certo punto in poi, cessa di essere la propria strada».

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A: «A questo punto, sgombrando il campo da chi è o vuole essere suddito, mi pare che valga la pena di riformulare la domanda in questo modo: chi è adulto, può vivere in comunità con Budda senza lasciarsene sopraffare?».
G: «Molto bene, e si può anche rovesciarla: può Budda offrirsi agli altri così com'è, senza prevaricarli?».
A: «Ma Budda è comunque, per definizione, al di sopra della media. Non è questo stesso fatto che rischia di renderlo prevaricante? Mi sembra legittimo il sospetto che si possa avere con lui solo rapporti di tipo pedagogico».
G: «Bisogna intendersi. Quello pedagogico è un rapporto a senso unico, nel quale il flusso scorre dall'alto in basso, da "chi sa" a "chi non sa". Il rapporto alla pari invece è uno scambio reciproco, nel quale l'apprendimento-insegnamento è sempre nei due sensi, indipendentemente da capacità, conoscenza e sensibilità di ciascuno».
A: «Tuttavia il flusso prevalente sarà pur sempre da chi è più maturo a chi lo è di meno».
G: «Nient'affatto, anzi, è probabile il contrario: saggezza é capacità d'apprendere, non d'insegnare».
A: «Come dire che chiunque può insegnare a Budda più di quanto sappia imparare da lui!?!».
G: «È proprio così, perché non è il bagaglio culturale che conta, ma la capacità di assorbire esperienze vitali. Anche senza saperlo, chiunque può farsi maestro di vita, per chi sa imparare. Budda ne è capace, ma gli altri?».
A: «Supponiamo che qualcuno sia sufficientemente maturo da non lasciarsene soffocare: quale tipo di rapporto si creerebbe?».
G: «Un rapporto di apprendimento reciproco permanente».

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A: «Mi pare che qualcosa si stia delineando. Intanto non si può chiedere a Budda di svalutare se stesso o di rinunciare al suo compito».
G: «Né potrebbe mai decidere per gli altri, assumendo atteggiamenti paternalistici».
A: «Di questo non ho mai dubitato: decidere per gli altri è caratteristica del Grande Inquisitore. Ma l'interrogativo è ancora senza risposta. Non è il suo stesso proporsi così com'è che rischia di rendere Budda prevaricante?».
G: «Il rischio c'è, indubbiamente, ma si ci può convivere, e si può anche trarne grandi benefici, a patto di non sottovalutarlo».
A: «Ma quali sono, diciamo, i margini di sicurezza?».
G: «L'alternativa è tra distinguersi o trasformarsi. Se incontri Budda uccidilo, ma in che senso? Se ti distacchi da lui prima di averlo portato dentro di te, in modo da raggiungere una coscienza sufficientemente adulta, allora anziché trovare la tua autonomia ti condanni a restare irrimediabilmente alienato».
A: «Forse capisco. Ucciderlo significa non vederlo più come Budda, ma come una persona alla quale rapportarsi alla pari, in un rapporto adulto e maturo».
G: «Proprio così: Se incontri Cristo, mangialo! Forse è più facile da capire. Fallo entrare dentro di te, assimilati a lui, fatti condizionare al punto da diventare lui, lasciati trasformare in lui».
A: «Insomma, presa di coscienza, senza però fuggire da chi è più avanti di noi».
G: «Al contrario, legandosi strettamente con lui in cordata: chiunque voglia scalare fino in cima la montagna, si coinvolge sempre più e non ha paura di farsi condizionare da chi conosce la strada. Anzi, tende a trasformarsi per diventare come lui».
A: «Ma non diventa plagio questo?».
G: «Puoi anche dire così, se vuoi».
A: «Ma plagiare significa render schiavi, assoggettare a sé».
G: «È vero, ma se ci pensi bene ti accorgi che non ha solo un senso negativo. Se ti fai assoggettare da un padrone diventi dipendente, e se ti fai schiavo della sudditanza diventi suddito; ma se ti fai plagiare dalla libertà diventi libero. Se ami veramente Cristo vieni plagiato da lui, ti trasformi in lui. E a quel punto anche lui diventa te. Ti dispiace forse? Ma il Cristo concreto viene a te attraverso i fratelli, e soprattutto lo incontri in quel fratello che ti comunica direttamente qualcosa di lui. Vuoi tenertene in distanza? Non vuoi farti condizionare da lui? Forse libertà è saper scegliere, in coscienza, da chi farsi plagiare».
A: «Scegliere da chi farsi plagiare! Detto così ammetterai che spaventa, che suscita impulsi di rifiuto, che appare insensato».
G: «Se scegli di farti plagiare da Cristo-salvatore, ti salverai dalle contraddizioni di una vita senza senso, e allora non ti sentirai più frenato dalla paura di perdere la tua personalità. Perché avrai capito che tutto ti condiziona, ma nulla può toglierti te stesso».

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A: «L'idea di questo scambio reciproco, di questo coinvolgimento trasformante, mi piace e mi entusiasma. Ma non c'è il rischio che, pur senza volere, funzioni a senso unico? E chi è più avanti finisca, anche controvoglia, per decidere per l'altro? Budda non può ignorare di essere "illuminato", e di sapere meglio di altri che cos'è giusto o sbagliato».
G: «È vero, ma solo per se stesso. Budda ha chiaramente coscienza di non poter dir nulla di ciò che va bene per gli altri, se non sotto forma di ipotesi. Solo l'altro potrà prenderle in considerazione e utilizzarle, se vuole».
A: «Però Budda, in qualche modo, ne sa sempre una più dell'altro. Le sue considerazioni, le sue "idee", saranno pur sempre più ricche e abbondanti di quelle altrui».
G: «Non sempre, e non necessariamente. In ogni caso, poi, non è essenziale avere idee proprie: è molto più importante saper riconoscere quelle buone, anche se sono di altri. In un rapporto alla pari, perciò, non vale tanto la provenienza quanto saperne fare buon uso».
A: «Comunque sia, tra Budda e chiunque altro le posizioni sono chiaramente asimmetriche. Budda capisce e sa quello che altri non sanno, e questo lo si può dire anche del Grande Inquisitore. Qual'è la differenza fra i due?».
G: «Il Grande Inquisitore dice: io so quello tu non sai e non puoi capire, quello che è giusto o sbagliato per te. Perciò, per il tuo bene, decido io per te. Budda invece dice: non ha importanza primaria quel che so io o che sai tu, perché comunque io non decido per te, non voglio e neppure potrei. Anzi, ti spiego quali sono i pericoli di un rapporto coinvolto con me: vivendo insieme forse ti condizionerò, se tu mi troverai interessante, e forse finirò per plagiarti. Ma a quel punto tu sarai diventato Budda, secondo le tue caratteristiche, e anch'io sarò diventato diverso, condizionato e plagiato da te. Se non vuoi, se temi il pericolo di alienarti, allontanati, perché se hai paura confonderesti il senso del nostro rapporto e finiresti inevitabilmente alienato. Ma se vuoi, se la mia proposta t'interessa, coinvolgiti con me: ci condizioneremo insieme, ci trasformeremo insieme. Tu porti il tuo bagaglio, io il mio, li mettiamo in comune e ciascuno ne userà liberamente, come se fosse tutto suo. In ogni caso la decisione spetta a te: da parte mia ho piena fiducia che tu possa capire e decidere».

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A: «Indubbiamente è affascinante, ma è possibile realizzare e vivere praticamente rapporti di questo tipo? Mi domando ancora. Budda, che conosceva bene questa problematica, alla fine che cosa ha risposto?».
G: «Non lo so, ma so che ha vissuto in comunità. Se i suoi confratelli erano uomini maturi o alienati non mi è noto».
A: «Io sceglierei subito di fare comunità con Budda!».
G: «Anch'io».
A: «Voglio fare comunità con te».
G: «Ma io non sono Budda!».
A: «Sì che lo sei: per me lo sei! Da solo mi perdo spesso, mentre guardando a te, che sei molto più avanti di me, mi accorgo che il mio orizzonte si allarga».
G: «Più avanti di te! In che cosa? In esperienza, certamente: sono molto più vecchio, e ne ho viste tante! Ma in entusiasmo, inventiva, coraggio, perseveranza? E' tutto da verificare. L'esperienza è un'arma a doppio taglio: certe volte è frenante, e può consigliare eccessive prudenze a danno della creatività. Ricordati che se uno è più avanti di te in qualcosa, tu sei più avanti di lui nel contrario di quella cosa».
A: «Ma la tua esperienza ha dato frutto su diversi versanti, si vede. E tu puoi essere per me un valido punto di riferimento vivente».
G: «Però non sono Budda: non so se questo fatto aumenta o diminuisce i rischi».
A: «Non mi fai paura, voglio farmi condizionare, voglio farmi plagiare da te».
G: «Ma io posso solo proporti me stesso e parlarti di me. Hai ben capito che non so nulla di che cosa è giusto per te? Ne sei cosciente? Saprai decidere da te giorno dopo giorno?».
A: «Sono disposto a correre il rischio».
G: «E se sarò sopraffacente?».
A: «Non mi lascerò sopraffare».
G: «E se perderai la tua personalità?».
A: «E se anche fosse? Così com'è non mi piace, voglio che diventi altra, diversa, più matura. Ora so che tu mi puoi aiutare su questa strada e non mi perderò l'occasione».
G: «Va bene, accetto la sfida. Voglio proprio vedere se saprò davvero imparare da te più di quanto tu imparerai da me!».
A: «Non avrai vita facile».
G: «Faremo comunità, a una condizione però: dobbiamo concordare insieme i metodi di confronto per controllare il nostro cammino, in modo tale da essere continuamente costretti a prendere decisioni autonome, riducendo al minimo il rischio di alienazione».
A: «Conosci un metodo che possa salvaguardarci da questo pericolo?».
G. «No, anzi, credo proprio che non esista. Però da parte mia ho fiducia che ci riusciremo, se avremo il coraggio di un confronto reciproco permanente. Naturalmente devi essere ben cosciente che l'avventura potrebbe anche finire male».
A: «Ho capito, ma non riesci a spaventarmi. Sono disposto a correre il rischio: restare mediocre non m'interessa più».


Un amore trasformante

C'era una volta una giovane fanciulla, esuberante, bella, piena di fascino, con lunghi capelli biondi (o forse bruni, non ricordo bene) e due grandi occhi azzurri (o forse neri, tanto erano penetranti). Si chiamava Vita. Correva spensierata qua e là quando un giorno incontrò un aitante giovanotto, sicuro di sé e pieno di energie. Si chiamava Limite.
I due s'innamorarono, e siccome erano privi di pregiudizi, cominciarono subito a convivere. Ma non era un amore felice. Lui era possessivo e geloso, e cercava continuamente d'imbrigliare lei per tenerla sottomessa a sé, mentre Vita aveva bisogno di spazi per muoversi, per esprimersi, per vivere. E ogni volta che cercava di limitare la sua esuberanza per accontentare il suo compagno, si ammalava, diventava pallida e sciupata, e il suo cuore si riempiva di tristezza. Allora si ribellava, riprendeva il volo, risfoderava la sua inventiva, e diceva al suo amore: non posso seguirti su questa strada, perché mi accorgo di sfiorire, di perdere la gioia di vivere, di amarti meno creativamente. Fidati di me, esci dalla tua tetragonia, e ti accorgerai che l'amore diventa grande quando si libera dalla paura di perdere, quando rinuncia a essere possessivo. Ma Limite non sapeva vedere al di là dei suoi limiti: possesso, potere, prestigio erano i suoi interessi primari.
Vita ne soffriva talmente che un giorno gli pose un aut-aut: o cambi sistema o ti lascio. La risposta fu scoraggiante. Limite prese l'aut-aut come un gioco d'amore, una civetteria, un artificio per ottenere qualcosa in cambio. Vita pianse tutte le sue lacrime, entrò in crisi, e si rintanò nel più piccolo, nel più stretto, nel più angusto degli spazi. E mentre Limite si vantava, pensando di essere riuscito finalmente a domarla, Vita rifletteva in cuor suo: come posso lasciarlo! E' così pieno di sé che non riesce a vedere oltre il suo naso. Non è cattivo, è solo ignorante e presuntuoso. Se lo lascio è perduto: come posso abbandonarlo al suo destino?
Così Vita scelse la sconfitta. Dopo essere rimasta tre giorni in silenzio, uscì dalle tenebre con lo spirito rinnovato, e disse al suo amato Limite: non ti lascerò, hai vinto. Resterò sempre con te.
E mentre Limite si sentiva un trionfatore, Vita pensava fra sé: povero ingenuo, non capisci che ora non hai più scampo. Ora so che cosa devo fare: m'insinuerò in tutti gli aspetti del tuo essere, ti riempirò di me, ti trasformerò col mio amore, t'insegnerò a capire ciò che vale, ti farò uscire da te stesso, ti porterò con me al di là dei tuoi limiti, ti farò gustare la gioia, ti donerò me stessa.
E allora, finalmente, tu conoscerai la Vita!

(pubblicato in Semi da coltivare)

 

Un figlio devoto

Il cielo sereno, l'atmosfera tersa, purificata dalla pioggia, i contorni distinti e ben definiti: quale splendore! Si era sempre trovato bene, ma senza rendersene conto. Fare il figlio è facile, quando ci sono i genitori, quando c'è un padre che pensa a tutto. Ma quel giorno gli si aprirono gli occhi.
Che capacità, che genio! E quale benevolenza, quale disponibilità! Ora capiva di essere stato condotto per mano, fino a scoprire il senso profondo della realtà, fino a scoprire il valore e la grandezza di un padre che lo aveva generato alla vita. Si sentiva il cuore ricolmo di gratitudine, e il primo impulso, irresistibile, fu quello di tornare a casa e dirglielo.
Lo trovò nel suo laboratorio, dove lo aveva visto tante volte senza capir bene che cosa facesse. Ma ora anche questo gli appariva chiaro: ogni suo gesto, ogni suo pensiero, ogni suo momento era parte integrante di quello splendido affresco di vita che quel giorno gli si era improvvisamente svelato.
Entrò, si mise a sedere su un basso sgabello, poi alzò il volto sorridente e gli disse:
«Quanto sei grande, papà, quanto ti amo! È così straordinario, l'ho capito, tutto quello che fai per me e per i miei fratelli. Non voglio più poltrire o vagabondare, voglio lavorare insieme a te, sono a tua completa disposizione: dimmi che cosa devo fare e lo farò».
Padre si compiacque del suo figlioletto e gli carezzò la testa. "E' ancora molto giovane, ma col tempo maturerà" pensò tra sé e sé "mi sembra sulla buona strada".
Non era stato un fuoco di paglia. Figlio era coerente e irreprensibile, s'impegnava a fondo senza risparmio, chiedeva disposizioni ed eseguiva puntigliosamente. Rispettoso, ascoltava, rispondeva sempre con umiltà, si scusava di essere un mediocre, si accusava di perdersi talvolta in frivolezze, di non resistere abbastanza alle passioni, di non essere abbastanza serio. Non si risparmiava nel chiedere perdono e nel ringraziare per la benevolenza ricevuta, sempre maggiore di quanto meritasse.
Padre, con il passare del tempo, finì per sentirsi un po' a disagio. «Smettila di chiedermi scusa, di parlarmi sempre di te, come se esistessimo solo noi due. Ci sono anche gli altri, ci sono i tuoi fratelli, c'è un immenso patrimonio di cui occuparsi. Padri e figli sono responsabili alla pari del patrimonio di famiglia. Un padre da sé conta poco: è padre perché ci sono i figli, è solo una faccia della medaglia. L'altra faccia sono i figli, sei tu. Smettila di fare il suddito e occupiamocene insieme, progettiamo insieme». Lasciò di spazio al silenzio, poi riprese: «un po' di confidenza, diamine! Cerca di rendere il nostro rapporto anche un po' allegro e gioioso. Non ti piacerebbe ridere e scherzare insieme?».
Figlio sentì un brivido per la schiena. Come osare? Chi sono io? Rispose a voce bassa:
«Non ne sono all'altezza, mi sento incapace, ti mancherei di rispetto. Sono e resterò tuo servo, e ne sono contento. Tu mi proteggi e mi tracci la via. Le mie iniziative non sarebbero mai all'altezza delle tue: ti ascolto, dimmi che cosa devo fare e io eseguo. Puoi contare su di me».
Padre si sentiva irritato. Come ogni buon genitore non voleva dei figli sudditi, ma sperava di vederli farsi adulti fino a calcare le sue orme, prendere il suo posto, compiere di loro iniziativa le stesse cose che avrebbe potuto fare lui. Avrebbe preferito di gran lunga essere poco rispettato, piuttosto che temuto.
Era imbarazzato: aveva voglia di rimproverarlo, ma per che cosa? Perché era rispettoso? Devoto? Perché si rimetteva a lui in tutto e per tutto? Provò a sfogarsi con se stesso, ma poi decise. Lo andò a cercare e l'affrontò con decisione:
«Credi che sia rispetto il tuo? È così che mi vedi? Un padre che incute paura ai suoi figli? Che si compiace di tenerli a distanza? Che vuole un rapporto freddo e distaccato? Tratti così il mio affetto, la mia tenerezza, la mia voglia di confidenza? Ci credi o non ci credi che sono tuo padre? E non sai che quando un figlio ha paura del padre, quel padre è un fallito? Che cosa me ne faccio di un figlio obbediente, serio, rispettoso, ma suddito? Ti voglio alla pari con me, lo vuoi capire? Conversa con me, progetta con me, discuti con me, contestami, maltrattami se vuoi, ma ridi scherza, gioca con me. Preferisco di gran lunga vederti sbagliare o combinar guai, piuttosto che vederti passivo e pauroso. Un figlio suddito: questa è mancanza di rispetto! Un rapporto senza confidenza: questa è mancanza di rispetto! Un figlio che teme suo padre: questa è mancanza di rispetto!».
Restò in silenzio per un po', poi aggiunse:
«Vuoi vedermi un padre fallito? Questo tu vuoi che io sia?».
Figlio era sbalordito. La storia non dice se rispose, e in qual modo.

 

Problematiche

Dudisto: Ho dei grossi problemi aziendali che non riesco a risolvere. Ormai sono sull'orlo del fallimento.
Golmonao: Ci sono delle imprese specializzate in problemi aziendali. Perché non ti fai aiutare da qualcuna di loro?
Dudisto: Lo so che ci sono, ma è umiliante rivolgersi ad altri. Sembra che uno non è capace a risolvere i problemi da solo.
Golmonao: Ma tu sei capace?
Dudisto: No, ma….. Ma questo che c'entra!

 

Il proprio castello personale
(libera elaborazione da "Il Processo" di Kafka)

Uno splendido castello con un grande portone d'ingresso. Il viandante si fermò affascinato e rimase a lungo in silenzio. «Posso entrare?» chiese poi al guardiano che stava accanto alla porta. «Hai il permesso?» gli domandò. «No» rispose: Il guardiano allargò le braccia e alzò le sopracciglia, voltandosi poi da un'altra parte.
Il portone era aperto e il viandante cercava di sbirciare dentro. Spingendosi fin sulla soglia gli sembrò di scorgere all'interno luce e colori. «Se vuoi entrare senza permesso.....» gli disse il guardiano «però ti avverto che sarà faticoso. Dovrai attraversare diverse porte, ciascuna con un guardiano sempre più severo. Io stesso fatico a sopportare lo sguardo di quello che custodisce la terza porta».
Il viandante era attratto e spaventato: decise di aspettare gli eventi. Passò del tempo e il guardiano, gentile, gli procurò uno sgabello per sedersi. Tra i due si stabilì un rapporto amichevole, conversavano insieme e il guardiano condivideva con lui perfino il suo pasto. Ma a ogni domanda sull'interno del castello e sui rischi di accedervi senza permesso rispondeva di non saperne proprio nulla. Passarono settimane, mesi, anni, e il viandante restava sempre lì, in attesa, nella speranza di veder accadere qualcosa. Invecchiando si era sempre più raggomitolato sullo sgabello, e quando si accorse che era ormai giunto alla fine fece un cenno al guardiano, che si avvicinò. Ma la voce del vecchio era ormai così fioca che dovette chinarsi su di lui per sentirlo.
«Dimmi ancora una cosa» gli chiese «come mai in tanti anni nessuno è venuto fin qui per entrare nel castello?».
«Questa è la tua porta personale» gli rispose il guardiano «nessun altro avrebbe potuto varcarla. Ora che tu muori verrà chiusa per sempre».
Con il cuore in gola, disse ancora:
«Ma non avevo il permesso!».
«Quello serve solo se lo credi necessario» concluse il guardiano allontanandosi con un sospiro.
Il vecchio chiuse gli occhi mentre si sentiva mancare "tutto è perduto" si ripeteva. Poi con la forza della disperazione si voltò a guardare la porta, che in quel momento era ancora aperta.....

 

Un parlare sedentario

Apomelo: se dovessi governare un paese, che faresti innanzi tutto?
Golmonao: cambierei nome alle cose.
A: con quale vantaggio?
G: costringendo a riflettere sul senso delle parole, anziché lasciarsi guidare dall'abitudine, la gente si esprimerebbe in modo più appropriato e meno casuale. Riducendo le ambiguità andrebbe più d'accordo.
A: insomma, intendi dire che bisogna stare attenti a come si parla!
G: se vuoi essere consapevole, sì. Devi porre la massima attenzione a tutto, se vuoi essere consapevole. Il parlare, poi, è un aspetto estremamente importante e delicato della tua vita di relazione.
A: ma questo crea tensione!
G: solo se non ci sei abituato. Se stai sempre seduto e un giorno fai una lunga passeggiata, sentirsi male ai muscoli delle gambe. Ma è forse il camminare a far male alle gambe? Solo se non ci sei abituato. Altrimenti sarà proprio il movimento a eliminare i disturbi ai muscoli e a farli funzionare meglio.

 

La scelta di Amedeo

Amedeo era un ragazzo sensibile, tanto sensibile da sentirsi angosciato ogni volta che vedeva soffrire qualcuno. Quel povero, che stava sempre seduto per terra accanto a casa sua, era per lui una spina nel fianco. Devo fare qualcosa, si disse, devo assolutamente fare qualcosa! Entrò in Chiesa e si mise a pregare: "ti prego, Signore, per tutti i poveri del mondo. Aiutali. In particolare ti prego per quel vecchio che sta sempre nei pressi di casa mia. Lo vedo tutti i giorni. è così lacero e denutrito, ha freddo, mi fa una pena! Ti prego, Signore, aiutalo. Non permettere che vi sia chi è costretto a vivere così". Tacque. Nella chiesa il silenzio era profondo. Ad un tratto udì una voce che gli rispondeva: "hai fatto bene a dirmelo, ti ho ascoltato e farò come mi hai chiesto. Manderò mio figlio da quel povero affinché lo accudisca, lo nutra, lo vesta e lo accolga in casa sua. Uno dei miei figli mi sembra particolarmente adatto a far questo: si chiama Amedeo. Lo pregherò di occuparsene". La voce tacque e Amedeo restò a lungo in silenzio.
Nel pomeriggio incontrò Arcibaldo. C'era il sole. Amedeo disse: "comincio a pensare che hai ragione tu. Stamattina, mentre ero in chiesa, devo aver avuto un'allucinazione: mi è sembrato di sentire una voce che mi parlava dall'aldilà". Arcibaldo rispose: "dammi retta, se continui a credere alle favole finisci per lasciarti suggestionare al punto da credere qualsiasi cosa". Poi indicando il povero che si vedeva in distanza, aggiunse: "ti pare che, se ci fosse un Dio, permetterebbe che al mondo esistano certi miserabili?"

(pubblicato in Semi da coltivare)

Il volto del Padre

Stimolato dall'interesse di Giacomo, Andrea continuava a parlare del Padre e di come intendeva i suoi rapporti con lui. Era il suo discorso preferito, lo avevo già ascoltato, ne parlava come di un rapporto concreto, come se lo incontrasse faccia a faccia. Il suo modo d'esprimersi era un po' ingenuo: mi faceva sorridere, eppure mi sentivo sorpreso e affascinato. Ora stava raccontando quella che lui chiamava la sua prima esperienza diretta della presenza faccia a faccia.
Diceva Andrea, mentre il suo volto s'illuminava: «era lì, davanti a me. Non saprei dire meglio. Non vedevo nulla di diverso dal solito: gli stessi oggetti, gli stessi elementi di sempre. Ma era lì, lo sentivo. Provavo un'emozione indicibile. Vedevo innanzi a me, come in un istante unico, tutta la mia esistenza; ne capivo il senso, distinguevo chiaramente ciò che conta e ciò che non vale nulla. Mi sentivo ricolmo di gioia e ricco di una serenità e di una pace che non si possono descrivere. L'emozione non mi lasciava spazi liberi. Mi pareva di essere davanti a uno specchio, attraverso il quale però non vedevo la mia immagine: vedevo ciò che stava dentro di me. Tutto era lì, svelato. Avevo gli occhi pieni di lacrime, ma la realtà restava limpida. Piangevo felice, di un pianto che prima non conoscevo e che ora porto sempre nel cuore. Il volto del Padre era davanti a me. Non nella sua immagine esteriore, ma nel suo significato».
Andrea tacque. Guardai Giacomo e lo vidi stupito e un po' scettico. Aveva sul volto un'espressione incredula, simile a quella che probabilmente era stata la mia la prima volta che avevo ascoltato quel racconto. Allora ruppi il silenzio e dissi: «è qualcosa d'incredibile, lo so, finché non se ne fa l'esperienza diretta». Tacqui immediatamente serrando gli occhi. Mi sentivo un impostore: che cosa ne sai tu, mi dissi, ne hai forse fatta l'esperienza diretta? Sentivo un ronzio in testa, mi sembrava di non capire più nulla. Era successa una cosa strana: quando avevo ascoltato il racconto diretto a me, forse il mio inconscio aveva fatto scattare qualche meccanismo di difesa. Ora invece che era diretto a un altro, ascoltando ne ero rimasto coinvolto. Riaprii gli occhi e improvvisamente capii. Era lì davanti a me. Non vedevo nulla di diverso dal solito, ma lui era lì: lo sentivo. Sarà stato illusione, suggestione, proiezione psicologica: non so. Non so più quale significato abbiano queste parole! Di concreto provavo un'emozione indicibile: vedevo tutta la mia esistenza diffusa intorno a me, e contemporaneamente sentivo entrare dentro di me tutto ciò che vedevo. I miei occhi si liquefarono a quella vista. Il Padre cominciava a mostrarmi il suo volto.

(pubblicato in Semi da coltivare)

 

Il limiti della comunità


Apomelo: Quali sono i limiti entro i quali c'è comunità?
Golmonao: E chi può dirlo? Ciascuno stabilisce i propri secondo criteri personali.
A: Ci saranno dei punti di riferimento! Raccontami qualche fatto che ci sia d'esempio.
G: C'era una volta una comunità che ha organizzato una veglia di Pentecoste lasciando libero ciascuno di partecipare secondo i propri desideri. Ci sono state diverse partecipazioni più o meno intense, e c'è stato perfino chi non ha partecipato per nulla, né all'inizio, né durante, né al termine, e neppure ha dato spiegazioni o ha lasciato messaggi.
A: Ma lo Spirito di Pentecoste era importante per quella comunità?
G: Fondamentale.
A: Ma allora, com'è possibile?
G: Eppure.......
A: E che è successo poi?
G: Niente, assolutamente niente.
A: Ma chi non ha partecipato per nulla, continuava poi a sentirsi comunitario?
G: Non so, questo non l'ho capito. Bisognerebbe sapere quali sono i criteri quali sono i limiti entro i quali c'è comunità?

 

Un mago creatore

C'era una volta un Principe felice, che si fidava ciecamente del Re, suo padre, e ogni volta che aveva un problema si rivolgeva a lui.
Sapeva con certezza, perché glielo aveva detto il Re, che non esistevano né castelli, né principesse, né Dio. Ma un giorno,  spingendosi incautamente lontano da casa, vide su una collina una grande costruzione di pietra con torrioni e bastioni, e una splendida fanciulla affacciata alla finestra.
Mentre guardava stupefatto, si accorse di un uomo che lo osservava. Aveva un aspetto maestoso e portava il manto di porpora e la corona, simili a quelli che il Principe aveva visto indossare dal Re suo padre nelle grandi occasioni. Gli chiese balbettando: «cos'è quello?».
L'uomo rispose: «un castello!... E quella fanciulla?». «Una principessa». «Ma allora» soggiunse il Principe stupefatto «anche Dio esiste!». «Io sono Dio» gli disse l'uomo col manto e la corona.
Il Principe tornò a casa e disse al Re suo padre: «ho visto un castello e una principessa, e ho incontrato Dio». Il Re gli chiese: «com'era Dio?». «Un uomo maestoso con un manto e una corona simili ai tuoi». Gli rispose il Re: «quello è un mago, figlio mio, e ti ha fatto vedere cose che non esistono». Allora il Principe ritornò sui suoi passi e incontrò di nuovo l'uomo con il manto e la corona. Gli gridò «tu sei un mago, mi hai ingannato! Quel castello e quella principessa non esistono». Quegli rispose: «mago è il Re tuo padre, e tu continui a lasciarti ingannare da lui. Vieni con me al castello, ti farò conoscere la Principessa e vedrai se si tratta di un miraggio».
Al Principe mancò il coraggio, fuggì a casa e corse dal Re. «Dimmi, padre, sii sincero ti prego: sei forse tu un mago?». Il Re, come risposta, indossò il manto di porpora e la corona, e allora il Principe riconobbe in lui la stessa persona, lo stesso mago. Cadde a terra sconvolto: sentiva che tutto il mondo gli crollava attorno. «Voglio morire» disse.
Subito la morte apparve, orribile e misteriosa. Mentre gli si avvicinava il Principe si scosse: «no» disse «non è possibile; non capisco più niente, non voglio morire, mi piace la vita, voglio la vita, anche se mi fa soffrire». Subito la morte si tolse il velo e lo scialle, e apparve come una fanciulla splendida e affascinante, vestita di arcobaleno. «Eccomi» disse «sono sempre io. Dipende da come tu mi vuoi». Il Principe riconobbe la Principessa del castello, e siccome se la vedeva in carne ed ossa sentì il cuore sconquassargli il petto.
Si alzò, la prese per mano, e voltandosi verso il Re gli disse: «padre, perché mi avevi ingannato così?» E il padre, che si era tolto mantello e corona, gli rispose col più tenero dei sorrisi: «finalmente sei cresciuto, figlio mio, ora sei un uomo. Va' con la tua Principessa a costruire la tua vita: il vostro castello vi aspetta». Allora il Principe vide che il castello era lì, accanto a sé, a due passi da casa. Non se n'era mai accorto prima!
Mentre, mano nella mano con la Principessa, si avviava felice verso la sua nuova dimora, all'improvviso si fermò come folgorato: «ma papà» disse ancora «e Dio? dov'è?». «Solo tu puoi saperlo, figlio mio» gli rispose ancora il padre «ora che sei adulto, cerca la risposta nel tuo cuore».

(pubblicato in Semi da coltivare)

Un lavoro d'èquipe

C'era una volta un padre che aveva tanti figli, ma talmente tanti che continuava a perderne di vista qualcuno. La cosa non gli piaceva affatto, così, dopo aver tentato con scarso successo diverse soluzioni, capì che era necessario compiere un salto di qualità. Si consigliò con un suo prezioso collaboratore, il Signor Genio, poi decise di generare un nuovo figlio con caratteristiche particolari: generoso e disinteressato, esuberante e coraggioso, attento e disponibile. Lo chiamò Amore e lo incaricò di coinvolgersi con i suoi fratelli per tracciare loro la strada che conduce a casa.
Amore s'impegnò subito con molto entusiasmo: "chissà come saranno contenti i miei fratelli!", pensava, ma ben presto si trovò a fare i conti con amare delusioni, e si accorse che era assai più facile vedersi sbattere la porta in faccia che venire accolto. Anche il padre, di fronte alla scarsità dei risultati, si sentiva amareggiato e deluso. "Credevo di aver risolto il problema" pensava tra sé "e invece! Come devo comportarmi con questi figli scapestrati?  Abbandonarli a se stessi? Se neppure l'Amore li fa rinsavire, che altro potrei fare?":
Si ricordò allora di un altro suo consulente prezioso, la Signora Inventiva, che essendo femmina gli spiegò più facilmente l'arcano. «Amore è bravissimo e geniale, ma è un tipico maschio, fiero di se stesso, gran lavoratore. E anche ingenuo: si propone candidamente così com'è, e non capisce di essere impotente, se non viene corrisposto. Gli manca un po' d'inventiva, quel tanto che basta per risolvere i problemi insolubili».
Allora il padre, che dava sempre retta ai consigli illuminati, generò una femminuccia, tanto gentile, discreta e riservata da sembrare praticamente invisibile. La chiamò Misericordia.
Divenuti compagni inseparabili di vita e di missione, i due fratelli studiarono una strategia comune. Amore bussava alla porta, e appena questa veniva socchiusa, Misericordia sgusciava dentro senza farsene accorgere, approfittando del fatto che suo fratello suscitava una tale diffidenza da concentrare su di sé tutta l'attenzione. Così, quando la proposta d'Amore veniva respinta, Misericordia restava presente, e nelle lunghe notti fredde e buie, col suo respiro poteva riscaldare una piccola speranza, e alimentare discretamente il dubbio che respingere Amore non sia poi un grande affare. E poi, appena vedeva schiudersi una possibilità di ricupero, informava il padre, che siccome seguiva giorno e notte gli avvenimenti dalla sua centrale operativa, sapeva sempre rintracciare immediatamente Amore, e inviarlo subito là dove si rivelava necessario un pronto intervento.
Qualche volta Misericordia si trovava coinvolta in spiacevoli situazioni: qualcuno, che si accorgeva della sua presenza, cercava di approfittarsi di lei. In quei casi però lasciava da parte tutta la sua moderazione e reagiva con insospettata fierezza: «posso aiutarti solo a tua insaputa» diceva al malcapitato «solo se tu, per la tua ottusità, non sai vedere al di là del tuo naso. Ma dal momento che mi hai riconosciuta io non posso far più nulla per te. Ora che sai come stanno le cose veditela con mio fratello: solo con lui, ormai, puoi metterti d'accordo, se vuoi». E lasciato lo sbalordito interlocutore faccia a faccia con Amore, subito accorso, ricominciava tranquillamente altrove.
Era un lavoro d'èquipe, lungo e faticoso ma anche molto stimolante, perché accompagnato dalla consapevolezza che le porte chiuse non sono chiuse per sempre.

(pubblicato in Semi da coltivare)


Una qualsiasi storia quotidiana


          personaggi della storia:                     il sig. Ognuno
                                                                il sig. Chiunque
                                                                il sig. Qualcuno
                                                                il sig. Nessuno

          la scena si svolge dappertutto

C'era un lavoro per ognuno e chiunque pensava che qualcuno lo avrebbe fatto. Ma nessuno lo fece.

Qualcuno si arrabbiò, perché era un lavoro di ognuno e non di nessuno. Ma ognuno aveva pensato che lo avrebbe fatto chiunque, mentre qualcuno si era reso conto che nessuno lo stava facendo.

Così ognuno biasimò qualcuno, perché quel che chiunque doveva fare nessuno lo aveva fatto.

Morale della favola: Chiunque può fare il lavoro di ognuno, e in tal caso nessuno dice nulla. Ma se nessuno lo fa qualcuno protesta.


 





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