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Siamo forse il contrario di Dio?

un invito a coltivare la speranza

 
Antonio Thellung
Siamo forse il contrario di Dio?
un invito a coltivare la speranza
Altrimedia edizioni - Matera 2015
pagg. 128 - € 12,00
 
 
 
 
 

Intervista ad Antonio Thellung di Luca Kocci

 

Siamo forse il contrario di Dio?

 
 
 

I titoli dei libri di Antonio Thellung («di professione sposo, padre, nonno e bisnonno», come si descrive egli stesso, ma anche saggista e fondatore e animatore di comunità di fede e di ricerca spirituale) sono spesso paradossali: L'inquieta felicità di un cristiano (Paoline, Milano 2009, v. Adista Segni Nuovi n. 66/09), Una saldissima fede incerta (La meridiana, Molfetta 2011, v. Adista Notizie n. 41/11), Sto studiando per imparare a morire (Altrimedia, Roma 2014, v. Adista Segni Nuovi n. 22/14). L’ultimo volume pubblicato, uscito in questi giorni per i tipi di Altrimedia Edizioni, conferma questa scelta: Siamo forse il contrario di Dio? (pp. 128, euro 12, acquistabile anche presso Adista: tel. 066868692, e-mail abbonamenti@adista.it, sito internet www.adista.it).

 

Thellung propone una tesi originale: se Dio è tutto in tutti, che cos'è l'individuo che, per sua natura, si distingue da tutto il resto? Chi si trova a vivere in prima persona drammatiche esperienze che ricordano Giobbe, non fatica a credere che l'inferno si trovi su questa terra, come dicevano Schopenhauer o Italo Calvino. L'unico modo per non farsi travolgere è imparare a intrecciare insieme felicità e angoscia, è riuscire a sorridere anche con la morte nel cuore. 

 

Thellung, perché il contrario di Dio?

 

Se Dio è tutto in tutti, come dice san Paolo, mi domando: che altro potrei essere considerato io, piccolo individuo limitato che istintivamente vorrebbe distinguersi da tutto il resto, se non il suo contrario? Secondo me, questa tesi ha un sostegno teorico inoppugnabile che personalmente ho scoperto più di sessant'anni fa. Ma sembra che ci sia un'istintiva paura inconscia a riconoscerlo e ammetterlo, tanto che finora pochi hanno recepito il messaggio, e nessuno, tra quelli che contano, mi ha mai dato retta.

 

Non è ambiguo dire così? Non rischia di far credere a una contrapposizione insuperabile?

 

Credere che contrario significhi contrapposto è uno dei più diabolici inganni, presente soprattutto nell'inconscio collettivo. Per questo il contrario viene concepito dai più con un significato artefatto, che spinge a negare l'evidenza, per timore di cadere in qualche forma di disperazione. Così il gioco diabolico è fatto!.

 

E invece? 

 

Basta riflettervi con serenità per capire che il senso è diverso. Ogni parziale è il contrario del totale, al quale appartiene. E così si può dire del limite nei confronti dell'illimitato, del finito nei confronti dell'infinito, del relativo nei confronti dell'assoluto. Insomma, i contrari non sono nemici fra loro ma, caso mai, complementari, ed è la percezione di poter riposare nel proprio contrario che può dare serenità e speranza a ogni essere limitato. Un contrario a cui sento di appartenere e dal quale nulla potrà mai separarmi.

 

Una tesi suggestiva che però non elimina le perplessità…

 

Ma in quest'ottica diventa chiaro. Contrario del bene non è il male in sé – che da solo non esiste, secondo la stessa teologia tradizionale – ma bene e male mischiati assieme, proprio come nel nostro mondo terreno. Per questo io che sono un po' buono e un po' cattivo a un tempo, riconosco di essere il contrario di Dio. E aggiungo che da quando l'ho scoperto la speranza non mi ha più lasciato, perché ho capito che la mia vita serve a dimostrare quel che Dio non è. È una grande consolazione per tutte le sofferenze che accompagnano la mia esperienza di vita.

 

Questa tesi come viene articolata nel volume?

 

Il libro, che ho cercato di rendere leggero e di agile lettura, è diviso in tre parti. Intrecciando tra loro drammi della mia vita personale e drammi dell'umanità. Nella prima parte ho cercato di uscire dalle teorie per mettere in evidenza il vissuto, che è intessuto di tutte le contraddizioni intrinseche di un mondo diabolico e meraviglioso a un tempo. La seconda parte è una sorta di “teologia pensata”. Anche se molti dicono che è inutile inseguire spiegazioni comunque incomprensibili, da parte mia credo invece che sia possibile intuire qualche significato. Perché non rifletterci a fondo, dunque? Altrimenti che cosa lo abbiamo a fare il pensiero, che pur nelle sue ambiguità è capace di esprime anche le parti più nobili del nostro essere? Tali riflessioni, poi, mi portano a immaginare che la speranza sia capace di svolgere il suo mestiere anche in un mondo diabolicamente contraddittorio come il nostro. La terza parte del libro, perciò, è dedicata alla “teologia sperata”, che mi accorgo capace di tenerci sempre vivo davanti agli occhi il positivo che la vita esprime, malgrado tutto. Un positivo che per esperienza posso dire capace di mantenere vivo il sorriso perfino quando si ha la morte nel cuore. A me non sembra poco.

 

Il sottotitolo è “Un invito a coltivare la speranza”, ma leggendo la prima parte il lettore potrebbe sentirsi scoraggiato…

 

Spero che nessuno cada in questo inganno: sperare non è negarsi la realtà ma scoprire, qualunque sia il presente, se esiste un futuro positivo. E crederci. Ma come punto di partenza è indispensabile chiamare le cose con il proprio nome. Del resto vorrei sottolineare una coincidenza: nel momento stesso in cui era in stampa questo libro, che parla di tragedie mondiali, terrorismo compreso, a Parigi era in corso la strage del 13 novembre, quasi a voler sottolineare la diabolicità di questo mondo. E tuttavia, a mio modo, non perdo affatto la speranza e invito tutti a lavorare per un mondo migliore, atteggiamento che è già in sé una proiezione escatologica, mentre diabolico sarebbe ritirarsi nel privato, consolidando ancor più le contraddizioni.

 

A te piace usare un linguaggio paradossale – lo dimostrano anche i titoli di altri tuoi libri –, ma in fondo parlare di contrario di Dio potrebbe anche essere soltanto un modo di dire suggestivo…

 

No, non è solo un modo di dire, è rovesciare l'ottica: è convertirsi. Abitualmente è facile sostenere che Dio è al primo posto, ma poi è ancor più facile sentir affermare se stessi e la propria individualità, per illudersi di potersi fare simili a lui. Questo è parte della nostra realtà diabolica. Qualunque cosa che non sia Dio, cioè qualsiasi realtà limitata, è inevitabilmente un disastro, e pensare che rifletta le caratteristiche del Creatore è fuorviante. Non perché sia negativa la sostanza, che è sempre e comunque divina (non ne esiste altra), ma sono i limiti a introdurre elementi diabolici insuperabili, a meno che non vengano letti in prospettiva divina. Anche il concetto di creazione viene rovesciato, anche il trascorrere del tempo si rovescia, tanto che può essere corretto dire che l'essere umano è creato a immagine e somiglianza di Dio, ma solo come punto di arrivo, non di partenza. Quando tutto sarà compiuto.

 

Ma questa tesi che cosa cambia nella vita quotidiana?

 

Secondo me la differenza può essere grandissima, direi che può diventare un formidabile alimento della speranza. Ma non si può parlarne così, in poche parole. Per tentare di farlo a ragion veduta ho finito per scrivere un intero libro. È stata un'iniziativa personale che spero potrà diventare condivisa con chi lo leggerà. Vogliamo finire con una battuta di spirito?.

 

Certamente.

 

Ricordo che molti anni fa, quando ero un giovane intelligente, leggendo il verso di Gozzano che dice «che bisogno c'è mai che il mondo esista?», come risposta mi ero inventato un breve racconto paradossale. «Un tempo c'era solo Dio, che era perfetto nel suo assoluto bene. Aveva però una preoccupazione: come faccio a sapere che sono proprio Dio se null'altro esiste? Così ha creato il mondo, che essendo diverso da lui è inevitabilmente un disastro, pieno di quel che si usa chiamare male. Da allora è costretto a lavorare incessantemente per riportarlo al bene, ma non è più preoccupato perché il caos del mondo dimostra che Dio è proprio lui». In altre parole, che cosa potrebbe essere il contrario di questa nostra realtà così caotica e insensata? Concluderei dicendo che mi sento felice e fiero di offrire a Dio la sua dimostrazione. 

Dalla quarta di copertina

 

 

Contrario non significa contrapposto: il vero contrario del bene non è il male (che da solo non esiste) ma bene e male mischiati assieme. «Per questo io che sono buono e cattivo a un tempo capisco di essere il contrario di Dio» dice l'autore. Le deduzioni sono paradossali: «da quando l'ho scoperto, la speranza non mi ha più lasciato» aggiunge «perché ho capito che la mia vita serve a dimostrare quel che Dio non è».

 
 
Per ordinarlo:

http://www.altrimediaedizioni.com/shop-altrimedia/siamo-forse-il-contrario-di-dio/

 

Dal primo risvolto di copertina


Che bisogno c'è mai che il mondo esista, si chiedeva Guido Gozzano. Partendo da esperienze vissute, che da un lato comprendono sessantacinque anni di felice vita coniugale, e dall'altro il diabolico dramma di un figlio ormai gravemente malato, l'autore propone una sua spiegazione originale: se Dio è tutto in tutti, come diceva San Paolo, che cos'è l'individuo che, per sua natura, si distingue da tutto il resto?

 

Chi si trova a vivere in prima persona drammatiche esperienze che ricordano Giobbe, non fatica a credere che l'inferno si trovi su questa terra, come dicevano Schopenhauer o Italo Calvino. L'unico modo per non farsi travolgere è imparare a intrecciare insieme felicità e angoscia, è riuscire a sorridere anche con la morte nel cuore.

 


dalla

 

Premessa

 

    

     È molto vivo in me un ricordo di sessant'anni fa, quando mia figlia ha visto per la prima volta il mare. Non aveva ancora tre anni e quel giorno d'estate stavamo scendendo in Liguria dal Piemonte, dove aveva fatto più volte il bagno nelle pozze di un piccolo fiume di montagna sentendosi ripetere ogni volta, ai suoi trilli di gioia: «vedrai, vedrai quando saremo al mare!».

     La sua attesa era grande, e così quel giorno, giunti a mezza costa, avevo fermato l'auto su un piazzale dove la vista pareva senza confini. Ricordo che si era aggrappata alle sbarre della ringhiera, e dopo aver osservato a lungo quella sterminata distesa d'acqua, in assoluto silenzio e letteralmente a bocca aperta, si era voltata verso di me dicendo: «è questo il mare?… Così grande?...», per poi aggiungere col tono dell'ovvio: «io non posso fare il bagno, è troppo grande per me!».

     Da allora l'episodio mi è rimasto in mente, non tanto per merito della mia memoria, piuttosto fragile, ma per il fatto che nel corso degli anni mi sono ritrovato più volte di fronte a eventi dalle dimensioni inquietanti. Aggiungerei però che fino a un certo punto si è trattato di sensazioni piuttosto normali, mentre da quando ho cominciato a studiare per imparare a morire mi capita sempre più spesso d'incontrare aspetti della realtà che percepisco troppo grandi per me. Anzi, mi viene il sospetto che tutto sia troppo grande per me. O forse mi sto rendendo conto di quanto le mie reali dimensioni siano piccole piccole.

     Ad esempio, il fatto che ora questa mia figlia è nonna (da quasi dieci anni) mi suscita una stranissima sensazione: papà di una nonna? Ma come! Ricordo che la mia mi sembrava vecchissima (anche se quando è morta aveva otto anni meno dei miei attuali). E ora? Sono il papà di una nonna? E tuttavia non è l'unica sensazione inquietante che provo.

     Nel mio attuale studio, fatto soprattutto di auto osservazione, potrei dire di essere giunto a conclusioni che si riallacciano a quanto avevo già intuito un tempo, quand'ero un giovane intelligente tutto proiettato verso il futuro. Ora invece che ho la mente stanca e il futuro non mi appartiene più (perché alla mia età si può anche avere un lungo presente, ma non è più il tempo di programmi e progetti) gira e rigira mi trovo a riscoprire quello che fin dall'inizio del mio itinerario mi era sembrata un'intuizione paradossale, ma logica e convincente.

     Dopo aver esplorato molte strade, anche diverse fra loro, sento risuonare dentro di me sempre la stessa domanda: sono forse il contrario di Dio? E come risposta ……..

 

 

alla

Conclusione

 

 

      Si dice che Stravinskji abbia definito il suo collega Vivaldi: «quel musicista che ha composto cinquecento volte lo stesso concerto». Una battuta di spirito, ovviamente, perché non si può pensare che un grande come Stravinskji non sapesse cogliere le straordinarie sfumature vivaldiane, e tuttavia si potrebbe anche dire che aveva ragione: le strutture dei vari concerti sono molto simili. Senza però trascurare il fatto che tra l'uno e l'altro ci sono variazioni che appaiono originalissime, per chi ha l'orecchio fine.

     Per tentare un paragone, un occhio grossolano e distratto tende a vedere le volpi tutte uguali fra loro, e altrettanto le rose, ma il Piccolo Principe insegna che una volpe addomesticata e una rosa curata personalmente sono uniche e irripetibili. Senza contare che un osservatore distratto fatica a distinguere fra loro i cinesi o gli africani, mentre stentiamo a credere che, ai loro occhi, siamo noi europei ad apparire tutti uguali.

     Se penso alla mia lunga vita potrei anche dire di aver vissuto trentamila volte lo stesso giorno, e infatti in ognuno di essi il sole è sempre sorto e tramontato alla sua ora esatta, mentre tutto il resto si può considerare un dettaglio. Ma se mi soffermo a ricordare qualcuno di questi dettagli, mi accorgo che le differenze tra un giorno e l'altro, e perfino talvolta tra un'ora e l'altra, non sono state soltanto sfumature.

     Giunto ora al termine di questo mio nuovo lavoro mi sorge il dubbio di aver scritto venti volte lo stesso libro, perché se è vero che la lingua batte dove il dente duole, per analogia si potrebbe dire che la mia mente insiste su quello che percepisce come punto chiave: il rapporto tra il nostro povero individuo e il senso d'insieme della vita ……..

 

 

 


PERCHÉ SIAMO ALLA FIERA DELL'EDITORIA DAL 4 ALL'8 DICEMBRE

Dal 4 all’8 dicembre saremo a Roma, alla Fiera della piccola e media editoria al Palazzo dei Congressi. La cultura, i fatti di Parigi lo sottolineano ancora di più, ci educa al rispetto e al dialogo. Tra le altre cose noi alla Fiera dell’editoria di Roma ci andiamo con un libro che sembra, parafrasando un vecchio adagio, “cadere proprio a fagiuolo”. Secondo capolavoro di Antonio Thellung per Altrimedia Siamo forse il contrario di Dio? Invito a coltivare la speranza è un memotac per la nostra superficialità e ignoranza, che coccola i nostri sogni e stimola il nostro coraggio. Ce n’è per tutti, perché la vita va coltivata! Appuntamento a Roma al Palazzo dei Congressi, stand N05 (accanto al “Caffè letterario”) alle 13.00 di sabato 5 dicembre o in qualsiasi altro giorno dalle 10 alle 20.

 

 

 

 

 

 

 

 

Presentazione di Gian Luigi Prato
alla Fiera della Piccola Editoria.
Palazzo dei Congressi, Roma, 5 dicembre 2015 ore 13,00

 

Se volessimo collocare questo libro in un genere letterario preciso, non lo troveremmo forse tra quelli solitamente elencati nei repertori della retorica classica, e se quindi tentassimo di inventarne uno che si adatti al suo contenuto, lo potremmo definire come il genere della autobiografia teologica. Esso andrebbe inteso non nel senso che si proceda qui linearmente dal vissuto alla teologia, o anche viceversa, ma nel senso che vissuto e teologia interferiscono insieme e si intrecciano strettamente nell'esperienza personale dell’autore. Questo ho trovato infatti di particolarmente originale nel libro: una riflessione di vita che si trasforma in teologia, ma sempre rimanendo immersi nell’alveo del proprio vissuto. E ciò che si trasforma di fatto in teologia è suggerito dalla riflessione su due argomenti, o se si vuole, su due principi esistenziali di fondo. Il primo riguarda la coesistenza tra l'assoluto (cioè Dio) e il relativo (ossia ciò che non è Dio o è diverso da lui): questa coesistenza consiste nel fatto che il relativo resta sempre all'interno dell'assoluto e ne costituisce un elemento essenziale. Ne consegue che il male non ha consistenza in se stesso, ma è un aspetto del relativo. Così formulate, questa asserzioni possono sembrare forse un po’ astratte, ma vedremo poi come si esprimono a livello esistenziale nel decorso dell’esposizione “autobiografica” dell’autore.

 

Il secondo principio di fondo è tratto dall’affermazione paolina secondo la quale “Dio è tutto in tutti” (cfr. 1Cor 15,28), ma nel senso che “la frase… assume uno straordinario significato paradossale: Dio diventa quello che è” (p. 67). Si intravede già di qui come il libro si collochi in una prospettiva totalizzante e universale, che si traduce in un appello alla speranza.

 

Il libro inizia evocando la figura del Giobbe biblico. Nel proseguire la lettura, mi sono convinto sempre di più che il suo contenuto non è una parafrasi di quello scritto (per semplice affinità tematica), ma è per così dire un libro di Giobbe riscritto in chiave moderna. E a questo proposito vorrei sottolineare che quel libro biblico, per sua natura e a differenza degli altri, si presta più che mai ad esegesi non specialistiche. Tutti possono diventare esegeti del libro di Giobbe, perché chiunque lo legga identificandosi a fondo con la sua problematica può replicare l’esperienza del suo autore, e come lui può essere in grado di ripercorrere il medesimo itinerario esistenziale, con le medesime argomentazioni e con la stessa pervicacia, fino all’incontro finale con Dio. In questo caso, Giobbe si trasforma non solo in Thellung vivente, ma anche in Thellung autore letterario di un analogo libro.

 

Anni fa Gianfranco Ravasi, oggi Cardinale, aveva scritto un ampio commentario al libro di Giobbe, dedicando una vasta sezione introduttoria alle risonanze e agli influssi che quello scritto ha esercitato sulle varie espressioni teologiche e culturali  che ad esso più o meno espressamente si sono richiamate, e tra queste vi è anche quella letteraria  moderna (“Giobbe nostro contemporaneo”). Ora, il libro di Thellung potrebbe collocarsi degnamente nella scia di quest’ultima, quale suo qualificato rappresentante ed epigono, e non tanto perché ripropone ancora una volta la tematica del Giobbe biblico, ma perché ne traduce il libro in una versione parallela. Vorrei tentare appunto di mostrare come si snoda il percorso espositivo del testo di Thellung, sullo sfondo di quel libro.

 

Entrambi si dividono in tre parti. Una prima, che Thellung ha intitolato teologia vissuta, presenta anzitutto le disavventure che hanno colto lui e la sua famiglia, e poi in crescendo le catastrofi naturali e le tragedie che si sono abbattute sul mondo, fino a quelle dei nostri giorni. Naturalmente, questi mali possono impressionare per la loro quantità, come accade del resto nel libro di Giobbe, dove sono dovuti all’interventi di Satana. Tra l’altro, nelle battute iniziali del libro (come nel prologo di quello di Giobbe) si accenna proprio al Satana che è presente nell’assemblea divina, e lo si interpreta come “il contrario di Dio”: egli agisce all’interno di un mondo divino senza del quale non potrebbe esistere, ma rappresenta ciò che Dio non può essere, cioè la fonte diretta dei mali che si riversano sulla terra. Senza dubbio, questa può essere ritenuta un’ottima interpretazione della figura di Satana che, in tal senso, può collocarsi anche all’origine dei mali vissuti da Thellung. Va rilevata però una differenza fondamentale, in questa prima parte del libro, per quanto riguarda le mogli dei rispettivi protagonisti: mentre quella di Giobbe lo invita a maledire Dio, quella di Thellung figura invece come una speranza vissuta e condivisa, come un fattore positivo che la sorregge soavemente; non solo in un capitolo a lei dedicato, ma in tutto quanto il libro essa costituisce il motivo dominante di una vita coniugale perfettamente riuscita. E forse anche per questo nell’ultimo capitolo di questa prima parte (“Il bello della mia vita”) Thellung può concludere che le tragedie vanno affrontate al meglio: non si tratta di un consuntivo ingenuo o superficiale, se questa affermazione può essere accostata a quanto confessa il Giobbe biblico al termine della prima parte dell’omonimo libro: “Il Signore ha dato, il Signore a tolto, sia benedetto il nome del Signore”, cui segue  la sintesi valutativa dell’autore: “In tutto questo Giobbe non peccò e non attribuì a Dio nulla di ingiusto” (1,21s.).

 

Nella seconda parte del libro biblico, com’è noto, intervengono i tre cosiddetti “amici” di Giobbe, che disputano con lui e vogliono attribuire le sue sofferenze a una causa precisa, sulla base di una teologia deterministica: se egli soffre, ci sarà pure un motivo, la sua situazione deve essere riconducibile a qualche evento accaduto a monte. Ora, anche nel libro di Thellung inizia qui una seconda parte, da lui chiamata teologia pensata, dove si ribadisce a più riprese che il male è limite di bene, è un parassita, e un male assoluto non esiste. Mentre leggevo queste pagine, mi chiedevo quale potesse essere l’analogia con i tre amici, e se si potesse individuare anche qui un parallelo con il libro di Giobbe. Ma è bastato andare poco oltre, all’inizio della terza parte, per trovare nelle parole stesse di Thellung la risposta più chiara: “Gli amici e interlocutori di Giobbe, che le sparano grosse cercando spiegazioni artificiose, sbagliano perché attribuiscono a Dio quello che accade, mentre non si tratta di azioni sue ma del suo contrario” (p. 80). La tenacia con cui Thellung ripropone costantemente la sua tesi, in questa parte del libro, ricorda del resto la stessa figura di Giobbe: contrariamente a quanto possa sembrare e nonostante il luogo comune che vede in lui un uomo paziente, egli è saldamente ostinato nel difendere la propria asserzione di innocenza, tanto da voler andare in tribunale a disputare con Dio stesso. Nell’atteggiamento di Thellung, che certo qui non affronta espressamente alcuna controparte in forma dialogica, permane dunque la convinzione del Giobbe biblico che il male non lo si può spiegare, perché è il contrario del bene, e se lo si volesse spiegare si cadrebbe nell’errore degli amici, che a loro volta (si badi bene) alla fine sono condannati da Dio, quando dice a uno dei tre: “La mia ira si è accesa contro di te e contro i tuoi due amici, perché non avete detto di me cose rette come il mio servo Giobbe” (42,7). Anche questa “teologia pensata” trova dunque piena corrispondenza in quella di Giobbe, inteso come personaggio e come libro.

 

Veniamo infine alla terza parte, chiamata qui teologia sperata. Nel libro di Giobbe essa consiste nell’intervento di Dio che interpella il protagonista elencandogli le opere possenti che ha posto in atto con la creazione del mondo, chiedendogli se sia capace di fare altrettanto. Giobbe si trova spiazzato: vorrebbe trovare la soluzione ai suoi problemi, ma non gli viene rivelata; rimane solo a bocca aperta, confessando di non capire più nulla ma di restare meravigliato, con atteggiamento però che non è per nulla rinunciatario (così infatti possono essere intese le sue parole, quando ammette: “Davvero ho esposto cose che non capisco, cose troppo meravigliose per me, che non comprendo”, 42,3). Il libro di Giobbe, termina poi con un lieto fine, che riconduce lo sventurato alla sua situazione originaria, ed effettivamente si potrebbe ritenere che si voglia dare così una certa soddisfazione al lettore, con una chiusura della favola che in realtà potrebbe sembrare alquanto banale. Invece il libro di Thellung unisce insieme l'intervento di Dio con un finale più concreto e realista. Il lieto fine qui è solo intravisto e proposto, restando aperto, e nello stesso tempo, implicitamente, riprende le stesse affermazioni di Giobbe di fronte a Dio. Emerge qui con forti tratti la figura di un Dio ineffabile che però non pone fine alla ricerca. Richiamandosi a Meister Eckhart, Thellung da un lato sostiene a chiare lettere che “se potessi capire Dio, quello non sarebbe Dio” (p. 79), e dall’altro ammette che «per quanto mi riguarda potrei dire che il gusto della ricerca sopravanza di gran lunga la speranza di trovare delle risposte» (p. 80). Verrebbe in mente qui Miguel de Unamuno, con la sua appassionata ansia della ricerca, pur nella convinzione di non poter mai trovare risposte. Una ricerca eroica, quindi, che è destinata a non desistere mai. Ma proprio qui si riscopre il valore della speranza, quale punto finale, più che come soluzione, di tutto l’itinerario del libro. E quindi la tesi iniziale si ripropone ora in termini solo apparentemente più modesti: “È troppo grande per me, non solo Dio ma il suo contrario, non solo quel che è grande ma anche quel che è piccolo” (p. 99), e ancora: “Fin qui ci arrivo e mi sembra abbastanza, di più non saprei dire perché, nei miei limiti, mi manca la capacità d’indagare oltre” (p. 117), senza tuttavia rifugiarsi nella rinuncia, come ribadiscono le parole conclusive: “Non ti conosco, non ti posso conoscere, sei troppo grande per me. Ma ora che ho capito di essere il tuo contrario la speranza mi tiene compagnia” (p. 125).

 

Trasfusa in un simile atteggiamento umile ma fiducioso, l’ipotesi di essere il contrario di Dio non si cura neppure di prospettare una risoluzione individualistica. Thellung è disposto infatti perfino a rinunciare alla propria salvezza personale, purché ci si possa inserire in una salvezza universale, dove Dio deve diventare “tutto in tutti”.

 

Vorrei aggiungere ancora qualche parola per mostrare come la problematica di cui tratta il libro di Thellung non solo rispecchi la vicenda di Giobbe, da cui parte espressamente e sul cui telaio intesse la propria strutturazione, ma riprenda temi presenti anche in altri ambiti storici, con proposte in qualche modo simili. Mi sembra interessante richiamare in proposito due tradizioni che, intrecciandosi tra loro, sono venute a formare il nostro patrimonio religioso e culturale.

 

La prima riguarda il mondo ebraico posteriore a quello in cui è sorto il libro di Giobbe, ma non si tratta della tradizione rabbinica bensì di quella confluita nella mistica e nella qabbalah. Qui si ritiene che Dio si sia contratto per lasciar spazio al mondo (zimzum è il termine ebraico con cui si indica questo restringimento). Il mondo esiste perché Dio si è messo da parte. Ma all’inizio si è verificata una “rottura dei vasi” che contenevano il fuoco e la luce e le scintille si sono sparse nell’universo creato, dando origine alla commistione tra bene e male. Con un processo di “restaurazione” (detto tikkun) queste scintille racchiuse nella realtà materiale vengono ricondotte alla loro situazione originaria. In questa contrazione di Dio si può intravedere il rapporto che Thellung stabilisce tra l’assoluto e il relativo, e in quest’ultimo risiedono quei semi di bene che la speranza porta a maturazione. E la ricongiunzione finale delle scintille nel loro stato originario può essere l’analogo del Dio che è “tutto in tutti”, nonostante il fatto che questa visione cosmologica della qabbalah non riesca ad evitare un certo pericolo dualistico, in quanto le scintille devono essere liberate da una materia che può conservare una sua consistenza.

 

L'altra tradizione che vorrei ricordare è ben nota a tutti: si tratta del vaso di Pandora. Il mito greco narra che gli dei, quando hanno creato gli esseri umani, trattennero per sé i beni di civiltà. Prometeo però rubò il fuoco agli dei e lo portò sulla terra, suscitando la reazione di Zeus che decise di punire l'umanità. Diede allora ordine ad Ermes di creare una donna, alla quale vari dei fecero un dono: essa è stata chiamata appunto Pandora, “perché tutti coloro che abitano l’Olimpo le diedero un dono, una rovina per gli uomini industriosi” (Esiodo, Opere e giorni 82) ed è stata data in moglie ad Epimeteo, fratello “stolto” di Prometeo, l’”astuto”; Epimeteo ha trasgredito così l’ordine del fratello, che gli aveva raccomandato di non accettare doni dagli dei. Pandora aveva con sé un vaso, donatole da Zeus con la raccomandazione di non aprirlo; ne sollevò però il coperchio e allora dolori e guai si riversarono tra gli uomini. Solo la speranza rimase nel vaso, e non fece a tempo a sfuggire prima che Pandora lo richiudesse. In questa contesa tra gli dei e gli uomini, che riguarda il possesso dei beni di civiltà, di fronte al propagarsi dei mali soltanto la speranza resta salda. Essa acquisisce in tal modo tutto il suo valore redentivo, come segno di ricupero e di reintegrazione. Non a caso, dunque, nel libro di Thellung ad essa si fa appello con la medesima finalità, e il libro stesso vuole essere per chi lo legge un giustificato invito a coltivarla.

 

Concludo con tre riflessioni. La prima è che il libro non è per nulla assiomatico. Non intende sostenere o difendere una dottrina; anzi, l’autore dubita ripetutamente delle cose che dice, e torna quindi più volte sulle sue affermazioni: quasi si direbbe che le propone con un certo timore. Il punto interrogativo posto nel titolo trova pieno riscontro nel tono sommesso con cui  è condotta l’argomentazione all’interno. E questo anzitutto perché il problema del male non ha soluzioni, e da parte sua il libro lo conferma chiaramente. Ma ciò non vuol dire che il “contrario di Dio”, come viene spiegato in queste pagine, non abbia un senso e non sia accettabile.

 

La seconda osservazione è che le argomentazioni esposte calzano in ogni caso, tanto che Thellung, nel suo stesso dubitare, ritiene che la sorta di soluzione da lui suggerita resterebbe valida anche nel caso in cui egli si sbagliasse. Ciò può sembrare paradossale ma a ben vedere, se si riflette sul modo con cui è condotto il discorso e sulla via di uscita dal male che qui si lascia intravedere, ci si accorge di essere coinvolti in un organismo o in un tutto da cui in realtà è impossibile trarsi fuori in altra maniera. È quello che l’autore vuole far capire con l’immagine dell'ologramma, “che è una figura nella quale non solo l’intero comprende ogni parte, ma anche dove in ogni parte viene riflesso l’insieme “ (p. 116). L'ologramma, in questo caso, si adatta bene all’argomento, perché lascia intravedere una soluzione condivisibile anche da chi non concorda con questa visione filosofica del male, anche nel caso cioè che il male venga concepito come qualcosa di diverso dalla semplice relativizzazione dell'assoluto bene. Se si tenta di tradurre tutto questo sul piano dell’esperienza soggettiva, si può capire anche una frase così formulata: “Mi sento assurdo, e mi sembra assurdo anche sentirmi assurdo”. Proiettando questa apparente contraddizione su un Dio ineffabile, si può allora concludere: “Certo che questo Dio è proprio un bel po’ misterioso, e mi verrebbe da aggiungere che lo è sia che esista, sia che non esista” (p. 107). La soluzione proposta vale sia che si condivida il processo logico esposto, sia che non lo si condivida.

 

Terza e ultima osservazione è che il libro, pur descrivendo anche esperienze personali e familiari fortemente drammatiche, lascia trapelare in tutte la fasi del suo argomentare un ottimismo di fondo che può sembrare addirittura eccessivo. Ma non si tratta di un ottimismo aprioristico, di principio, e neppure di un ottimismo derivante da un bilancio esistenziale, quello del “tutto sommato, però…”. È invece un ottimismo che si accorda perfettamente con il genere del libro, in quanto frutto di un’esperienza che si definisce teologica, che si nutre cioè di una continua riflessione sul senso della vita e di quel Dio che dovrebbe essere pensato e vissuto come origine del tutto. L’ottimismo di questa autentica “autobiografia teologica” diventa perciò credibile, e l'insegnamento che si ricava dal libro è destinato a suscitare quindi “simpatia” nel vero senso del termine, vale a dire piena condivisione del pensare e del sentire.

 

 

 

 

 

 

 

 

 




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