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Sto studiando per imparare a morire


Antonio Thellung

STO STUDIANDO PER IMPARARE A MORIRE

Prefazione di Carlo Molari
Altrimedia Edizioni - 2014
Pagine: 240 € 14,00


Dalla quarta di copertina

Diceva il grande critico Francesco Desanctis:

“Leopardi produce l'effetto contrario a quello che si propone.
Non crede al progresso, e te lo fa desiderare; non crede alla libertà, e te la fa amare.
Chiama illusioni l'amore, la gloria, la virtú, e te ne accende in petto un desiderio inesausto.”
Se è lecito comparare le cose piccole alle grandi,
queste pagine di Thellung,
lo studio della morte accurato e appassionato, delicato e ardito, meticoloso e alto,
producono lo stesso effetto.
Non incutono timore sull’ultimo giorno, ma amore per la vita,
non lasciano affranti per i giorni che se ne vanno,
ma riempiono gli attimi quotidiani di colori e luci, di carne e sangue, di parole e respiri.
Cosicché non rimane che farci un pensiero: leggero, sottile e profondo insieme.

E riprendere a vivere alzando di nuovo gli occhi dopo ogni pausa. (Vittorio Sammarco)




“Con chi altro potrei parlare della morte come di qualsiasi altra cosa, in quel clima intriso d’affetto che preserva da turbamenti psicologici? Ho la fortuna di avere per sposa un’insegnante eccellente, e presumendo che la scuola duri ancora a lungo non potrei far altro di meglio che continuare a frequentarla …..


..… ma sono ancora lontano dall’aver imparato. Ecco da dove mi viene lo stimolo a sondare la realtà invisibile, cosa che m’interessa talmente da farmi capire che in vita mia non avrei mai potuto fare l’insegnante, perché la voglia di apprendere è in me così forte da rendermi un apprendista di mestiere: un eterno apprendista.”



per ordinarlo

http://www.altrimediaedizioni.com/libri/sto-studiando-per-imparare-a-morire


sullo stesso sito si può leggere in anteprima l'introduzione e il primo capitolo

 

Adista 14 GIUGNO 2014 • N. 22 

In dialogo con l’autore

“Sto studiando per imparare a morire”

VITTORIO SAMMARCO* INTERVISTA ANTONIO THELLUNG**

 

Un libro nato per caso, da una serie di colloqui scritti con gli amici, online, come si usa adesso, a distanza, sfociati in un originalissimo testo, fatto di vita, pensieri, sensazioni, ricordi, emozioni e concrete esperienze di vita. Di chi non ha paura di parlare dell’ultimo vero tabù della nostra società contemporanea. Anzi, la studia, la scruta, si confronta, per imparare ad accoglierla preparati, come se fosse un’amorevole sorella da tempo attesa. Nella migliore tradizione francescana…

Certo, non si può che partire da un titolo che lascia quantomeno stupiti…

Quando, diversi anni fa, ho pubblicatoun libro sull'assistenza ai malati terminali, avevo proposto di chiamarlo: In confidenza con sorella morte, ma l'editore si è opposto dicendo che la parola morte scoraggia i lettori. Per fortuna, invece, l'attuale editore Altrimedia ha colto il senso positivo di questo titolo, che forse a qualcuno appare provocatorio mentre a me pare calzante per mettere subito a nudo certe fragilità psicologiche. Quale vantaggio si può trarre, infatti, dal non chiamare le cose col loro nome? Dal non guardare in faccia la realtà? La morte riguarda tutti, e per i vecchi, poi, sancisce la chiusura naturale della loro parabola. Per questo io che sono vecchio sto studiando per capirne meglio il senso, nella speranza di farmela amica.

Ma che differenza c’è tra prepararsi e imparare?

Una differenza sostanziale. Se, ad esempio, volessi prepararmi a fare il falegname cercherei un locale adatto come laboratorio, acquisterei macchinari e attrezzature e mi procurerei una scorta di legname. E sarei pronto. Però, se non ho imparato il mestiere, a che cosa mi servirebbe? Imparare a morire è diverso da prepararsi, e mi sento stimolato a studiarne gli aspetti più tipici. Infatti, se s'interpreta la morte come evento tragicamente negativo, come molti fanno, allora prepararsi potrebbe assumere il senso di rassegnarsi all'inevitabile, con accompagnamento di scoraggiante tristezza. Ma io non intendo affatto rassegnarmi: vorrei imparare proprio per non morire rassegnato. Da quando ho scoperto che la parola defunto significa compiuto non vorrei morire senza essere defunto, senza che la potenzialità a mia disposizione sia compiuta.

Belle affermazioni: ma in sostanza, scusa l’ardire, ti senti vicino “al termine”?

Il problema non è legato al tempo che ho ancora a disposizione, perché gli anni potrebbero anche essere molti... Ma cosa cambierebbe? Tanti o pochi che siano, passeranno rapidamente. Salvo rarissime eccezioni, oggi non c'è più nessuno della generazione dei miei genitori. Appartengo all'ultima fascia d'età, quella in fase terminale, quella che non può più fare progetti a lunga scadenza. Perciò non ho più il futuro, perché ormai posso prendere in considerazione soltanto quel futuro così prossimo da appartenere anch'esso al presente. Tutto il resto m'interessa solo perché riguarda i miei figli, nipoti e bisnipoti, ma personalmente non mi coinvolge più. Prendiamo ad esempio i grandi progetti che fanno discutere l'opinione pubblica, come il ponte sullo Stretto, o il Tav, o gli Stati Uniti d'Europa. Sono tutte cose che, anche nelle più rosee delle previsioni, potranno interessare soltanto i miei discendenti. Devo solo vivere il presente, mentre quel che accadrà domani o dopodomani non mi riguarda più.

Spesso nel tuo scrivere fai dell’ironia e, con leggerezza, anche delle simpatiche battute: ma si può parlare della morte con questo spirito?

Quando dico che ormai sono vicino alla fine mi sento regolarmente rispondere: «Che dici, stai benissimo! Vorrei arrivare io alla tua età nelle tue condizioni!». Tutte frasi che equivalgono a un de profundis a conferma che stare bene alla mia età è un fatto eccezionale e non la regola. Taluni mi dicono che "sono in gamba", ma quando mi guardo allo specchio io vedo un vecchio. Perché dar spazio a velleitarie illusioni? Mi è capitato di leggere che di certe malattie non si muore più, con tanto di esempi di malati arrivati fino a 80 anni. Una conferma, appunto: io che gli 80 li ho abbondantemente superati sono vicinissimo al termine, fra un po’ morirò, e che sia tra uno, cinque, dieci anni non ha alcuna importanza: è sempre fra un po’. Spero sia chiaro che nel dire così non c'è né pessimismo né tristezza ma, al contrario, la voglia di liberarsi da condizionamenti ingiustificati che mortificano la speranza. Se l'argomento evoca facilmente atmosfere drammatiche, da parte mia vorrei imparare a parlarne con serenità, e anche con allegria.

Parli molto del tuo rapporto coniugale, lo consideri importantissimo: ma fino a che punto conta in questo tuo “studio” per imparare?

Tutto sommato la vecchiaia mi piace e sono contento di farne esperienza. Anche la mia sposa mi piace da vecchia, tanto che non la cambierei con quando era più giovane. Quella me la sono goduta a suo tempo, ora mi godo questa così com'è… Continuo a trovarla attraente, anche fisicamente. Non è che non vedo le sue rughe e le sue sfioriture, è che tutto sommato mi piacciono anche quelle. Ciascuno pensi quello che vuole, ma può anche darsi che si tratti di un autentico miracolo… Fatto sta che il nostro amore ce lo godiamo quotidianamente. Le mie braccia hanno bisogno delle tue, dice una meravigliosa canzone brasiliana, e noi non manchiamo di sottolineare che è proprio vero. Che meraviglia il monotono susseguirsi di momenti d'estasi coniugale! Distesi accanto, nel letto, con le dita che si attardano su quella pelle così comunicativa, che emozione avvertire il regolare ripetersi di reazioni piacevoli, non solo nei sentimenti. E se certi aspetti sono meno dinamici, i nostri baci non sono meno appassionati che a vent’anni. Un miracolo connesso all'amore, suppongo, a un amore coltivato con perseveranza da oltre dodici lustri.

Già, il tempo… come lo scandisci ora?

Certe volte ho solo voglia che passi, e sovente, durante il giorno, la cosa più importante mi sembra l'attesa della sera. Sarà un segno negativo o positivo? Intanto il tempo passa e stare seduto sulla riva del fiume a vederlo scorrere non mi pesa, anzi, mi crea una sensazione di benessere. Sento aumentare sempre più la percezione delle cose inutili, non perché guardo a quel che è poco importante, ma perché tutto mi sembra poco importante. E aggiungerei che il ripetersi in mille modi della sensazione di muovermi fra cose di nessuna importanza alimenta la mia meraviglia. Mi sento bloccato, come se fossi di fronte a un'ultima attesa. Il mio antico mestiere di attendente continua a ripropormisi nel suo duplice significato di aspettare e tendere a...

E in questa attesa c'è un qualche tipo di proiezione verso l'aldilà?

Pensare a una vita oltre quella che sperimentiamo sulla Terra appare francamente una cosa assurda. E tuttavia se osserviamo l’universo, con i suoi miliardi e miliardi di stelle e pianeti senza vita biologica, non appare altrettanto assurdo? E se anche da qualche parte ci fosse qualche altro corpo celeste capace di ospitare la vita, non ci sarebbe comunque una sproporzione assurda? E quando mi guardo allo specchio, che altro potrei concludere se non trovare assolutamente assurda l'esistenza di un tipo come me? E allora mi dico che l'assurdo non è un buon metro di valutazione, ma dato che vi siamo immersi mi sembra lecito aprirsi all'ipotesi che non sia da escludere un qualche tipo di trasformazione. Mi sento proiettato nell'oltre, e la mia fede mi fa credere che avverrà il meglio per me e per tutto l'insieme. O per quel che si chiama Dio, se si preferisce dire così. Che cosa accadrà concretamente, vedremo (oppure non vedremo). Ma credo che imparare a morire valga in qualsiasi caso, come distacco dai nostri limiti, che prima o poi saremo costretti ad abbandonare comunque. Altrimenti, senza perdere la propria vita (come dice il Vangelo) credo proprio che si perderà tutto. E chi può capire capisca. 




Prefazione di Carlo Molari



Il compito più impegnativo dell’esistenza

Imparare a morire è l’esigenza fondamentale dell’esistenza e, quindi, anche il modo più autentico per vivere bene. In realtà per imparare e morire è sufficiente vivere consapevolmente tutte le fasi del nostro divenire. Non è necessario aggiungere altro, perché la vita è in se stessa un continuo processo di morte.

La ragione di questo fatto è prima di tutto biologica. Noi esistiamo riciclando senza sosta le nostre componenti, morendo cioè in ogni istante. “I nostri atomi si scambiano continuamente con quelli dell’universo, al punto che ogni anno il 98% del nostro corpo si rinnova. Ogni nostro respiro mette in circolo miliardi e miliardi di atomi già riciclati nelle ultime settimane dal respiro di altri viventi. Nulla di ciò che ora forma i miei geni vi esisteva un anno fa. Tutto viene rinnovato, rigenerato ogni momento attingendo a quella fonte di materia ed energia che è l’universo. La mia pelle si rinnova ogni mese e il mio fegato ogni sei settimane. Possiamo dire che, tra tutti gli esseri dell’universo noi siamo i più riciclati”[1]. Questo avviene ancora di più a livello psichico e spirituale: accogliamo con ritmo continuo elementi nuovi eliminando i vecchi. Per continuare ad esistere non possiamo restare quello che siamo, dobbiamo cessare di essere per diventare noi stessi: è necessario morire continuamente per vivere in modo autentico.

In ogni caso arriva per tutti l’età in cui non si “è più nella condizione di respingere o di rimandare a un altro momento gli interrogativi sul senso della vita e della morte”[2], nella quale cioè “si cerca solo compagni con cui condividere gli interrogativi su ciò che accade”[3].

Credo che questo libro di Antonio Thellung nasca proprio dal desiderio di condividere esperienze. È nato come un diario di un tratto del cammino di consapevolezza, perciò ha la freschezza del presente vissuto, ma anche la dispersione del contingente e del casuale. Il tutto unificato dall’orizzonte della morte.

Sullo sfondo c’è anche un’esperienza prolungata di vicinanza ai morenti. Se il metodo migliore per imparare a morire è accompagnare i fratelli nella tappa finale della malattia, Antonio Thellung da tempo si è addestrato perché ha scelto di assistere molti fratelli e sorelle nella fase terminale della loro esistenza. Un’esperienza che lo ha segnato profondamente come ha raccontato nel libro: Accanto al malato… sino alla fine[4] e come ha testimoniato anche in questo scritto: “Per questo sento profonda gratitudine verso tutti gli ammalati che ho incontrato e conosciuto intimamente, perché con il loro coraggio, ma anche con le loro debolezze, mi hanno impresso nel cuore un segno indelebile. L'esperienza mi ha insegnato tante cose. Per esempio, ho capito che occuparsi degli altri è anche occuparsi di se stessi, per scoprire e approfondire il senso della vita, per lasciarsi aiutare da coloro che hanno bisogno d'aiuto. Insomma, ho ricevuto assai più di quanto dato. O meglio, non lo so, non lo posso dire perché conosco solo quello che è giunto a me, e non agli assistiti e loro familiari. Fatto sta che quel che ho ricevuto mi appare di gran lunga più abbondate della fatica fatta. Guardare in faccia la morte, ripetutamente, quasi a considerarla un'abitudine, anche se soltanto quella che riguardava altri, mi ha segnato in modo indelebile”[5]

Le pagine di questo libro sono perciò ricche di stimoli e di interrogativi perché nascono da esperienze concrete. Non pretendono però di dare risposte definitive, suggeriscono, invece, piste di riflessione e lanciano sfide per il confronto. Ne raccolgo alcune.

La morte e la continuità della vita

Di fronte alla morte la domanda radicale che da senso al processo dell’esistenza e risponde a tutti gli interrogativi suscitati, riguarda la continuità della vita. Può essere espressa con le parole dell’astrofisico gesuita Geoges Coyne: “esistiamo solo per riciclare l’energia nella forma in cui ci viene fornita dall’universo, oppure siamo esseri speciali nei quali l’universo trova la possibilità di passare dalla materia allo spirito?”[6].

La domanda può essere sviluppata in tre serie di interrogativi.

La prima serie riguarda lo sviluppo di una dimensione spirituale: La realtà materiale può consentire lo sviluppo di una componente spirituale? Vi sono elementi per cogliere questo passaggio nella specie umana? Come concepire in modo coerente l’azione creatrice di Dio?

La seconda serie di interrogativi riguarda la natura della sopravvivenza: quale realtà sopravvive? il soggetto nella sua individualità o la Vita nella sua trascendenza? Detto in altro modo: La morte è la fine del vivente in quanto soggetto cosciente o il passaggio ad una sua nuova modalità di esistenza?

La terza serie di interrogativi riguarda invece le condizioni per pervenire alla forma definitiva di vita: tutti vi pervengono o solo coloro che hanno sviluppato durante l’esistenza terrena sufficienti strutture spirituali? Vi è cioè una effettiva responsabilità nel divenire della persone definitive o tutto è indifferente?

Le risposte a queste domande condizionano tutti gli atteggiamenti che ci accompagnano nello sviluppo personale e ci predispongono alla morte.

Antonio Thellung risponde ad alcuni di questi interrogativi in modo articolato e problematico. Egli ammette la possibilità di una dimensione spirituale futura “Così come la massa può diventare energia, non potrebbe l'individuo essere una potenzialità spirituale compressa in forma di materia, finché un'esplosione mortale non tolga le catene che lo imprigionano, lasciando allo spirito libertà di scatenarsi?”[7].

In modo particolare discute il senso di una sopravvivenza individuale. Egli scrive: “Potrei dire che non m'importa nulla di una eventuale mia nuova vita futura, mentre sarei anche contento di morire per sempre e finire nel nulla, se questo fosse il futuro a me destinato. A patto però che tutto abbia un senso. E aggiungerei che non ci tengo neppure a conoscerlo, questo senso, a patto che esista, mentre alla sola idea di un non senso, all'ipotesi nichilistica, mi prende una tristezza totale, per non dire altro. Se invece un senso d'insieme esiste, la mia fede mi stimola a credere che sarà il meglio per me e per tutti, e non m'importa sapere che cosa ne sarà di me personalmente, una volta che sarò defunto (compiuto)”[8].

Egli riconosce che del senso pieno dell’esistenza non può consistere nel suo svolgersi storico perché il male è sempre presente, il disordine prevale e in ogni caso le illusioni accompagnano tutto il tragitto. Potrebbe essere una ragione per attendere un compimento perfetto in una continuità cosciente di una identità filiale. Egli conclude, invece: “Perciò capisco che per imparare a morire devo poter dire, senza ipocrisie, che il mio individuo non m’interessa più. Devo imparare a non sentir più la mia identità come un possesso, devo perdere quello che ho paura di perdere, e senza sconti. Sto già pregustando il momento in cui, finalmente, proverò interesse per la mia persona solo e soltanto come proiezione verso il superamento di ogni aspetto individuale”[9]. Anche la fede in Dio che ama non condurrebbe alla convinzione della continuità della vita personale: “La mia fede non si basa per nulla sull'ipotesi o la speranza di una mia sopravvivenza personale, ma sulla fiducia che il Dio di tutto l'insieme vale più dell'individuo che mi rappresenta. Non la mia ma la tua volontà è una frase che non mi pesa dire, perché ho fede che sia il meglio per tutti”[10].

Queste riflessioni mi richiamano le pagine di Raimon Panikkar sulla goccia e l’acqua della goccia.

Egli scriveva:  “Vediamo cosa accade quando una goccia umana di acqua muore, quando “si perde” nel mare. La nostra risposta dipende da ciò che siamo: la goccia d’acqua o l’acqua della goccia. Cosa rappresenta un essere umano: lagoccia o l’acqua? Cosa costituisce l’uomo: lasua “goccia” o la sua “acqua”? L’uomo e ladifferenza quantitativa fra le gocce o ladifferenza qualitativa fra le acque?Quando la goccia cade nell’oceano, latensione superficiale che la separa da ognialtra goccia, la barriera che previene unatotale, profonda comunicazione e unagenuina comunione certamente sparisce. Lagoccia non esiste più come goccia. Dopo lacaduta nell’oceano, questa piccola gocciad’acqua separata, insieme al tempo e allospazio che la individualizzavano, non e più. Altrettanto alla morte l’individualità dell’uomo è assorbita in Brahman o ritorna alla sua matrice Cosmica o si scioglie in Dio o è unita a Lui. L’individuo è annichilito, cessa di esistere, e trasformato in ciò che era (o era detto essere) e via dicendo. Se l’uomo è la goccia e se questa goccia cade nel mare allora questo individuo è veramente morto. La morte è ontologica (ovviamente nei termini dell’essere della goccia). L’acqua della goccia, però, non subisce lo stesso destino. Continua a essere, non ha perso nulla, non ha smesso di essere ciò che era. L’acqua di questa goccia è ora in comunione con l’acqua dell’intero oceano senza aver perso nulla. Certo, può aver subito alcuni mutamenti, ma nessuno di essi ha spogliato la goccia del suo essere in quanto acqua. Lo stesso vale per l’uomo, che realizza se stesso pienamente nella morte, che diviene ciò che in realtà è sempre stato, benché prima della morte non sia (o non sembri essere) questo reale essere dal momento che ha identificato il proprio essere con il suo passato temporale o con i suoi parametri spaziali. La morte sfonda le barriere dello spazio e del tempo, e forse anche quelle della limitata coscienza dell’uomo. Questo cambiamento, tuttavia, non può essere cosi sostanziale o fondamentale da poter parlare di una mutazione o di una differente vita. L’acqua trova se stessa. L’uomo realizza se stesso. Vita mutatur non tollitur! La morte è fenomenica (ovviamente nei termini dell’acqua della goccia)”[11].

Il discorso però potrebbe svilupparsi in altra direzione. Teilhard de Chardin per esempio insisteva sul principio dell’unione differenziatrice. Nei processi evolutivi più si partecipa alla vita più ci si distingue. Si potrebbe dire che alla fine la membrana che ci identifica nella nostra identità non scompare ma diventa trasparente e consente l’osmosi integrale dei flussi vitali. Ciascuno così assume in modo proprio le ricchezze comuni per cui a maggiore comunione di beni corrisponde una più perfetta distinzione dei singoli soggetti. L’azione creatrice sviluppa in tale modo una varietà molteplice di creature che partecipano alla stessa infinita perfezione con modalità diverse. In questa prospettiva sarebbe la singolarità a caratterizzare la continuità della vita fondata sulla continua azione creatrice di Dio.

La terza serie di interrogativi riguarda la possibilità del fallimento personale. Supposta la continuità della vita resta il problema delle condizioni per giungere al compimento. È possibile infatti non sviluppare le strutture spirituali necessarie alla vita futura. Non tutti perciò pervengono al compimento personale e quindi non tutti sono in grado di attraversare la morte da vivi.

In questo caso l’analogia più pertinente è quella del feto che cresce e si sviluppa fino ad essere capace di una modalità nuova di esistenza. Ma se per un incidente di percorso non sviluppa alcune strutture necessarie per la sua vita futura per il feto la nascita coincide con la sua morte: esaurisce le possibilità di vita.

Anche Panikkar ha ammesso la possibilità del fallimento personale e l’ha illustrata con la stessa analogia della goccia d’acqua che può evaporare o disperdersi prima di pervenire all’oceano.

“Anche se realizziamo che siamo acqua, dobbiamo continuare a diventare acqua, sempre e di nuovo, perché siamo sì acqua, ma un’acqua che non è del tutto liberata, un’acqua che può svanire perché manca di “peso” o di “gravità” o, potremmo dire, di maturità. La goccia può non riuscire a crescere e non cadere in mare. Può semplicemente sparire prima di aver avuto il tempo di raggiungere l’oceano. Il risultato e ciò che qualcuno chiamerebbe inferno: un aborto, uno strappo nel tessuto della realtà, una goccia d’acqua evaporata”[12].

Giunti a questa scoperta l'interpretazione dell'esistenza personale, degli altri, della storia, cambia completamente. Si apre quello che viene chiamato «il terzo occhio». A questo sguardo la propria esistenza si configura come l'ambito dove la Vita stessa prende coscienza di una sua modalità di emergenza particolare; l'altro, ogni altro, appare come la rivelazione di una nuova forma della Vita; la storia come il suo dispiegarsi nel tempo. La morte acquista la figura di una meta condizionata dal percorso. Anche imparare a morire dipende dalla modalità di esistenza.

La presenza di Dio

La fede in Dio non gioca un ruolo primario in queste pagine. Antonio stesso lo riconosce “Più di un lettore mi ha chiesto quale importanza attribuisco alla fede in questo mio studio, meravigliandosi che non abbia ancora affrontato l'argomento in maniera diretta. Rispondo che per me ha importanza fondamentale”[13]. Ne parla in modo sommario solo negli ultimi capitoli per due motivi “il primo è che qualsiasi discorso di fede rischia di restare intrappolato nelle ambiguità, e quindi credo necessario cercare prima di capire meglio me stesso, e in particolare le mie contraddizioni e il mio attaccamento a quello che possiedo” il secondo perché ne ha trattato in altri libri.

Tuttavia si tratta di un tema fecondo. La fede in Dio infatti qualifica l’esperienza quotidiana proprio in ordine al suo compimento. La fede in Dio pone la morte e la continuità della vita in un modo radicalmente nuovo. Possibile che un amore non resti definitivo? Se è divino? Possibile che se ogni soggetto umano è chiamato a diventare figlio di Dio, la fedeltà nel cammino non conduca ad una forma personale di esistenza definitiva? Ad assumere un “nome scritto nei cieli” (Lc. 10,20) come afferma Gesù, un nome pronunciato da Dio per sempre? Antonio sembra avvertire il fascino di questa prospettiva ma non pare modificare la prospettiva. Scrive: “L’individuo è una potenzialità vitale, ma se resta individuo non può che uscirne sconfitto, perché esiste soltanto in forma temporanea, destinata quindi a passare. Ora la prospettiva indicata da Gesù potrà essere più o meno credibile, ma ha indubbiamente il suo fascino: se provo attrattiva verso l’insieme, e cioè voglia di espandermi nell'oltre, voglia di perdere la mia identità individuale per coinvolgermi con la vitalità dell'insieme, allora potrebbero aprirsi altre prospettive”[14].

Certamente in molte situazioni storiche sorge l’interrogativo che, che secondo Christiane Singer, risuona di fronte alle tre croci del Calvario. “Se questo è il risultato ed è uguale per tutti che cosa serve aver amato sino alla fine?”. È valsa la pena spendere la vita nell’amore se questo è il risultato? La risposta sta nelle risorse dell’amore divino: “al di là dei disastri delle nostre biografie, al di là persino della gioia, della pena, della nascita e della morte, esiste uno spazio che nulla minaccia, che nulla ha mai minacciato e che non corre alcun rischio di distruzione, uno spazio intatto, quello dell’amore che ha fondato il nostro essere”[15].

L’amore fontale di Dio è ciò che rimane quando non resta più nulla. Per ogni creatura umana nella morte resta solo l’amore che si è accolto e che si è diffuso. Se l’amore è riflesso di una energia creatrice è diventato struttura vitale, ha costruito e alimentato una dimensione spirituale,  certamente ha aperto varchi su un futuro arcano.

In questo caso la morte non è un evento che si richiude su se stesso. Consegna una eredità spirituale che fa avanzare l’umanità intera. Morire allora è affidare ad amici le strutture spirituali emerse lungo il tragitto perché altri continuino il cammino dello Spirito sulla terra, mentre il dono consegnato apre varchi verso l’Infinito. Ogni esercizio di amore oblativo e creatore perciò insegna a morire. Imparare a morire consiste in definitiva nel vivere in modo tale da fare della morte una rivelazione dell’amore.



[1] Coyne G., in AA. VV., Dio oggi: con lui o senza lui cambia tutto, Cantagalli 2010, p. 189
[
2] Balmary M., Il monaco e lo psicanalista. In dialogo per un’autentica libertà interiore,  Paoline, Milano 2008 p. 22
[3] Id., ib., p. 117.
[4] Thellung A., Accanto al malato… sino alla fine, Ancora, Milano 1998
[5] Thellung A., qui n. 5 p. 21
[6] Coyne G., in AA. VV., o. c.. p. 190.
[7] Thellung A., qui n. 35 p. 128.
[8] Thellung A., qui n. 32 p. 109.
[9] Thellung A., qui n. 33 p. 112.
[10] Thellung A qui n. 8 p. 30.
[11] Panikkar R., “La goccia d’acqua, una metafora interculturale” in Mito Simbolo, Culto, Jaca Book, Milano, 2008, a cura di Milena Carrara Pavan. Cap. IV
[12] Panikkar R., “La goccia d’acqua, una metafora interculturale” in Mito Simbolo, Culto, Jaca Book, Milano, 2008, a cura di Milena Carrara Pavan. Cap. IV
[13] Thellung A., qui n. 21 p. 71.
[14] Thellung A., qui n. 35 p. 117.
[15] Singer Ch.,, Dove corri se il cielo è in te,  Servitium Bergamo 2010 p. 60







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